L'intruso
di Annamaria Trevale
Il
bambino non piangeva più. Esausta, Sara si appoggiò
all'indietro contro lo schienale della poltroncina a fiori cullandolo ancora in
modo quasi impercettibile, quindi rimase per qualche minuto pressoché immobile,
respirando lentamente e a fondo per rilassarsi.
La casa
ora era immersa nel silenzio. Avvertiva soltanto, a tratti, echi di una musica
proveniente da chissà dove, e poi nient'altro che la sensazione piacevole di
tepore che sapeva comunicarle quel fagottino adagiato contro di lei, ed il
respiro regolare del bambino ormai immerso nel sonno: dormiva, finalmente, e su
questo non c'erano dubbi.
Muovendosi
con estrema circospezione per non svegliarlo, Sara si alzò in piedi e depose
suo figlio nel lettino a pochi passi da lei, gli rimboccò le coperte e
finalmente fu libera di lasciare la stanza da letto per trasferirsi in
soggiorno.
Quasi
tutti l'avevano giudicata una pazza quando aveva
deciso di mettere al mondo quel bambino nonostante che il padre, suo compagno
da molto tempo, l'avesse lasciata sola non appena informato dell'incipiente
gravidanza, ma Sara non si era curata delle opinioni contrastanti: aveva
trentatré anni, un lavoro che le garantiva l'indipendenza economica, e viveva
in un appartamento lasciatole in eredità dal padre scomparso qualche anno
prima, perciò poteva permettersi di non temere il futuro.
Certo,
aveva anche amato Marco, il padre del suo bambino, e progettato di formare una
famiglia con lui, tanto che vederlo fuggire in quel modo aveva costituito una delusione
davvero cocente, tuttavia gli anni passavano e Sara temeva di non avere più
davanti a sé molto tempo a disposizione per avere dei figli. E se non avesse
incontrato un altro uomo?
L'orologio
biologico correva, ed era per questo che Sara aveva scartato a priori la
possibilità di abortire.
Sua
madre, risposatasi con un amico di gioventù col quale aveva scelto di
condividere serenamente la terza età, non aveva ostacolato la sua decisione:
“Stai per
assumerti una responsabilità enorme, mia cara, perché ti sarà doppiamente
difficile crescere un bambino senza padre. Un giorno tuo figlio potrebbe anche
rimproverarti per questo…Però Giovanni ed io saremo felici di aiutarti in tutti
i modi, e quando dovrai riprendere il lavoro naturalmente ce n'occuperemo noi,
almeno finché non ti sarà possibile mandarlo al nido, e poi all'asilo.”
Così, in
una fresca e luminosa giornata d'aprile, era nato Valerio, e la vita di Sara
era cambiata completamente: ritmi, orari, abitudini. Pensieri, preoccupazioni
teoriche e pratiche riguardo a pannolini e biberon,
pappe ed omogeneizzati, e poi una serie d'altre cose di cui, fino a quel
momento, Sara aveva ignorato l'esistenza, ma che ora le sembravano tutte
assolutamente fondamentali.
Tra poche
settimane, terminato anche il periodo di congedo per maternità facoltativo,
Sara avrebbe ripreso definitivamente il suo lavoro in ufficio, e già si
chiedeva che effetto le avrebbe fatto ritrovarsi dopo tanto tempo dietro la sua
scrivania, in un mondo che al momento le appariva del tutto estraneo, ma al
quale, bene o male, avrebbe dovuto riabituarsi: dopotutto, in precedenza aveva
goduto di una certa fama da “donna in carriera”, no?
Valerio, con i nonni, sarebbe stato
benissimo.
Il
telefono ruppe il silenzio e Sara, strappata ai suoi pensieri, andò a
rispondere di malavoglia.
“Pronto!”
“Sara? Ciao, sono Marco.”
