La visita
di Milvia Comastri
Proprio
mentre pensa di lasciar perdere e rifugiarsi in macchina e accendere il
riscaldamento e appoggiare la testa sul volante e piangere, ecco che il portoncino si apre.
“ Siiiì?”
“Buongiorno,
sono Marika, l'amica di Teddy.” dice, la voce che per un attimo
si affossa nella gola, e risale poi con un respiro grosso.
“ Entra,
entra…”
L'uomo la
precede lungo lo scuro stretto corridoio, claudicando lievemente.
“ Vieni,
siediti qui in salotto, vado a chiamare mia moglie.”
Lui
tossisce, quella tossetta di imbarazzo che lei
conosce: anche a Teddy succedeva di farsela uscire, i
primi anni, quando non trovava risposte a certe domande che lei gli faceva, o
quando lei lo scopriva bugiardo, per l'ennesima volta.
Mentre si
guarda intorno sente l'uomo chiamare la moglie:
“ Tina,
Tina, c'è l'amica di Teodoro!”
Teodoro:
anche ora che non c'è più, che non ci sarà mai più, né per loro, né per
nessuno, lui non è alla fine Teo, o Teddy, ma ancora Teodoro, nome che lui ha sempre odiato.
La sala è
zeppa di mobili troppo scuri, troppo ingombranti, quadri bui decorano le
pareti, grosse cornici dorate li racchiudono. Marika
non scorge finestre, in un primo momento, poi le vede, pesanti tendaggi tirati
sui vetri. Pensa a Teddy, ai suoi primi passi in
quella stanza, alle sue risate di bambinetto che si
smorzavano andando a sbattere contro quel ciarpame. Neanche una foto di Teddy, sul ripiano dei mobili.
Marika si avvicina al divano verde cupo. Chiude un attimo
gli occhi.
“ Ma ho
fatto bene a venire qui?” si chiede, mentre un filo di
nausea le sale in bocca.
Sono
passati due mesi, per due mesi ha rimandato di giorno in giorno questa visita.
E ancora non sa cosa farà, o cosa dirà.
La madre
è più alta del marito, i contorni più netti. Entra nella stanza portando del
freddo, con sé, come se fosse stata all'aperto fino ad allora.
“ Sono
Tina” dice con voce asciutta “ mi scusi se l'ho fatta aspettare, ma ero sul
terrazzo, a stendere i panni.”
Anche la
mano che le porge è asciutta, e fredda. E freddi sono gli occhi che scrutano Marika, mettendola a disagio.
Il padre
tossicchia e chiede se vogliono un caffè, poi si allontana per prepararlo.
Le due
donne si siedono, una di fronte all'altra.
Parole si inciampano, si scontrano le une con
le altre, si arrestano di botto.
Poi:
“ Ma lei,
Maria, lei c'era quando…insomma, quando è successo?”
Marika non la corregge, sospetta che l'errore sia voluto.
Sì, lei
c'era. Era arrivata a casa quella sera e c'era una strana luce e c'era come un
rumore e c'era una presenza impalbabile o forse era
un'assenza incombente.
“ Era da
più di un anno che Teddy non toccava droghe. Aveva
anche smesso di fumare. Vostro figlio “ e intanto prende in mano la tazzina col
caffè che l'uomo le ha porto “ vostro figlio aveva trovato un lavoro, poi era
contento perché… ”
La madre
continua a fissarla con sguardo duro, troppo attento, come se volesse andare al
di là della verità che lei sta raccontando, pensa Marika.
“ Perché
è piombata qui, questa. Perché lui l'ha fatta entrare… Perché mi ha chiamato…
Qualcosa vorrà da noi, se è qui…” rimugina la madre e quasi non ascolta quello
che la ragazza sta dicendo.
Marika fa scivolare lo sguardo e le sue parole sul volto
dell'uomo.
