Pomeriggio di luglio
di Milvia Comastri
Deve esserci il frinire delle cicale a
sgretolare il silenzio, più avanti, dove i campi sembrano inghiottire l'ultima
casa del paese. E sul greto del fiume ci saranno le lucertole che riposano
all'ombra di un masso, immobili come statuette di giada. E ci sarà il volo in
picchiata dei gabbiani che cercano cibo nella vicina discarica abusiva. E
l'odore salato del mare, più lontano, con la sua spiaggia vuota e sporca,
ferita dal nero della nafta.
Nella
piazza del paese la luce del pomeriggio scolora i contorni dei muri, li dilata,
come in una fotografia sovra-esposta. E' una luce bianca, che sembra voler
uccidere le ombre.
Gli
uomini hanno abiti scuri, pesanti.
Le donne
indossano vestiti neri, fazzoletti neri annodati sotto il mento, scarpe nere
con le punte che per l'usura si stingono in un colore biancastro.
Le donne
sono anziane. Si fanno scivolare un rosario fra le dita di una mano, con
l'altra si tengono al braccio di un figlio, di un marito.
Il prete
è viola e nero, e sta davanti con l'asta della croce dorata stretta fra le mani
sudate.
Il
portone della chiesa è spalancato. L'odore dell'incenso rimane sospeso fra i
gradini d'accesso e il legno fessurato della porta;
si allunga a miscelarsi col profumo appiccicoso dei fiori che stanno avvizzendo
velocemente.
Rolando Locascio
immagina già come sarà il bruciore degli occhi, quando le gocce di sudore gli
scivoleranno dalle sopracciglia. Stringe le palpebre, cercando di evitare
l'impatto. E' in quell'attimo che scorge un lampo rosso
e oro, alla sua destra. Una femmina, realizza, una femmina bella. E la bara gli sembra
ancor più pesante.
Sono in
sei a portarsi sulle spalle quel legno che racchiude le massicce spoglie di don Mimì Calafura, detto ‘u
lampo. I sei fedelissimi. Hanno allontanato gli uomini delle pompe funebri.
Hanno detto lo portiamo noi, un'unica
voce. Ora stanno grondando
sudore, e procedono piano cercando di non vacillare. Don Mimì è
stato il loro capo per anni, li ha tirati su da quando
erano solo dei ragazzini da niente. Gli ha insegnato tutto. Ad ascoltare, a
guardare, a tacere, a riferire, a obbedire, a non tradire, a
essere convincenti, a capire immediatamente quando la polvere bianca è buona, a usare il coltello, a sparare. A
muoversi lenti, con passo leggero, per cogliere l'altro di sorpresa. Gli ha
insegnato a correre e fulminare in un attimo. Gli ha insegnato che nessuna
donna è affidabile, che non c'è femmina che valga la famiglia.
Rolando,
invece, le donne ce le ha sempre in testa. Lui, don
Mimì, glielo ha anche detto. Le donne a te ti rovineranno.
Non puoi stare sempre a pensare alla fessa. Ti distrae, ti leva la
concentrazione. Così gli ha detto don Mimì. E dopo due giorni è stato lui a
crepare fra le
cosce di Rosalia.
Quella
puttana li ha chiamati che ancora quasi respirava. Si sono trovati tutti e sei
nella villetta bianca, hanno caricato don Mimì in macchina, ancora con i
pantaloni abbassati. Lo hanno portato a casa.
La moglie
ha distolto lo sguardo. Ha fatto solo un cenno con il mento, per indicare la
camera da letto. Il medico ha redatto il certificato di morte. Causa del
decesso: infarto del miocardio. E' morto nel sonno, ha raccontato la mattina
dopo al bar, mentre girava lo zucchero nel caffé. La
moglie s'è svegliata e l'ha sentito freddo.
Povera donna.
Bella morte, che
minchia! pensa Rolando.
Vorrei morire così, grasso e vecchio, su un materasso di carne giovane e
morbida. E rivede
di nuovo quel rosso e oro. E una gamba abbronzata che si solleva e sparisce in
un'auto. Un movimento fluido, scorto con la coda dell'occhio. Bella
femmina, una così mi ci vorrebbe, e deglutisce, come un goloso davanti a un
vassoio di mustazzoli.
