Czernicka
di Enzo Lombardo
La leggera cortina di nuvole poggiata
sulle colline basse dell'entroterra, appena rosata dal primo chiarore del
mattino, si stagliava netta su un cielo ancora nero su cui ormai sbiadivano le
ultime stelle, mentre, in modo impercettibile, al margine dell'autostrada si
formavano spazi e profili nuovi, prima inesistenti nel tunnel luminoso dei fari
abbaglianti.
Il nastro nero
dell'autostrada si allontanò quasi improvvisamente dalla costa e, curvando,
prese ad inerpicarsi sui monti, tra piccole gallerie ed altopiani, mentre il
paesaggio, al vago chiarore del mattino, assumeva un aspetto brullo e
spettrale, con gli alberi spogli che protendevano rami umidi di rugiada
illuminati dai fari.
Il paese apparve all'uscita di una
galleria, quasi un presepio arroccato sul cocuzzolo di una collina, con il
campanile sovrastante le poche, piccole case, seminascoste dal verde e ancora
avvolte dalla bruma che saliva dalla vallata.
Mentre imboccava la rampa d'uscita e
s'immetteva nella provinciale, Mario Antonacci continuò ad osservare dal basso quell'agglomerato di case i cui colori diventavano sempre
più nitidi ed i contorni più definiti man mano che il vento spazzava via gli
ultimi brandelli di nebbia.
Il paese, stagliato in un cielo ormai
azzurro con poche nuvole candide che si rincorrevano
sopra il campanile, appariva, nel silenzio del mattino, tanto strano ed irreale
da temere quasi che non ricomparisse dopo l'uscita dai tornanti che per un
momento ne chiudevano la vista.
Con un senso di sollievo Mario
parcheggiò la macchina nello spiazzo deserto antistante il piccolo agglomerato
di case e si guardò intorno con in mano il foglietto
dove aveva trascritto il nome, l'indirizzo e alcuni appunti che aveva raccolto
al Giornale: “Ada Czernicka, Vico alla chiesa di
Santa Lucia numero due. Settantacinque anni, polacca. Da trent'anni
in Italia. Vedova di aviatore. Dicono che riesce a far guarire stando vicino ai
malati. Nessuna pubblicità ma la agente arriva:
quanti? Da dove? Che tipi sono? Si fa pagare? Di cosa vive?
Niente telefono. Dicono che fa fiorire i gerani d'inverno.”
Mario guardò l'ora: le otto e cinque.
Troppo presto per piombare in casa di qualcuno. Forse il piccolo paese meritava
una qualche descrizione nell'articolo: era una buona idea passare una mezz'ora.
Alzando gli occhi al campanile che
sovrastava il paese, si avviò verso la Chiesa, dal cui sagrato sperava di farsi
un'idea generale della conformazione del posto.
Il paese cominciava a dare segni di
vita: qualche finestra si apriva qua e là con uno sbattere di persiane. Visi
curiosi si indovinavano dietro i vetri.
Due contadini anziani lo salutarono
incrociandolo in una stradina ed i loro passi pesanti continuarono a rimbombare
fra i vecchi muri di pietra quasi a sottolineare il silenzio greve del luogo.
Con le mani in tasca ed il bavero
dell'impermeabile alzato, Mario continuò a fatica la salita inerpicandosi nei
vicoli a gradoni fino alla Chiesa. Da lassù, affacciato a strapiombo sulla
vallata, vedeva sotto di lui ben poche case e stradicciole
deserte che davano l'impressione di un triste abbandono. Il lontano nastro
dell'autostrada, stagliato nel verde della vallata e punteggiato dei riflessi
dorati delle auto in corsa nel sole del mattino sembrava quasi un simbolo dello
scorrere frenetico della vita lontano da lì.
Ansimando e fermandosi a riposare sul
sagrato, pensò che levatacce ed interviste solitarie in paesi abbandonati poteva anche lasciarli ai colleghi più giovani che
bivaccavano nella redazione.
“Ci saranno sì e no una
ventina di vecchi in questo paese – disse tra sé Mario rabbrividendo al vento
pungente che sembrava essersi rinforzato durante la salita - un posto ideale
per fattucchiere e leggende di paese.”
Intimamente, però,
ammise, quasi a malincuore, che quel posto aveva una dolcezza tutta sua.
