Il battito del Re
di Cesarina Bo
C'era una volta un paese arroccato in
cima ad un'altissima montagna. Tutto intorno cresceva una foresta così folta ed
impenetrabile che rendeva quel posto nascosto e inaccessibile al mondo intero.
In quel paese la gente viveva abbastanza
felice: dico abbastanza perché, in realtà, era alla mercé dei capricci del Re,
uomo egocentrico e dispotico.
Il Re –di cui preferisco tacere il
nome- aveva imposto una serie di regole e di convenzioni per ricordare in ogni
momento ai suoi sudditi che lui era il capo assoluto.
Aveva stabilito, ad esempio, che
l'unità di misura della lunghezza era il “passo del Re” e quella del peso era
semplicemente il “peso del Re”.
A chi andava in merceria a comprare
due decipassi del Re di bordura era normale sentirsi
chiedere dal negoziante: “Due decipassi del Re di
corsa o di passeggio?”. Questo ovviamente se il negoziante era onesto.
Dal macellaio si ordinava tre millipeso del Re di prosciutto e tanto bastava a sfamare
l'intera famiglia, almeno per il pranzo. Poco importava se in quel periodo il
Re era ingrassato: al massimo quel giorno si sarebbe
mangiato in abbondanza.
Quello che più infastidiva gli
abitanti di quel paese era, però, il sistema imposto per misurare il tempo. Non
esistevano né orologi da polso, né da tavola, né da muro: solo per strada, ad
ogni angolo, si potevano trovare degli orologi, strumenti sofisticatissimi
collegati al battito del cuore del Re.
“Ci vediamo tra ottocento battiti del
Re”: così gli amici, all'uscita dal lavoro, si davano l'appuntamento per
ritrovarsi all'osteria.
“Se non smetti immediatamente di
parlare starai in punizione per quattromila battiti
del Re!” era la minaccia che le maestre usavano per quegli allievi
particolarmente indisciplinati e vivaci.
“La pausa pranzo non può superare
duemilaquattrocento battiti del Re” si leggeva sul cartello all'ingresso della
prestigiosa e unica fabbrica di gnomi.
Immagino che vi starete chiedendo
perché la gente era insoddisfatta. Facile da capire! Dovete sapere che il Re
conduce una vita assai sregolata: era capace di addormentarsi in pieno giorno o
di mettersi a correre a perdifiato all'ora di pranzo,
senza farsi il minimo problema o scrupolo. In paese si sussurrava che lo
facesse apposta, insomma che la sua fosse vera cattiveria e
non solo sbadataggine. Gli inconvenienti che ne derivavano erano
innumerevoli.
Capitava che il fornaio sbagliava i
tempi di lievitazione e tutta la gente si ritrovava sotto i denti del pane
immangiabile. Oppure il dentista non azzeccava i tempi per l'anestesia e,
sovente, si udiva il malcapitato di turno urlare per il dolore. Per non dire
dei colori incredibili con cui le donne uscivano dal parrucchiere: che colpa ne
aveva il povero parrucchiere se il Re decideva di fare una pennichella proprio
nel tempo di posa?
Calub era
giovanissimo e come molti giovani era insofferente e convinto di subire tutti i
torti di questo mondo. Perché il Re dormiva quando lui
era a scuola? La lezione, già di per sé noiosa, diventava interminabile. Perché quando si incontrava con la dolce e
timida Liuba il Re si faceva venire la tachicardia?
Il tempo volava letteralmente e ancora non gli era riuscito di
baciarla.
Calub si
tormentava con quelle domande e rimuginava sull'ingiustizia causa suprema della
sua infelicità. Era convinto d'avere ragione, ma non si fidava di parlarne con
nessuno: la polizia del Re era efficientissima e bastava il minimo cenno di
malcontento per essere rinchiuso per milioni e milioni di battiti del Re nella
galera del paese.
Così fu solo per combinazione che successe
la disgrazia.
Calub stava
percorrendo un sentiero, appena fuori dal paese, per
andare a trovare Liuba quando incontrò il Re che
correva a gran velocità. Il giovane si fece da parte e si profuse in un inchino
come la legge obbligava, ma non resistette alla tentazione di fargli uno
sgambetto: un bel ruzzolone del Re valeva più di qualsiasi punizione, pensò
nell'incoscienza e irruenza della sua giovane età. Poi confidava sul fatto che avrebbe potuto scappare e nascondersi nel bosco.
Il destino volle che il Re cadendo
sbattesse la testa su un sasso e morisse all'istante.
I sofisticatissimi orologi del paese
impazzirono: alcuni si fermarono, altri iniziarono a correre, altri ancora a
rallentare. Nel giro di poco la gente capì che il Re era morto e fu il caos più
completo. L'uomo non aveva parenti e, così, iniziarono a litigare per come
misurare il tempo: prendere come intervallo di tempo quello scandito dal
battito di cuore di chi?
“Il mio!”, “No! È meglio il mio”, “E
no! Tocca a me!” urlavano tutti.
Dalle parole passarono ai fatti:
volarono schiaffi, pugni e spintoni. Si picchiarono di santa ragione fino a quando, stremati, stabilirono che era impossibile trovare
un accordo su chi scegliere. Alla fine convennero che non aveva
senso rimanere in quel paese ora che era morto il Re e insieme decisero di
attraversare la foresta per cercare altri posti in cui vivere.
E Calub?
Calub è
rimasto in cima alla montagna con la sua Liuba, a
baciarsi senza tempo.
E vivono felici e contenti.
Come in ogni favola che si rispetti.