Cinzia Pierangelini
Insofferenza
La
prima volta in cui si accorse di non provare più nulla per il suo cane, Chiara
fu presa da una vertigine. Il malessere si trasformò presto in una vera
malattia che la tenne a letto per diversi giorni, in preda a una sorta di
nausea, causata dai continui giramenti di testa.
Rosario,
premuroso come sempre,
si comportò come un angelo; in quel periodo come in tutti gli
altri, d'altronde, in cui lei era stata male o aveva avuto delle difficoltà.
”Un marito d'oro” come le dicevano tutte le amiche, invidiandole le premure a
cui era stata abituata, e che lei pareva non tenere nel debito conto, considerandole
connaturate all'amore.
”L'amore?
Ma il matrimonio è la tomba dell'amore! Non te ne sei ancora accorta? Non so
più neanche quanti anni sono che non provo nulla di simile all'amore, per mio
marito.” Le aveva detto Paola, l'ultima volta che si
erano scambiate confidenze. “E in fondo anche con gli altri non è più un
granché; sarà l'età.”.
“Gli altri? Gli altri chi?”
Chiara, aveva posto la domanda all'amica con un tono di voce troppo alto, se ne
rese conto mentre le parole le scappavano di bocca come schiaffi.
”Ehi,
che modi! Mica vorrai farmi la paternale?! E poi non
dirmi che a te non è mai capitato, santarellina.”
“Scusa,
ma sono rimasta sorpresa. Non credevo che… non volevo giudicarti, ci
mancherebbe. Comunque no,
non mi è capitato; e non mi capiterà mai! Almeno
lo spero.”
“Ma
dai! Non ci credo; saresti una rarità. In ogni caso non ti perdi granché; in
fondo conosciuto un uomo li conosci tutti. E' che io non riesco a rinunciare al
brivido iniziale della conquista, capisci? Ovviamente dura poco, in genere
giusto il tempo di conoscere le sue malattie, le fissazioni, di vedere che
perde i capelli o peggio che ha la forfora!”
“Che
schifo! Ti prego cambiamo argomento. Mi hai distrutto un mito; mi sembravi così
felice del tuo matrimonio. Non avrei mai creduto, davvero…”
“Ok,
ok lasciamo perdere; non pensavo fossi così bigotta però, Biancaneve!”
Dal
primo giorno in cui Chiara, in preda ai capogiri, si era ammalata, il cane si
era stabilito nella sua stanza. Paziente come un monaco tibetano, viveva un suo
personale ritiro da qualsiasi manifestazione vitale, accucciato sul pavimento
sotto il letto. Non c'era verso di stanarlo; passava intere ore, immobile e silenzioso, sospirando di tanto in tanto, come
chi non riesca a darsi pace. Soltanto se Chiara si alzava per andare in bagno,
o sgranchirsi un po', la bestiola saltava fuori felice, in un tripudio di
saltelli, mugolii e colpi di coda; con la felicità pura e totale di chi sia
stato esaudito nelle sue preghiere. Una felicità di breve durata però, quando
capiva che la donna si sarebbe coricata di nuovo, rimaneva come basito sulla
soglia della stanza; poi, con una discrezione quasi nobiliare, scivolava di
nuovo, in silenzio, sotto il letto, dove rimaneva sdraiato, con la testa
appoggiata lunga -lunga sulle zampe davanti e gli occhi aperti, come fissi su
qualcosa di lontano.
A
Chiara, ricordava sua madre; quando, instancabile, la assisteva nelle lunghe
notti di malattia. Anche sua madre aveva quel modo di
guardare lontano, uno sguardo senza sguardo, forse dovuto alla stanchezza della
veglia e dell'immobilità; si rivedeva bambina, a disagio nel letto, sentiva la
sua vocina dire: “Mamma, vai a dormire. Sei stanca.”
inutilmente però. Sua madre, infatti, non si muoveva; né il suo sguardo mutava,
quasi che una seppur minima distrazione potesse rivelarsi fatale.
Anche al cane Chiara diceva: ”Vai, stupida bestia! Che
stai a fare qui? Pezzo di fesso!” ma il cane neanche la guardava, a volte
muoveva un po' un'orecchia,
giusto un fremito. Il suo compito millenario era star lì a difenderla,
accudirla, e pregare per lei.
“Questa
bestia ti adora!” le diceva Rosario commosso “Lo devo
letteralmente trascinare al guinzaglio, per portarlo fuori; vuole tornare da
te. Ti ha scelta dall'inizio, sei la sua padroncina, la sua padroncina malata. Povera padroncina e povero
cane.” canterellava.
“Piantala, Rosario! Per piacere.”
