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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Solitudine, di Enzo Lombardo 25/04/2008
 

SOLITUDINE

 

di

Enzo Lombardo

 

 

Mariolino Quarnara aveva undici anni quando si ammalò di dentro ma non fu curato bene perché anche da fuori sembrava malato.

Era troppo gracile e smunto e i suoi capelli biondi ed un po' ricci, gli incorniciavano un viso lentigginoso, un naso troppo grosso e due orecchie a sventola che gli davano un'aria scanzonata in contrasto con i suoi occhi tristi, troppo chiari, quasi trasparenti, in cui sembrava poterci guardare  dentro l'anima martoriata.

Quando Mariolino si ammalò cominciò a sentire le voci. Dapprima erano voci sottili che non dicevano niente. Sussurravamo e basta. Quasi un suono modulato ed insistente. Suoni di nulla.

Ma poi, oltre ai sussurri, a volte Mariolino, di notte, sentiva gridare. L'incubo sbiadiva lentamente e svaniva del tutto quando arrivava sua madre, con il viso teso e gli occhi sbarrati.

Mariolino, Mariolino, perché gridi? Che hai? Hai l'attacco?”

Lui non lo sapeva cos'era “l'attacco”. Però sua madre ne aveva paura e piano piano si abituò ad averne anche lui.

Lo temeva, quell'attacco. Se l'aspettava come una cosa atroce e dolorosa che doveva colpirlo senza pietà. Magari domani. Magari nel sonno, a tradimento.

“No, mamma, non ce  l'ho l'attacco. Sentivo gridare.”

Sognavi, Mariolino. Sognavi. E ti scopri tutto scalciando come un mulo. Magari hai la febbre e ti viene l'attacco. Fai sentire…”.

Una mano fredda si posava sulla fronte di Mariolino, la tastava ben bene scivolando da una tempia all'altra, in una specie di rito che si concludeva sempre con un: “E' calda, è calda..

Le voci tacevano, allora, sommerse da quella stridula della madre. I colori del sogno diventavano più sbiaditi e restava solo il fresco della benda bagnata d'aceto sulla fronte, l'odore pungente e piacevole che gli pizzicava il naso e il duro del termometro all'ascella.

Ma l'aceto e le medicine non potevano guarirlo.

Forse doveva capirli quei sussurri e quei suoni disperati e cupi che gli rimbombavano  nel cervello e fermarli anche, prima che svanissero. Questo pensava Mariolino accoccolato in una posa fetale con la coperta che gli copriva gli occhi riportando la notte.

E così Mariolino cominciò a guardarsi dentro, e quando, prima di dormire, le voci ricomparivano, lui tentava di seguirle con una parte del cervello già semiaddormentata. Le seguiva in un percorso tortuoso che immaginava ogni volta con più dettagli.

Le seguiva strisciando furtivo su muri di pietra coperti di muschio, interrotti da cancelli di ferro che portavano a case i cui tetti spuntavano oltre le siepi alte. Le seguiva su strade e piazze sconosciute e deserte dove di tanto in tanto si fermava ad ascoltare.

Li sentiva, quei sussurri rancorosi, spingersi sopra gli alberi dei viali, mescolarsi allo sciacquio delle fontane, cantare assieme agli zampilli d'argento e vibrare con i riflessi della luna nell'acqua.

Poi, quando i suoni svanivano, anche le strade e le piazze scomparivano lasciandolo esausto e tremante tra le lenzuola bagnate di sudore.

Una notte, poco prima di cedere al sonno, gli sembrò che le voci diventassero un poco più forti e più chiare (ma sempre incomprensibili) e si vide nel viale alberato di casa, proprio sotto il suo portone, nascosto tra le macchine parcheggiate.

Da lì poteva vedere senza essere visto e soprattutto poteva ascoltare le voci che fluivano dalla finestra del salotto, lasciata socchiusa. Come in un gioco.

A poco a poco, dopo aver stretto forte gli occhi immergendosi nel buio caldo del suo letto, alcune voci gli divennero familiari e qualche parola gli parve addirittura comprensibile.

Erano parole smozzicate e cupe. Di suo padre e sua madre. Parole concitate, gridate in un sussurro. Erano sibili più che parole, uscivano dalla finestra e si perdevano incomprensibili nel viale. Una parola era però rimasta intatta vibrando nell'aria della notte, chiara e sibilante, immersa nella strada buia, destinata a vagare oscillando tra i rami degli alberi: “Vattene”.

Dura e tagliente come una lama sottile quella parola vorticò ruotando tra i grossi tronchi del viale e tranciò le foglie al suo passaggio che caddero come pioggia: “Vattene” .