"La dolcezza triste della vecchiaia?" – si disse – “Se è così, fra
poco comincerò ad essere dolce anch'io.”
Ma non era salito sin
lassù per lasciarsi intristire da un posto triste. Lassù doveva far lavorare il
cervello. Mettere a fuoco il suo scetticismo e la sua curiosità. Capire fino in
fondo dove arrivava la credulità della gente. E forse ne sarebbe nata una serie
di articoli, se riusciva a spuntarla con l'editore.
Rimuginando questi pensieri e cominciando
ad impostare mentalmente la traccia dell'articolo di apertura che avrebbe
scritto e mandato la sera stessa, Mario aggirò la Chiesa e si trovò in uno
stretto vicolo in salita, chiuso tra muri di pietra non troppo alti, interrotti
da piccoli cancelli dai quali si intravedevano alcuni orti ben curati.
In uno di questi, curva su una
piccola fascia di terra appena smossa, stava una vecchia dai capelli candidi,
con una lunga veste grigia a pieghe che le avvolgeva un corpo alto, fin troppo
snello, dalla vita sottile.
Le caratteristiche somatiche della
donna, (troppo alta, troppo sottile, troppo bianca) o forse quel sesto senso
che sapeva di possedere e che gli invidiavano i colleghi, gli fecero capire di
essere arrivato e gliene diede conferma un cartoncino logoro, attaccato sopra
un pulsante, con il nome che cercava.
"Signora Ada... – chiamò - (Come diavolo si
pronunciava quel benedetto cognome?) ...Czernicka?”
La vecchia sollevò appena lo sguardo
ruotando un viso scarno e pallido, quasi illuminato dal candore dei capelli e
ripeté "Czernicka" in modo leggermente
diverso, prima di riprendere il lavoro nell'aiola che stava curando ai margini
di un piccolo orto, poco discosto dalla casa. Aveva occhi grandi e grigi. Belli. Questo Mario poté osservarlo nei pochi
attimi che quei grandi occhi si posarono su di lui.
Mario si presentò e attraverso il
cancello stese un braccio con il suo biglietto da visita.
La vecchia alzò nuovamente la testa
candida, si avvicinò al cancello, prese il biglietto, lo lesse e disse in un
italiano un po' ruvido e piatto ma sicuro: “Giornalista? Un giornalista dalla Czernicka? Perchè? Non è famosa la Czernicka.”.
Ripeteva il suo nome con insistenza, quasi con voluttà mentre i suoi occhi grigi si dilatavano
accompagnando un sorriso sornione che disegnò una ragnatela di rughe sottili
nel suo viso.
“Comunque i miei fiori possono
aspettare” – continuò aprendo il cancelletto e
facendosi da parte per lasciarlo passare - “sono un po' come me: non hanno
fretta.”
Il soggiorno della piccola casa era
zeppo di fiori tanto da sembrare anch'esso un'aiola fiorita. Fiori
coloratissimi sul davanzale, sulla tavola ed a terra in tanti vasi assiepati in
più punti della stanza. Persino tra le tendine alle finestre spuntavano vasetti
penduli, con cascate di fiori multicolori.
Seduto in una leggerissima sedia di
Chiavari che scricchiolava ad ogni movimento del corpo, Mario si adoperò subito
per infrangere il muro di reticenza che la donna sembrava erigere attorno.
E per far questo Mario cominciò a parlare,
solleticando la vanità della vecchia, lasciandosi trascinare in un fiume di
parole che sentiva false e, mentre parlava, trasse dalla tasca
dell'impermeabile un minuscolo registratore che posò sul tavolo ed accese con
noncuranza, dicendo: “E' per gli appunti...” .
La vecchia non rispose ma abbassò più volte la testa canuta, annuendo. Poi,
incrociando le braccia, lo fissò con gli occhi grigi: “Vada avanti – disse – mi
piace quello che dice. Ha una voce dolce...musicale... molto affascinante, lo sa?”
“Grazie. E lei non vuol proprio dirmi
niente? Della sua arte, intendo. Dei suoi poteri. Della sua vita, anche.”