“ Quando
sono tornata a casa dal lavoro, quella sera, l'ho trovato steso a terra, in
bagno. La siringa piantata nel braccio. Teddy era
ancora vivo, ma non riusciva a muoversi. Ha detto qualche parola, mentre
l'autoambulanza ci portava all'ospedale; non ho capito bene, la voce era troppo
flebile. Parole rubate al fiato, smozzicate. Poi, poco dopo, se ne è andato.”
Marika parla con voce neutra, il tono contenuto. Mette le
parole una dietro l'altra, come se infilasse perle per farsi una collana.
“
Teodoro…Teddy ha sofferto tanto? ” L'uomo le ha messo
una mano sul polso, ha mani pallide, delicate, quasi femminili.
“Io non
voglio i particolari, è morto, punto. Poi lo sai benissimo, noi lo avevamo già
perso tanti anni fa…” La voce della donna è stridente, la frase finisce con un
singulto, che ricorda più la rabbia, che il dolore.
Marika non sa se essere impietosa, e raccontare le
convulsioni e gli occhi sbarrati di Teddy e il grido
con cui ha chiuso la sua vita, e vendicarsi, così, e vendicarlo. Oppure tacere.
Li guarda quei due, ormai vecchi, lui che le siede accanto sul divano, e
continua a tenerle il polso, leggermente, con le dita che sembrano zampette di
uccello, e la donna, lei, la madre, seduta davanti a loro, grande scura diritta
sulla poltrona senza alcun tratto morbido, senza nessuna smorzatura.
Lei, la madre, così come Teddy gliel'ha sempre
descritta.
Posa la
sua mano sulla mano che le tiene il polso.
“ E'
finito tutto in fretta. “ dice” Non ha avuto modo di soffrire troppo. E poi lo
tenevo stretto e…”
E gli
parlavo del nostro bambino, dice dentro di sé, di come sarà
bello, di quanto lo amerò, di come non lo lascerò mai solo, di quanto gli
racconterò di suo padre.
“ Teddy “riprende Marika,” aveva pensato di chiamarvi, qualche giorno prima di
morire. Ora che era pulito da tanto, avrebbe voluto vedervi, voleva che vi
spiegaste, fra voi, che riprendeste i rapporti…”
“ Ma non
lo ha fatto” si affretta a dire la madre. “ Non lo ha fatto. Sono sette anni
che non lo sento.”
Il marito
la guarda e sente quanto la odia, in quel momento, a quanto l'ha odiata quel pomeriggio di due mesi prima, quando è arrivata la
telefonata del figlio, e dopo pochi istanti lei ha riattaccato e poi gli ha
detto:
“ Era
Teodoro. Gli ho detto di non chiamarci mai più, di non venire a casa nostra,
gli ho detto che per noi è morto.”
E pensa a
quanto si odia, per aver permesso a lei di disegnare la loro vita. Quel figlio
spezzato, drogato, terribile, sì, ma sempre figlio, anche quando ti rubava in
casa, anche quando spariva per settimane, e poi tornava come un pezzente, non
si doveva cacciare, abbandonare, cancellare.
“ Quando
lei ci ha telefonato per dirci di Teodoro, mio marito ed io abbiamo deciso di
non venire giù a Rimini per il funerale. Noi, le ripeto, l'avevamo già perduto
tanto tempo fa… Era come se lo avessimo già seppellito. Ho sempre pensato che
non me lo meritavo un figlio così. Vede, la mia
famiglia d'origine era una famiglia per bene, un'ottima famiglia. Mi sono
chiesta un mucchio di volte come sia potuto succedere che…”
“ Credo
che mia madre abbia sempre nutrito un forte rancore, nei miei confronti.” La voce di Teddy è presente
ancora nella memoria di Marika, insieme alla immagine
devastata del ragazzo, in quei primi giorni in Comunità, cinque anni prima. “
La sua famiglia. Me ne parlava sempre: generazioni e generazioni di farmacisti,
li vedevo così indietro nel tempo che riuscivo ad immaginarli pestare nei
mortai erbe e minerali e insetti, poi filtrare, misurare, pesare, seri,
austeri, precisi. Mai un errore.”