Sara ebbe
la sensazione che il respiro le mancasse di
colpo. Dovette aspettare un attimo prima di rispondere, e lo fece bruscamente per
evitare che la voce s'incrinasse, tradendo la sua sorpresa:
“Che cosa vuoi?”
“Io…vorrei parlarti.”
“Non abbiamo niente da dirci.”
“Non è vero! Io ho bisogno di dirti
alcune cose, Sara.”
“Non mi riguardano più.”
“Non puoi trattarmi così!”
“Perché, tu come mi hai trattata?”
“Lo so,
sono stato un essere spregevole, ma ti sto chiamando proprio per questo. Sono
qui, sotto casa tua, e vorrei vederti, parlarti e sapere del bambino.
Non ce la
faccio più ad andare avanti senza avere notizie di te, di voi. E vorrei vedere
mio figlio. Insomma, possiamo parlarne?”
Stranamente,
la voce di Marco aveva un tono disperato, mentre lei, passato il terribile
attimo di smarrimento iniziale, si sentiva già più fredda e controllata: ma
doveva prendere tempo, perché c'era qualcosa che non le andava in quella
situazione.
“Hai detto che sei qui sotto casa
mia?”
“Certo, ti sto chiamando dal
cellulare.”
“Va bene, scendo giù.”
“Non posso salire?”
“No! Scendo io.”
Sara
passò rapidamente in camera da letto: Valerio dormiva, immerso in un sonno
profondo, alla tenue luce della piccola lampada schermata. Non si sarebbe
accorto di nulla, sperando che non si svegliasse proprio nei successivi dieci
minuti…pregando mentalmente perché ciò non accadesse, Sara spense tutte le
luci, in modo che le finestre verso strada fossero buie, indice di una casa
vuota, e uscì.
Marco era
in piedi accanto al portone, visibilmente nervosissimo, mentre la sua auto blu
spiccava parcheggiata di traverso sul passo carraio.
“Come stai?”
“Bene.”
“Dimmi del bambino, ti prego.”
Sarà lo
squadrò da capo a piedi. Era l'uomo che aveva amato, ed era il padre di
Valerio, che dormiva ignaro tre piani più in alto, ma
se n'era andato un anno prima per paura di diventarlo, lasciandola sola ad
affrontare la maternità.
Tutti
quei mesi erano stati solo suoi…Anche il futuro avrebbe potuto essere solo suo,
perché no?
“Non c'è nessun bambino” rispose con
calma.
Marco
ebbe una reazione inattesa: le afferrò con le mani gli avambracci e la scosse
con violenza, sconcertato e rabbioso.
“Cosa? Non è possibile!”
“Perché
ti meravigli tanto? Ho fatto quello che mi consigliavano tutti quanti dopo la
tua fuga vergognosa: ho abortito. Pensavi fossi così sciocca da tenermi un
figlio rifiutato dal padre?”
Incapace
di trovare una risposta, Marco la lasciò andare. Intuendo che stava risultando
convincente, Sara continuò: “Ora capisci che non abbiamo veramente più nulla da
dirci?
Vattene,
e lasciami in pace. Non voglio rivederti mai più da queste parti, intesi?” e
con un movimento rapido gli voltò le spalle, fece girare la chiave nella
serratura del portone e scomparve dentro il palazzo, lasciando Marco ancora
immobile, come pietrificato sul marciapiede deserto.
L'appartamento
al terzo piano era sempre immerso nel silenzio, ma
Sara si accorse di tremare mentre si chinava sul lettino a contemplare Valerio placidamente
addormentato, pensando tuttavia con sollievo che lui non avrebbe mai saputo
nulla di quanto era appena accaduto.
Poi,
quando iniziò a sentirsi sufficientemente calma, andò ad aprire la finestra del
soggiorno e lanciò una rapida occhiata alla strada, dove non c'era più traccia
né di Marco né della sua auto: ora era tempo di andarsene finalmente a dormire
accanto al suo bambino.