“Della mia vita?” - La vecchia trasse
un respiro profondo – “Niente di Czernicka può
interessare i suoi lettori. Mi creda, a nessuno interessa la vita di una
vecchia. Troppo lunga. E l'arte...oh, l'arte! e i
poteri! L'arte è finzione ed io non fingo. E lei crede che abbia dei poteri?”
“Tanta gente lo crede.” Non era una risposta ma poteva
stimolare qualcosa. “E vorrei crederlo anch'io” – mentì - “Credere che esistono persone speciali. Credere nella loro forza. Solo
che non ci si può fermare solo a questo, non crede? E' difficile poi non
chiedersi da dove viene questa forza.”
Mario vide che il sorriso era tornato
sulla labbra della vecchia, misto a qualcosa che
stranamente somigliava ad una sorta di apprensione materna. “Forse è fatta”
pensò sollevato dando uno sguardo al registratore. Ma la donna si era alzata ed
in silenzio si avviò verso un cucinino che si intravedeva dietro una tenda a
fiori.
“Lei è uscito presto questa mattina.
Ha fatto colazione? – disse la Czernicka ritornando
con un piccolo vassoio pieno di biscotti – Il caffè è sul fuoco. Caffè
italiano.”
Dopo un po', assaporando il caffè in
una tazzina d'altri tempi, Mario tentò di riprendere il discorso.
-
“Non mi ha risposto, signora. Sarei felice se mi
dicesse qualcosa. Su questa forza, intendo.
Come la sente arrivare, come la
riconosce, come fa a trasmetterla.”
-
“Lo deve proprio scrivere?” – disse la vecchia con
un sorriso sornione.
-
“E' il mio lavoro, signora, però non è solo per
quello. A questo punto è per me, capisce?”
-
“Per lei? Lei vuole capire? Capire...”
I grandi occhi grigi della vecchia si
allargarono ancora di più e lo sguardo divenne sognante, quasi languido.
Sembrava che stesse guardandosi dentro.
Poi quello sguardo si irrigidì e le
pupille si puntarono con forza sugli occhi di Mario.
-
“Errore” – disse con forza – “Tutto sbagliato.
Scriva, scriva che è tutto sbagliato. Non può capire. Non può capire anche se vede, anche se tocca. Lei vede la vita, vede
sbocciare i fiori, li vede appassire. Vede la morte. Tocca la vita e può
toccare anche ciò che muore ma non può capire.”
Mario tentò di allontanare lo sguardo
da quel mare di grigio che emanava dagli occhi della vecchia. Quelle pupille lo
infastidivano e lo attraevano ad un tempo.
-
“La capisce lei la vita?” – proseguì la Czernicka - “E la morte? Eppure sono lì, sono sempre vicini
a noi, vita e morte. Ci siamo abituati tanto da non farci caso. Li vediamo
lontani, tanto lontani, molto più delle Stelle e assai meno comprensibili.”
Mario sentiva la voce della vecchia
sempre più piano, quasi una cantilena rassicurante, dolce ed ipnotica. Non
voleva che smettesse. Quella voce era diventata un sussurro quasi
indistinguibile dai rumori della campagna. Rumori ritmici, continui,
fruscianti, come lo stormire degli alberi vicino alla casa, il cinguettio degli
uccelli, il canto lontano d'un gallo. D'un tratto era diventato faticoso capire
il significato di quelle parole. Sperò solo che il registratore funzionasse a
dovere.
Poi cercò di mettere a fuoco qualcosa
che gli impedisse di annegare in quell'inaspettato
fiume di parole. I fiori, ad esempio. Doveva guardare bene i fiori. La casa ne
era piena. Anche le tende, le pareti. Fiori dappertutto. Ricordava fiori dai
colori sgargianti. Ora erano grigi. Pareti grigie. Ed un riquadro di cielo
grigio oltre la finestra sovrastava un mare di erba grigia. Di un grigio
luminoso, fresco, come il cielo dopo un acquazzone primaverile, appena coperto
da un velo di nubi con grandi squarci d'azzurro.
Mario sentiva la bocca impastata. Gli
era difficile formulare anche una domanda banale.
-
“ I gerani, signora... i gerani...dicono che riesce
a farli fiorire d'inverno...” – riuscì a dire.