L'uomo si
è alzato. Si avvicina alla moglie, la voce gli esce bassa, ma
pesante, sembra che voglia schiacciare la donna con il piombo fuso delle sue
parole:
“ Non gli
hai mai dato tenerezza, a quel figlio, lo hai considerato sempre un intralcio.
Una volta gli hai detto, ti ricordi, ed era ancora piccolo, avrà avuto sì e no
tredici anni, gli hai detto che era l'errore della tua vita. “
“ Sai,” le aveva detto Teddy, mentre se
ne stavano abbracciati, a letto, l'ultima notte del loro primo anno passato
insieme “ una volta mi fece vedere il libretto universitario. Vedi, vedi, tutti
trenta, mi
disse, mancavano solo due esami da niente, ma sei
arrivato tu, e ho dato addio a tutto, per te. Ricordatelo questo, aveva
enfatizzato. Pensa, avevo solo nove anni.”
La madre
ha sollevato il volto, lo sguardo un arma puntata sul
marito.
“ Tu sei
stato debole con lui, sono sempre dovuta intervenire io nella sua educazione,
tu eri preso da altro: ci giocavi insieme, lo facevi ridere, andavate in giro,
mai un rimprovero, mai un questo non si fa, ridevate,
voi, giocavate. Io, come se non esistessi. Ho dovuto essere dura, lo capisci,
ma ho fallito, perché tu non mi hai aiutato. E lui, lui era comunque un debole.
Come te, come i tuoi.”
Marika vede il padre che apre la bocca, ribadisce
qualcosa. Ma non sente più. Non le interessa. E' un teatrino. E' come sapeva
sarebbe stato. E'come Teddy le aveva raccontato.
Sa già
che poi il padre alla fine tacerà, debole, sì, e stanco, e disilluso dalla
vita, e la madre continuerà i suoi percorsi di aridità e rancore.
“ Ho
fatto proprio male a venire.” Si dice. “ Loro con il
nostro bambino non c'entrano nulla, non li voglio nella mia vita:”
Eppure sa
anche che Teddy ha continuato fino all'ultimo ad
amarla, questa madre, ad anelare al suo conforto, gli errori commessi per
provare inconsciamente a se stesso che era veramente lui quello sbagliato, che
la madre, quindi, aveva ragione a non volergli bene. E la disintossicazione,
poi, anche quella principalmente per lei. Sì, è molto probabile che Teddy l'abbia poi fatta, quella telefonata. Per dirle che
ne era fuori, per dirle del bambino.
Si alza,
loro continuano a tirarsi accuse. La stanza sembra ancora più scura, c'è
qualcosa che ti invischia, lì dentro, che ti fa sprofondare. Marika se ne vuole andare subito. Non saluta, si avvia
velocemente nel corridoio, apre il portoncino, lo
richiude alle spalle, inspira un gran boccata d'aria e
si sente meglio, anche se ha l'odore della nebbia della Padania.
Cammina
verso l'auto. Si sente chiamare:
“Marika, aspetta!”
Si ferma,
si volta. Il padre di Teddy la chiama a gesti, poi si
avvicina.
“ Senti,
questo è il numero di telefono della biblioteca dove svolgo lavoro
di volontariato tutti i venerdì. Chiamami, se vuoi. E scusaci, scusaci
di tutto. E grazie.”
Alza un
braccio, come se le volesse carezzare il volto. Poi lo lascia cadere, e si
allontana con il suo zoppettio.
Marika appallottola il biglietto. Accanto all'auto c'è un
cestino per i rifiuti.
Mette in
moto. L'aspettano tre ore di viaggio. Spera che quella nebbia se ne vada. La
musica invade l'abitacolo: la
Ninna Nanna etnica di Eugenio Bennato.
Si china
per raccogliere lo sgualcito foglietto con il numero di telefono che dal
cruscotto è caduto a terra.
Forse lo
chiamerà, forse no.
Ha sei
mesi di tempo per decidere.
(da “Donne, ricette, ritorni e abbandoni”
- Pendragon, 2005 )