Dura e tagliente quella parola si conficcò come un coltello tra le pietre del selciato, vibrando: “Vattene”.

Poi più nulla. Solo un senso di panico e di solitudine: ed a questo nulla, a questa solitudine ed al silenzio improvviso della notte, Mariolino gridò. Si sentiva sommerso dalle foglie cadute e faceva fatica a respirare. Gli alberi che conosceva bene e che erano suoi amici erano improvvisamente diventati neri e spogli, e la bella strada con le poche macchine colorate fra gli alberi ora gli faceva paura, anch'essa nera e con i fanali oscurati e tutta coperta di foglie fredde e morte.

Sempre gridando Mariolino si svegliò tra le lenzuola bagnate e restò lì, ansimando e cercando di capire, mentre una paura cosciente gli mordeva il ventre e gli irrigidiva le gambe.

Perché quella parola, era ancora nell'aria della stanza: la sentiva rimbalzare piano tra le pareti, la vedeva quasi materializzarsi sul soffitto, scendere sul letto come una coltre opprimente, soffocante.

-         Mariolino, Mariolino. Calmati Mariolino. Hai sognato. Non è niente.”

Mariolino aveva l'impressione che la madre volesse spazzarla via, quella parola, dalle pareti e dal soffitto. Cancellarla dalla coperta che l'avvolgeva come un bozzolo, disinfettare l'aria che ancora vibrava di paura, togliendogli la possibilità di capire.

Perchè l'hai detta quella parola, mamma?” – voleva dire Mariolino – “E' una parola cattiva, terribile. Una parola che fa restare soli. Perchè l'hai detta? Entra nella testa e non ne esce. La fa scoppiare.”

Ma non disse nulla Mariolino.

Perchè non lo diceva a nessuno, Mariolino, che da quella notte, forse recente ma ormai persa in un ricordo confuso, da quella notte che non riusciva a rimuovere completamente, aveva paura.

Guardò sua madre con gli occhi sbarrati, ora sveglio del tutto, tentando di calmare il proprio respiro affannoso.

-          “Non ho avuto l'attacco, mamma – la prevenne Mariolino – vedi che non tremo?”

Seduta sul letto sua madre cominciò a toccarlo sulla fronte, tirandogli con una mano le coperte fino al mento.

-         “Certo che non hai avuto l'attacco, Mariolino. Devi solo stare calmo.”

-         “E se mi viene di notte?”

-         “L'attacco?”

-         “L'attacco.”

-          “Devi solo stare calmo e prendere le medicine. Vedrai che non ti viene. E se ti viene poi passa.”

Mariolino voleva quelle parole ed insieme ne odiava il suono. Erano parole rassicuranti a cui aggrapparsi per non essere spazzato via come una foglia al vento ma erano anche uno schermo opaco attraverso cui riusciva a vedere solo ombre confuse.

Sentiva, Mariolino, il sottile piacere di essere accarezzato, il piacere di essere visibilmente malato ed importante per sua madre ed insieme si chiedeva, ad un livello diverso della coscienza, perchè mai doveva essere così malato dentro, così diverso dai suoi compagni, così solo.

-         “Mamma, mi passerà davvero?”

-         “Prima dell'estate ti passa. Lo ha detto il dottore. Non l'hai sentito?”

-         “Perché prima dell'estate?”

-         “Deve fare il suo corso.”

-         “Così perdo scuola, mamma. E i compagni.”

-         “Non perdi niente, Mariolino. I compiti li fai ed i compagni li troverai l'anno prossimo o te ne farai degli altri. E poi i tuoi compagni vengono a trovarti a casa, non è lo stesso?

La madre aveva  già inzuppato la pezza bagnata d'aceto e una fresca sensazione accompagnò la risposta.

Non è lo stesso – pensava Mariolino. A scuola erano compagni, con cui giocare, fare a pugni, scambiarsi le figurine e rubarsi la merenda. Qui, a casa, Moratti e Sanfilippo venivano per pietà. Sorridevano per pietà. Non erano compagni di scuola e neppure amici. Ti portavano i compiti da fare e basta. Due minuti e via. Nessuno vuole giocare con uno che è malato e trema tutto..

No, non aveva compagni né amici.

O almeno non erano quelli i suoi amici.

Però un amico ce l'aveva. Uno vero, con cui giocare e volersi bene. Uno che non veniva vicino per pietà, ed era Nico, il suo cane.

Anzi era il cane di suo padre ma ora era suo. Un bel cane grosso, con la coda e le orecchie da lupo, ma il muso no, era più bello di quello dei lupi di razza.

Ed era tutto suo perché solo lui gli voleva bene a Nico in quella casa.