La Czernicka
non rispose oppure Mario non l'udì. Sentiva invece sempre più forti i rumori
della campagna e udiva appena la voce della vecchia frammista ai fruscii delle
fronde. Quella voce, adesso, gli sembrava necessaria per giustificare
l'esistenza stessa di quel momento: senza di essa vi
sarebbe stato un silenzio innaturale.
“Lei non crede che io abbia tentato
di capire? – stava dicendo la vecchia – “Tutta la vita ho tentato, ma è
inutile. Forse capiremo alla fine. Forse proprio all'ultimo momento, chissà.” - Sorrise - “Forse capiremo appena dopo la fine ma non
potremo dirlo a nessuno e lei, signor Mario, non lo potrà scrivere sul suo
giornale...”
Il giornale, già, il giornale. Mario
pensò vagamente ad un fax che voleva mandare quella sera stessa. Ma il fax
svanì quasi subito dalla sua mente, come un'immagine non a fuoco, di nessuna
importanza.
La donna, seduta nella piccola sedia
tornita, continuava intanto a parlare anche se le
parole diventavano sempre più indistinte e confuse: vocali troppo lunghe
assorbivano nella loro musicalità intere frasi in un tempo stranamente dilatato
mentre Mario si sentiva immerso in una specie di musica, quasi avviluppato nel
calore di un bozzolo di materia organica a guardare quel viso fin troppo
fresco, illuminato da due grandi occhi da cui non riusciva a staccarsi e da un
sorriso dolce, da adolescente.
L'età della donna. L'aveva scritta su
un foglio quell'età. Dov'era quel foglio? Forse
sbagliata, quell'età. Certamente sbagliata.
Era difficile per il maturo
giornalista distogliere lo sguardo da quegli occhi grigi ma
la cosa non gli dava fastidio: anche così riusciva a mettere a fuoco alcuni
particolari che prima gli erano sfuggiti e che ora vedeva con maggiore
chiarezza.
I capelli della donna, ad esempio,
che prima gli erano sembrati bianchissimi, ora, forse per via di un raggio di
sole che si era insinuato tra le tende, gli apparivano di un biondo dorato.
La Czernicka
continuava a parlare, piano, quasi sottovoce e quella nenia
riusciva ora ad acuire i sensi di Mario, a liberarli dall'ovatta stopposa in
cui prima erano caduti, ad indirizzarli, acuti e curiosi, verso quel corpo
snello che si indovinava sotto la veste lunga della donna.
Oddio, non poi tanto lunga, quella
gonna, da nascondere caviglie e polpacci ben torniti. Anche la lunghezza di quella
veste era stata forse una falsa impressione: quando la donna accavallava le
gambe Mario riusciva ad intravedere un balenìo di
pelle bianca.
Si chiese perchè mai quella donna
continuava a parlare con una voce sempre più suadente e maliziosa. Si chiese,
ma senza un particolare interesse, cosa diceva quella voce. L'importante non
erano le parole. Non doveva smettere: era questo l'importante. Suoni
indispensabili. Senza di essi il vuoto. Il terrore di
trovare il nulla oltre quella voce.
La voce arrivava sempre più ovattata
e morbida, sospinta da labbra turgide incastonate in un viso di porcellana.
Sospesa in un vuoto senza tempo la voce della donna si librava nella piccola
stanza e colpiva corde remote di esistenza, di piacere, di felicità.
Mario, pur seduto nella piccola sedia
di Chiavari, tese le mani verso la donna che le chiuse nelle sue.
Il fresco abbraccio di quelle mani
rese a Mario un barlume di consapevolezza su una qualche realtà diversa, più
vera ed eterna. Che lo toccassero, quelle mani, che continuassero a stringere
forte le sue e quella realtà sarebbe apparsa in tutto
il suo fulgore.
Non le sentiva estranee, quelle mani.
Gli dicevano, quelle mani, quanto aveva perduto nel lungo cammino della sua
esistenza e quanto ancora poteva ancora sperare di afferrare di quel cammino se
solo riuscisse ad annullarsi in esse, se lasciasse che
quelle mani lo toccassero, si fondessero in lui.
