PAURA
di Enzo Maria Lombardo
Quel
ventitré giugno faceva un caldo boia. Se c'è una cosa che mi fa andare in
bestia, Michele, è la tua trascuratezza che sembra lievitare con il caldo. Non
ho mai sopportato i tuoi vestiti sparsi per casa e i tuoi calzini buttati sul
divano. Non posso usare per settimane, quel divano. Non posso proprio usarlo.
Quell'odore mi fa star male. Specialmente con il caldo.
E quel
ventitré giugno faceva un caldo boia. Tu, come al solito, avevi abbandonato i vestiti un po' ovunque e ti eri installato nel balcone che
dà sul retro, nel vicolo, scalzo, in
canottiera e mutande, incastrato in una poltroncina di vimini, catatonico, con
un bicchiere di limonata in mano. Appoggiato alla ringhiera guardavi in basso i
radi passanti, le donne che stendevano i panni sui fili agganciati alle canne
nelle case terrane ed i gatti che dormivano sui
muretti scorticati.
Sì,
Michele, tu guardavi i gatti. Ne guardavi uno, in particolare. Un grosso gatto
nero. Un gatto enorme, disteso sul muro che delimita un vasto cortile
circondato da case terrane, all'ombra di un fico
selvatico, nato, chissà come, tra le pietre del selciato.
Lo
guardavi con un mezzo sorriso sulle labbra, socchiudendo gli occhi, in una
sorta di intima compenetrazione o di estremo rilassamento. Penso proprio che ti stavi identificando con quel gatto, lasciando vagare i
tuoi pensieri nel caldo vuoto del pomeriggio: pensieri semplici, di pura
sopravvivenza, di abbandono, di ricerca di un piacere fisico fatto di frescura
e refoli di vento, di odori acri di frutta marcia e di sapone da bucato.
Eri forse
entrato in sintonia con l'animale. Succede. Ti vedevo stirare le membra insieme
al gatto ed insieme sbadigliavate al sole morente. Protetti dal mondo del vicolo
e del cortile, pensai, galleggiavate felici entrambi in una bolla calda e
impenetrabile. In un'unica bolla, pensai, tu e quel
gatto. Una bolla creata dalla compenetrazione, fusi nell'ozio animalesco di un
tardo pomeriggio d'estate.
Li
vedesti arrivare, tutti e cinque, i ragazzini del vicolo. Li guardasti con
tenerezza, nei loro calzoncini corti e nelle loro magliette strappate. Se non
ti conoscessi avrei detto che il tuo sguardo era quasi paterno. Conoscendoti,
so che il tuo sguardo tenero era solo l'effetto del tuo stato onirico: stavano
entrando nella tua bolla, Michele. E sorridevi, nel dormiveglia, eri in pace
con il mondo. O forse il mondo esterno non esisteva neppure.
Anche il gatto, li percepì ma mosse solo un'orecchia. La ruotò a
scatti, indirizzandola verso i rumori dei piccoli passi e quell'orecchia vibrò
solo per un attimo. Forse aprì un occhio ma lo
richiuse subito, sbadigliando, consapevole della sua sicurezza.
Tu,
Michele, li osservavi sonnecchiando e – stanco dell'immobilità del gatto -
stavi forse scegliendo, tra quei ragazzini, uno in particolare da seguire con
lo sguardo appannato, uno con cui identificarti completamente, dimenticando il
tuo corpo massiccio, per farti cullare dai suoi movimenti. Uno di cui gustare
le lenti cadenze di braccia e di gambe, quasi fossero pendoli fuori dal tempo.
Socchiudevi
gli occhi e sorridevi, sonnecchiando, ed eri pronto a captare, con pigra
voluttà, frasi e gesti che volevi ospitare nella tua bambagia fatta d'ozio e di
pace.
I
ragazzini avanzavano lentamente, in silenzio, con le mani in tasca. Le lunghe
ombre dei piccoli corpi si confondevano con i chiaroscuri del vicolo ed i loro
passi sembravano attutiti dalla calura delle pietre del selciato. Avanzavano in
silenzio, quasi timorosi, pensai, di turbare l'incanto di quella magica ora
dorata.
Mi
sbagliavo.
Me ne
accorsi non appena tutti, all'unisono - forse ad un segnale o ad un gesto
convenuto - tirarono fuori le mani dalle tasche.
E con le
mani vennero fuori cinque fionde, in un attimo spianate. Si vedeva persino da
lassù che erano strumenti micidiali, ben fatti, costruiti con rami robusti e
levigati, con
elastici spessi e neri, ritagliati da vecchie camere d'aria.
Cinque
pietre grosse come noci fischiarono nel cortile: qualcuna colpì il muretto e ne
schizzarono piccole nuvole di calce, altre si persero tra i panni stesi ma una
colpì il bersaglio.
Il grosso
gatto nero fece un balzo, lo vedemmo per un attimo librarsi in aria agitando le
zampe, capovolto, prima di cadere ai piedi del muro, con le zampe ancora in
alto, il corpo arcuato in modo innaturale ed una macchia rossa che si allargava
da un'orecchia.