Il lungo
corteo avanza lento. Il sole morde l'asfalto della strada, i vestiti neri, il
cuscino di rose rosse adagiato sulla bara, con la fascia bianca e oro con la
scritta Tua moglie e i tuoi figli
inconsolabili, la corona di gladioli che già stanno avvizzendo, sorretta
dal sindaco e dal consigliere provinciale accorso in tutta fretta dal
capoluogo, i pensieri delle donne, che come
sempre hanno saputo, l'hanno imparato di don Mimì e Rosalia. Di come è morto fra le sue grosse zinne. E se
la biascicano nella loro testa quella visione, mentre fanno scorrere i grani del
rosario e sussurrano avemarie.
Lorenza ha
fatto scendere i vetri dei finestrini dell'auto, tutti e quattro, sperando che entri un po' d'aria. Il vestito di lino rosso è stropicciato
e umido di sudore, le da fastidio, vorrebbe toglierselo. Vorrebbe sfilarsi la
pelle, oscurarsi l'oro dei capelli, scomparire. Giocherella con la chiave
dell'accensione. Per ora non può andarsene. La strada è bloccata dal
funerale. Ci vorrebbe essere lei, dentro
quella bara.
Non le
importa se perderà il traghetto.
Potrebbe
rimanere lì per sempre, nella sua Golf, ferma in quel
paese che non conosce, un paese di transito, così simile ai tanti che ha visto
nei film che raccontavano di mafia da sembrarne una parodia.
Lui, dopo
che aveva insistito tanto perché Lorenza si prendesse
quella vacanza, le aveva promesso di raggiungerla. A dire il vero glielo aveva
promesso perché lei lo aveva sfinito con le sue suppliche, Marco, se non verrai potrei anche morire ha singhiozzato prima di
partire. Ma poi l'uomo non le ha fatto neppure una telefonata, e quando
finalmente Lorenza è riuscita a parlargli le ha
detto:
“Se ti
senti sola, ti mando giù Roberto, sai, quel mio collega: ha cominciato le ferie
proprio ieri.”
Quattro
anni d'amore. Stracciati. Buttati in fondo al cesso. Ti mando giù Roberto, ha detto. Quattro anni d'amore, con lei che
ha rinunciato a tutto, a suo figlio, a un lavoro che amava, alla sua casa, a un
matrimonio non perfetto ma che in qualche modo andava avanti.
Con lei
che gli ha dato l'anima.
Lorenza
guarda quelle donne nere che le stanno sfilando
accanto, vede i loro visi segnati, le
spalle curve da vecchia: quasi tutte hanno un uomo vicino.
C'è un
ragazzino che chiude il corteo, solo, un po' distanziato dagli altri, come il
punto di una lunga i. Ha un abito troppo grande, troppo adulto, per
la spigolosa acerbità del corpo. Le mani gli spariscono nelle maniche della
giacca grigia. Cammina diritto, la testa
eretta, le braccia leggermente discoste dal corpo, come se stesse procedendo su
un filo sospeso nel vuoto.
Avrà l'età
di Nino, pensa Lorenza.
Chissà,
Nino. Chissà come sarà.
Non le
importa se perderà il traghetto.
Tanto,
ormai, non ha più un posto in cui tornare.
Il corteo funebre procede con una
lentezza che snerva gli animi, sotto quel sole che cuoce. Si sta inoltrando
nella zona che pomposamente il sindaco chiama la nostra zona residenziale, un insieme di villette di cemento,
squadrate, costruite dove secondo il piano regolatore avrebbe
dovuto nascere un parco pubblico.
Don
Mimì è stato un uomo d'onore, non le ha mai fatto mancare niente a Rosalia,
si dice Rolando mentre passano davanti alla villetta
bianca. Rolando se lo ricorda bene di quando Rosalia è
arrivata al paese. Le avevano messo subito gli occhi addosso, i ragazzini: già
formata, splendente, con quella massa di capelli neri lunghissimi. A
quattordici anni sembrava averne venti. Anche lui, quindicenne affamato, ci
aveva fatto molti sogni, su Rosalia, ne aveva sporcate, di lenzuola.