Mario vedeva Ada Czernicka
immobile. Tuttavia intuiva estendersi a tutto il suo corpo, in modo naturale e
spontaneo, l'abbraccio di quelle mani. Nessuna parte era tralasciata. Quelle
mani lo mutavano, lo rinnovavano, fino a consentirgli di sentire, nella parte
più intima e nascosta della sua coscienza, richiami ormai assopiti. Sentì
venire ad esistenza ricordi quasi dimenticati ed un
dolce, intimo calore che preannunciava il rinascere di qualcosa che non
sembrava più appartenergli.
Poi d'improvviso vide, con lo
smagliante fulgore di cristalli iridescenti.
“Giulia – gridò – mia piccola Giulia!
Il tuo fascio di libri legato con l'elastico rosso... Ti
vedo corrermi incontro, vedo l'onda dei tuoi capelli fluire lenta sul tuo collo
e sulle spalle, ti vedo ansimare e ridere, ridere mentre i tuoi piccoli seni si
sollevano... Mi prendi le mani tra le tue, andiamo al mare, Mario, dici.
Andiamo al mare, Giulia. Le dita intrecciate. Sento il tuo profumo misto alla
salsedine e il tuo respiro che si confonde con lo sciabordio delle onde contro
la scogliera. Più avanti, per un attimo, lo sguardo si perde nell'azzurro e nel
blu, poi si riposa sul tuo profilo ed io immergo il viso nei tuoi capelli... “
Alzando lo sguardo, Mario
si vide riflesso nel grande specchio che occupava l'intera parete di fronte.
Non aveva notato uno specchio in quella stanza, uno specchio così grande, ma fu
soddisfatto di quello che vide. Il suo vestito sportivo a quadri, la sua
cravatta sbarazzina, quel lungo ciuffo di capelli che si ribellano al
pettine...E dire che non aveva notato uno specchio in quella stanza...
I colori, attorno, sono
mutati: sono ormai di un giallo vivo. Tutto giallo. Il sole doveva essere
entrato a fiotti nella stanza, e lui non se ne era accorto .
“Giulia, hai fatto bene a
mettere il vestito rosso. Ti dona. Il sole è già caldo. Dobbiamo sbrigarci: ci
aspetta una giornata intensa con quei diavoli scatenati. Dici che staranno
buoni nell'autobus? No, forse ci faranno impazzire ma
non importa. Non dimenticare i termos, Giulia.”
Il riflesso dello
specchio rimanda immagini diverse. Dalle finestre luci di lampioni e pulsanti
insegne al neon. Dentro calde luci e riflessi dorati ovunque e fra questi
riflessi Mario osserva la sua immagine cambiata. Il vestito scuro ed il papillon
gli donano un aspetto fine, distinto. Forse si intravede qualche capello grigio
alle tempie ma non guasta.
“Come siamo eleganti,
stasera. E tu sei bellissima, cara, con il vestito azzurro. Hai prenotato il
ristorante per dopo? O forse preferisci cenare a casa? Anch'io, Giulia,
anch'io...”.
Quanto tempo è passato? Solo alcune ore, se le insegne al neon sono ormai spente e
non disturbano più il soffuso chiarore caldo dell'unica lampada schermata che
illumina il salotto. Solo i lampioni mandano ancora la loro luce fredda a
scontrarsi con le imposte semiaccostate.
“Mi piace guardarti, Giulia, mentre stai
sdraiata sul divano. La tua vestaglia rosa ha un colore che si confonde con
quello delle tue gambe nude. Non nasconde nulla quella vestaglia. Tieni la
testa riversa sul cuscino ed io sono tentato di sedermi vicino a te ed
abbracciarti. Ti desidero, Giulia, ma resto in piedi a
guardarti. Stai con gli occhi socchiusi, in silenzio, le braccia e le mani
abbandonate in grembo. Una gamba sollevata. Ti desidero, Giulia, e sembra che
il tuo corpo mi chiami, ma io gli resisto. Ti desidero, Giulia, ma voglio
prolungare questo momento, fermarlo dentro di me. Voglio continuare a guardarti
e mi vien voglia di inginocchiarmi vicino a te e
pregare nel tuo corpo un dio pagano sconosciuto prima di immergermi nel tuo
tepore...”
Il sole si è nascosto e
dalle finestre entrano rettangoli di luce smorta, liquida. Si posa sopra le
cose come un velo plumbeo. I mobili sono pieni di polvere. Il giorno si è di
nuovo insinuato in casa ma non ha portato che il
colore delle nuvole.