Ci hai
messo un paio di secondi a svegliarti del tutto, Michele. E un altro per
mettere a fuoco quella massa nera palpitante a ridosso del muretto. Poi il tuo
“nooooooo!” echeggiò nel vicolo come l'eco di
uno sparo, lungo, lugubre, vibrante e disperato, accompagnato dallo scalpiccio
disordinato di dieci piedi in corsa che si allontanavano dal vicolo e
scomparivano nello stradone.
“Noooo!”, continuavi a gridare mentre ti svincolavi a
fatica dalla poltroncina e correvi verso la porta. Ed hai ripetuto quel grido
feroce nell'ingresso e per le scale e non smettesti di urlare neppure in quei
pochi metri che separano il portoncino dal muretto del cortile.
Dal
balcone, prima che tu ti avvicinassi al muro, vidi che il gatto aveva ormai
smesso di agitare le zampe in aria. Stava lì, immobile, con la bocca aperta e
mezza lingua di fuori. Continuavo a sentire il tuo urlo, Michele. Poi udii il
tuo silenzio. Ti hanno ucciso, Michele, pensai. Sì, ti
hanno colpito nel dormiveglia. Sono entrati con la loro assurda noce di pietra
nella tua bolla, frantumandola. E in questa bolla c'eri tu, Michele, fuso in
quel gatto nero.
Ti rivedo
adesso accanto a quella massa di pelo, assorto, ammutolito. Lo tocchi, lo
sollevi, lo riponi piano,
lo sollevi di nuovo e con quella massa di pelo fra le mani, ti alzi e ti giri
attorno, come un'ebete, mostrandolo ad una folla inesistente. Non mi hai sentito nemmeno arrivare o forse
non ti importava avere vicino qualcuno. Perché eri morto, Michele, la tua era
una morte temporanea ma eri pur sempre morto. O almeno dentro di te qualcosa
era morto. Il tuo silenzio totale ed il tuo viso senza alcuna particolare
espressione davano bene l'idea della morte.
Più tardi
raccogliesti in silenzio i tuoi vestiti sparsi per casa ed in silenzio ti sei
rivestito: stavi lentamente riemergendo dalla tua morte temporanea ma nel tuo
viso cominciava a delinearsi un'espressione nuova. Non eri triste, no, Michele,
non eri triste e non stavi odiando nessuno. Mi sbaglierò ma nel tuo viso si
disegnava un'attenzione inconsueta, i tuoi occhi erano troppo vigili, muovevi a
scatti la testa come per guardarti dietro le spalle. Anche i miei movimenti,
nella stanza, ti scuotevano.
La tua era paura, Michele. Era
palpabile, la sentivo. Paura. Ti si leggeva, chiara,
negli occhi. Una paura strana che non avevo mai visto nel tuo sguardo mentre lo
posavi su di me, sulle case del vicolo arrossate dal tramonto, sul cortile.
Non sei
più un ragazzino, ti dissi, Michele. Era solo un
gatto, è morto, finiscila, cristo. La vuoi finire,
Michele? La risposta non venne ma, con i calzoni infilati a mezzo, ti sei
bloccato e mi
hai piantato addosso gli occhi di un estraneo.
Forse ti
facevo anch'io paura, Michele, confessalo. Ti facevo paura anch'io, forse, così
come ti impauriva la tenera visione di quei cinque ragazzini che ancora avevi
nella retina.
Avrei
voluto dirti che forse ora temevi la tenerezza, Michele, ma non lo dissi. Era
solo un'idea. Una mia idea. Un modo di entrare nei tuoi pensieri. Sbaglierò,
pensai, ma credo che anche la luce del crepuscolo, il tepore affievolito della
sera, il suono ovattato di una radio lontana ed il fruscio tranquillo dei panni
scossi dalla prima brezza, ora ti angosciano, Michele.
Come visioni di trappole, trabocchetti. Anche questo non lo dissi. Perché
suonava assurdo. Erano solo pensieri vaganti. Cose mie. E non è detto che erano
anche i tuoi pensieri.
Ma se lo
erano, Michele, potevi aver ragione.
Sì,
cristo, pensai, forse hai proprio ragione ad aver paura della tranquillità
apparente di cento immagini false. Forse hai ragione, Michele, di temere di
essere intrappolato a tradimento in una bolla di pace. Una bolla come quella
che ti ha cullato, felice ed in cui, per un lungo momento, sei morto.
Quando
sei andato via, quella sera, salutandomi con un grugnito, quasi senza vedermi,
raccolsi con due dita, a braccio teso, i tuoi calzini schifosi dimenticati sul
divano e li gettai con furia nella pattumiera. Ero incazzato, Michele.
Incazzato nero. Non avrei potuto usare per settimane, quel divano. Non avrei
potuto proprio usarlo, Michele. Quell'odore mi fa star
male. Da non crederci.
(Dalla raccolta: “Caro Michele…”)