Dicono
che ‘u Lampo l'abbia stuprata una vigilia di
Natale, mentre la zia della ragazzina era in Chiesa, e da allora sia stata cosa
sua. Dicono anche che la zia gliel'abbia praticamente venduta la nipote, a don
Mimì. Con i soldi s'è fatta costruire la più bella tomba del cimitero, due anni
prima di morire. Una vera cappella, una chiesuola con fiori di marmo tutti
intrecciati. Così dicono le donne del paese, ma si sa, le donne parlano,
parlano…
Ma lui è stato meglio di un padre, per lei. Le
ha regalato questa casa, e degli ori a manciate. E l'aria condizionata. E anche
la parabola satellitare. Come una
signora, l'ha sempre tenuta. In quanto alla moglie…beh, tutti lo sanno che quella è un'arpia.
E' come se stessero alzando lo sguardo verso la sue finestre, anche se tengono gli occhi bassi. Le sembra
quasi di vedere le donne che muovono più in fretta i grani del rosario, che si fanno
il segno della croce, passando davanti alla sua casa. In un paese, anche in un
paese di mafia come questo, le cose s'imparano.
Rosalia sorride amaro: lo scandalo è che
quello è morto nel mio letto. E non che lui abbia violato la sua
adolescenza, che abbia fatto di lei, senza rimedio, la sua puttana. Tutti ipocriti, meschini, il prete in cima.
Ha
scostato la tenda, e sbircia in basso dietro il vetro chiuso della finestra.
Eccolo lì sotto, il bastardo, chiuso fra quattro assi, come uno qualunque. Risente
il peso del suo corpo, il suo odore, quel suo grugnire bavoso. Le parole che
l'hanno legata: Tu te nei stai qua, tu di qua non te ne vai, e se ci provi ad
andartene ti trovo quanto è vero Iddio e ti sciolgo nell'acido. Era diventata come un disco, quella minaccia.
Un disco la cui musica non ha mai smesso di farle paura. Poi per andare dove? si
era sempre chiesta; a far che? la puttana di molti?
Rosalia
si riempie la bocca di saliva e sputa sul vetro: vorrebbe avere il coraggio di
scendere e sputare sulla bara. Ma lo sputo colpisce solo la finestra, e
l'immagine riflessa del suo volto. Pulisce il vetro con la manica della
camicetta. Non sente dolore, non sente sollievo. C'è solo rabbia, dentro di lei, sconfinata
come il cielo.
Mentre
sta per far ricadere la tenda, nota, in fondo al corteo, Leonardino. Che ci fa,
lì, ‘u picciriddu? Non la convince proprio ‘sta cosa. Leonardino
ai funerali di Calafura non ci deve stare. E' un'assurdità: la
sanno tutti la storia del padre di Leonardino.
A sua madre ha detto che andava a
trovare un suo compagno di scuola. Per i compiti delle vacanze, le ha spiegato.
Non sa bene perché è arrivato fin lì, né cosa farà. Non sa perché ha indossato
gli abiti del padre. Si sente come se avesse dentro due anime: una vuota,
neutra, l'altra intrisa d'odio. Ed è questa l'anima che l'ha condotto dietro
quel corteo funebre. E' l'anima che gronda sete di vendetta che deforma la
tasca della giacca del padre, con quel peso nero. Che gli ha fatto prendere la
scala, lo ha fatto arrampicare sul ripiano più alto dell'armadio dei suoi, gli
ha fatto aprire la scatola –una confezione vuota dei corn
flask che mangiava quando
era piccolo- e nascondere velocemente in tasca la pistola.
Ora, ogni
dieci passi, ci passa le dita sopra. Non sa neppure se è carica. Non sa se
sperarlo o averne paura. Ma conta: uno, due, tre…dieci. E mentre accarezza la tasca, pensa a come
sarà la testa di Rolando Locascio che esplode.
E' un passaparola. Gli arriva il
bisbiglio del prete: Rolando, c'è Leonardino, il figlio di Salvatore, giù in
fondo.
E allora?