“Perchè, Giulia quella
coperta sulle spalle? Non c'è freddo, Giulia. Perchè quei brividi strani? Il
tuo viso è arrossato, e quasi non sembra più bello. La pelle è tirata, lucida,
la tua fronte imperlata di sudore, da quanto tempo non curi più i tuoi capelli
...”
Il grigio si è
trasformato in bianco vivido. Un bianco che colpisce con forza ed annulla ogni
pensiero. Neppure i sentimenti possono sopravvivere in quel bianco assoluto,
spezzato solo da macchie d'azzurro e riflessi metallici. Strane macchine e tubi
alle pareti. Fetore di disinfettante e di morte.
Mario vede l'ago della flebo infilato in una mano di Giulia, fermato da un
cerotto, la pelle è nera e gonfia. Si avvicina e prende l'altra fra le sue.
L'accarezza, sente il freddo di quelle dita sottili che spuntano dalla manica
macchiata, si china su quella mano e la bacia e sente il sapore salato delle
sue lacrime.
“Non riesci a parlarmi,
Giulia, non ci riesci? Parlami, Giulia! Oh si, si, parlami, cara. I ragazzi?
Arrivano, Giulia. Arrivano. Sono in autostrada. Un'ora al massimo... Ascoltami, Giulia, ascoltami!”
Con angoscia vede che gli
occhi di lei sono di nuovo spenti ed il respiro è diventato lento e
pesante...s'interrompe, a volte, per riprendere con un rantolo orribile.
“Giulia – ripete, quasi
gridando - i ragazzi verranno, non preoccuparti. Solo un ingorgo, arriveranno
fra un'ora al massimo. La strada è lunga, Giulia, è stato tutto così
veloce...”.
Quando solleva il viso si
vede riflesso nel grande specchio, riconosce l'immagine di un uomo dai capelli
radi e quasi del tutto grigi, le guance un pò
cascanti, le lenti spesse. Un uomo che da un pò di
tempo, ogni mattina, lo osserva dallo specchio del bagno.
Quella mano che tiene tra
le sue gli viene strappata con decisione e Mario vede
solo svolazzare camici bianchi attorno al letto, aghi perforano vene gonfie,
deve uscire dalla stanza, non vuole, Grida. Viene
spinto, tirato, prima dolcemente poi con forza. Grida. Da lontano vede solo
camici bianchi svolazzare come grandi uccelli da preda, attorno al letto.
Oltre la porta metallica,
bianca e fredda, Mario grida ancora qualcosa ma le
parole vengono assorbite dalle alte volte del corridoio deserto, lavate dalla
luce bianca, annullate dal candore delle pareti.
Quando il mondo si
ricompose attorno a lui in una stanza tappezzata a fiori, Mario incontrò gli
occhi grigi ed immobili della Czernicka e si trovò a
stringere una mano estranea, scarna e piena di macchie rugginose.
Non c'era alcuno specchio
in quella stanza.
Si alzò barcollando e con
gesti lenti prese il piccolo registratore, lo spense e l'infilò in una tasca
dell'impermeabile. Disse solo: “Vado via”.
Gli occhi della vecchia
erano tristi quando rispose semplicemente: “Mi spiace,
mi spiace davvero.”
Mentre superava la porta
immergendosi nella luce di un sole ormai alto, Mario sentì ancora la voce
cantilenante della Czernicka, opaca e triste,
rimbombare nel vuoto dolorante del suo cervello.
“Se faccio fiorire i
gerani d'inverno? Sì che lo faccio. La Czernicka
prova e a volte riesce. Anche a far rifiorire ricordi. Non è un peccato. Alcuni
sopravvivono. Anche i gerani fioriscono, signor giornalista,
ma pochi sopravvivono. Come i sogni. Come le speranze. Muoiono
d'inverno. Anch'io provo a rifiorire, ma dura poco. Perchè il mio non è un vero
fiorire: è solo un attimo rubato all'inverno.”
Mario aveva già superato
il cancelletto sul vicolo. La voce della vecchia era
ormai quasi inaudibile, ma gli sembrò ugualmente di sentire, in lontananza, che
diceva: “L'inverno uccide i gerani, senza pietà, signor giornalista. L'inverno
è troppo forte per la Czernicka.”