Nico era mal sopportato da sua madre. ”Se lo poteva anche portare, tuo padre, quel bastardo” – continuava a ripetere. “Bel regalo mi ha lasciato: poteva anche farne a meno! – diceva – Solo perché ci sei affezionato…se no…

La lasciava sempre in sospeso, quella frase. Non lo diceva mai che l'avrebbe cacciato via, quel cane, ma tuttavia quella remota possibilità restava.

Così Mariolino sentiva il dovere di proteggerlo, il suo Nico. E, quando non stava troppo male, nascondeva i peli lasciati sui tappeti, sfregava le orme lasciate sulla cera dei pavimenti, curava la cuccia nel giardino e gli dava da mangiare biscotti e cioccolata di nascosto.

Lo rimbrottava, anche, tirandoci su una di quelle grosse orecchie penzolanti e gridandoci dentro le cose che non doveva fare.

*  *  *

Poi un giorno Mariolino, si aggravò. Sudava di continuo per la febbre e si acuirono i tremori alle gambe.

Anche i due compagni di scuola furono allontanati o evitarono di venire a trovarlo e Nico venne esiliato in giardino.

Unica presenza, oltre la madre, il vecchio medico di famiglia che veniva spesso “a vedere i miglioramenti”, come diceva. Ma poi parlava fitto fitto con sua madre, sull'uscio di casa, prima di andar via, troppo piano per poter sentire.

- “Forse facciamo un viaggio, sai, Mariolino. Un viaggio a Genova.” – gli disse un giorno la madre con un sorriso forzato dopo avere accompagnato il medico alla porta.

-“Dov'è Genova?”

-“E' lontano, al nord. E c'è un posto, in quella città,  dove potrai guarire completamente.

-“E Nico?”

-“Nico lo lasci. Non muori se non lo vedi per quindici giorni. Ci penserà Teresa.”

 “E invece sì, - pensò Mariolino -  posso morire senza Nico e morirà anche Nico senza di me. Teresa lo lascerà crepare di fame in giardino.

E così, d'impulso, si mise a chiamarlo, a chiamarlo sempre più forte finchè quel nome diventò un urlo e si sentì raspare la porta del giardino. Nico voleva entrare.

La madre strabuzzò gli occhi, il viso improvvisamente duro.

“- Nico deve restare fuori, lo capisci? Quel cane schifoso ti può fare aggravare, lo ha detto il medico. Non è igienico, lo vuoi capire?”

Il cane continuava a raspare, furiosamente, e si sentivano i guaiti sin da laggiù.

 “Com'è vero Iddio se quel cane entra lo butto fuori di casa” -  La voce della madre era bassa, tagliente, implacabile.

Era questa la frase che Mariolino temeva, ed era una frase non del tutto nuova per lui. Almeno nel tono, cupo e minaccioso, gli sembrava di averla sentita più e più volte, anche durante le sue fantasie notturne alla scoperta delle voci e dei sussurri incomprensibili.

Forse era questo il tono che si mescolava al rumore delle foglie dei viali, che aleggiava nell'aria coprendo la luce della luna, che rendeva buie le piazze e neri i zampilli delle fontane?

Era questo il tono di un ricordo che voleva cancellare, di quel ricordo feroce che si trasformava in un peso inconcepibile sotto cui l'anima schiacciata gridava e gridava e gridava…?

Al raspare furioso di Nico si sostituì improvvisamente uno scalpiccio sui pavimenti lucidi di cera, uno zampettare ansioso, un guaito sommesso. Poi Nico si precipitò nella stanza e, ignorando la madre sbigottita, saltò sul letto e prese a leccare la mano di Mariolino, cercando con le zampe il suo corpo nascosto dalle coperte, quasi a volerlo proteggere ed abbracciare.

Poi il tempo rallentò e Mariolino vide, come in un film alla moviola, gli occhi della madre farsi stretti stretti. La vide aspirare l'aria quasi a riempirsene i polmoni per prepararsi ad un unico urlo,  vide lentamente il braccio di sua madre stendersi, un dito puntare sul cane che ora si era steso completamente sul suo corpo, quasi a fargli da scudo. Vide il biancore dei denti fra le labbra stirate di sua madre ed il rosso della sua lingua e restò in attesa.

E l'urlo arrivò insieme a quella parola che vorticava nei suoi strani incubi ad occhi semiaperti e che ora sentiva chiaramente con lo stesso tono e la stessa forza: “-Vattene-

E mentre Nico scendeva, quasi strisciando, dal letto, le orecchie penzoloni e la coda invisibile tra le zampe, per accucciarsi nell'angolo più distante, Mariolino cominciò a tremare.

Ma non era l'attacco, era di nuovo panico e solitudine.

 

 

 

 
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