E' solo uno studentino, come questi qua dietro, i
figli di don Mimì. Gente da niente, non uomini, femminelle. Hanno i libri,
nella testa, e basta. E anche se è stato don Mimì a volere così per i suoi
figli, si vede bene che loro non ci sono comunque portati a fare la vita nostra. Tutti leccatini… Quelli, le ossa, non ce le
hanno proprio! E quel Leonardino, poi… Che ci sta a fare, qui? Mi vuol mettere paura? E che, gliel'ho detto
io a suo padre di ammazzarsi! Se pagava, era ancora lì dietro la cassa del
negozio, bello tranquillo. E io che ho fatto? Don Mimì mi ha detto “fai quello
che devi fare”. E basta. Il ragazzino deve solo ringraziare di essere scappato dal negozio prima che il fuoco se lo mangiasse tutto. Che ne
sapevo io che stava lì dentro a quando ho dato fuoco
al negozio. Era mezzanotte passata…Mi ha visto: e allora? Gliel'ho detto a don
Mimì. Le regole sono regole, mi ha fatto lui, chi non paga va in malora. Il picciriddu lo sa che deve starsene tranquillo.
Eppure
Rolando sente che il sudore gli si gela addosso. Quello stronzo
di negoziante si è ammazzato: aveva debiti, il mutuo, la merce da pagare. Una
femminella, anche lui. Quello stronzo, Salvatore, si
è messo nei guai con le mani sue.
E allora
perché adesso sente il desiderio di piantare giù il feretro e di scappare?
Perché avverte quel formicolio alla nuca?
Sosta un
attimo, sbilanciando gli altri cinque. Si sistema meglio il peso sulla spalla.
Avanti, si dice, saranno ancora trecento metri. Quello non ce
l'ha il coraggio di attaccarmi.
Si vede già il cancello del cimitero.
Il prete raddrizza bene la croce, alza il mento. Ancora qualche metro e
stramazzavamo a terra, io e questa Croce, ciancica fra le labbra secche.
Ripensa all'omelia, soddisfatto. Ha elencato tutte le opere di bene sostenute
dal defunto, ha espresso il suo sommo dispiacere per quella morte, ha esternato
la certezza che il buon Dio accoglierà don Mimì fra le Sue braccia, come si
deve a un marito e padre integerrimo. Qualche altro elogio lo aggiungerà al
momento della tumulazione. Si è fatto il campanile nuovo, con le offerte di don
Mimì! E se lui ci sa fare la vedova non chiuderà i cordoni della borsa…
Lorenza apre
gli occhi. Si deve essere addormentata. Per un attimo si chiede dove sia. Poi
ricorda: il funerale, le vecchie, la strada bloccata. L'imbarco del traghetto,
a cinquanta chilometri da lì.
La strada
ora è vuota. Se volesse potrebbe mettere in moto subito e partire. Non ci sono
più sbarramenti.
Scende
dall'auto, per riattivare la circolazione. Si guarda intorno. Ma guarda, c'è
ancora quel ragazzino, quello che chiudeva il corteo. Ora che lei è in piedi
lui le sembra ancora più piccolo. Sta insieme a una donna, che gli sta parlando
in maniera concitata, e
lo prende per le braccia, lo scuote. Lui scoppia a piangere, poi si mette una
mano in tasca e ne trae qualcosa. A Lorenza sembra di
riconoscere una pistola, ma si da subito della
stupida. Questo non è mica un film, pensa. La donna fa scivolare l'oggetto
nella sua borsa, poi abbraccia il ragazzo. Saranno parenti del morto, lei
pensa, strano, però, lui prima stava così in fondo al corteo, da solo.
Eppure…Sì, saranno madre e figlio. Forse si erano perduti, e ora si sono
ritrovati. Forse lei se ne era andata, e ora è tornata da lui.
La donna
ha il corpo formoso, che sembra stare a disagio nel
vestito attillato. Ha dei lunghi capelli neri, che ora coprono parzialmente il
viso del ragazzo. Continuano a stare abbracciati ancora qualche secondo. Poi la
donna lo prende per mano. Mentre le passano accanto Lorenza sente la
donna che sta dicendo, con voce affettuosa:
“Andiamo
da tua madre, Leonardino, non facciamola patire, quella donna.”
Allora
non è lei la madre, si dice Lorenza. Ma le piace
continuare a credere che lo sia. Come lei lo è di Nino.
Risale in
macchina. Non sa se riuscirà a prendere il traghetto.
Ma forse
ci proverà.