“Ehi,
che ho detto? Scherzavo. Perché ti arrabbi così?”
Chiara
aveva girato la testa verso la finestra, senza più rispondere, mentre due
lacrime le infuocavano gli occhi. Il marito era uscito dalla stanza, mogio,
pieno di disapprovazione e d'impotenza davanti a quel mutismo ostinato.
Un'arma, con cui tante volte Chiara aveva concluso discussioni
importanti e vinto piccole
battaglie del menage familiare. Un silenzio che Rosario odiava, perché lo
escludeva dalla vita della moglie, chiudendo la comunicazione, e facendolo
sentire piccolo e indifeso.
Quel
silenzio, solido come un muro, lo mandava in bestia. Avrebbe voluto abbatterlo
con la violenza; avrebbe desiderato gridare, e scuotere sua moglie sino a farla
tornare indietro, nel loro mondo, nel mondo che avevano creato insieme: con i
loro ricordi, la casa, il cane… Nel mondo da cui lei lo esiliava, punendolo di
colpe che non conosceva, ingiustamente e ferocemente. Ma non era mai riuscito a
gridare, né a prenderla per le spalle. Le prime volte aveva provato ad
accarezzarla invece, a stringerla a sé; ma il corpo rigido di Chiara lo aveva
spaventato ancora di più. Così ormai preferiva allontanarsi, distrarsi in
qualche modo, scacciare la sensazione umiliante che quel muto rifiuto gli creava.
Rosario
dunque era uscito, sbattendo la porta, unico gesto di violenza che il suo
amore, e l'educazione da -marito d'oro-, gli permettevano.
Chiara
finalmente aveva potuto piangere, con la testa sempre girata verso la finestra;
come se dovesse ancora nascondere la sua debolezza, la sua paura, agli occhi
del marito. Perché tale era il suo silenzio: paura, incapacità di mettersi a
nudo, o di esternare la rabbia, la frustrazione, i bisogni. Più riconosceva
l'assurdità del suo mutismo più si arrabbiava con se stessa, e puniva Rosario;
dal dolore del marito, riceveva infine la giusta pena che credeva di meritare;
in un circolo vizioso,
senza fine e senza scopo.
Avrebbe
voluto parlargli invece, spiegargli come mai la testa aveva cominciato a
girarle; avrebbe voluto non vergognarsi di ammettere ciò che, come in un lampo,
aveva dissolto il suo amore per il cane. Avrebbe dovuto confessare tutti i
pensieri che da mesi ormai faceva: la sensazione di portare al guinzaglio un
contenitore d'escrementi, l'umiliazione di raccogliere peli ogni giorno in giro
per la casa, l'estraneità che nutriva per la bestia e l'assurdità di una
convivenza tra due specie così dissimili. E l'orrore poi! L'orrore che sentiva
per le passioni del cane, per il cibo che mendicava senza sosta dalla tavola,
per gli odori che lo attraevano in strada, e persino per il modo di farsi
grattare il fondoschiena. Tutto era diventato osceno, ai suoi occhi; e immondo.
Una millenaria convenzione si era sradicata dentro di lei, e la donna aveva
visto il cane: una bestia. Una bestia in casa sua.
Forse
avrebbe dovuto confessare i suoi pensieri all'inizio, non appena si erano
presentati; magari Rosario avrebbe detto qualcosa, una battuta ad esempio,
capace di scacciare quelle sensazioni per sempre. Ma adesso, come avrebbe
potuto farlo? Non sarebbe mai riuscita a confessare, adesso, che l'animale di
casa, quel quasi figlio che aveva condiviso tutti i momenti della loro vita,
quell'angelo che la proteggeva da sotto il letto, le suscitava orrore e schifo!
Chiara
si alzò per andare in bagno a sciacquarsi il viso, e il cane, felice, abbandonò
la sua tana per saltarle addosso, allegro; davanti al bagno lei gli assestò un
calcio, e si chiuse dentro. Fece in tempo, però, a vedere gli occhi
dell'animale: avevano uno sguardo confuso, sorpreso. Quando riaprì la porta, il
cane era ancora lì, seduto; scodinzolava timido, incerto sul comportamento da
assumere. Chiara lo chiamò e la bestiola, dissolto ogni
dubbio, si fece avanti gioiosa; pareva dire: “Tutto dimenticato! Magari
ti sei sbagliata con quel calcio.”
Chiara
richiuse la porta su quel muso fiducioso, e un capogiro violento la fece quasi
cadere per terra; si aggrappò al lavandino, dove rimase piegata in due per
diversi minuti, a occhi chiusi. Riaprendoli, notò subito un pelo; un pelo
sfuggito alla pulizia del mattino. Un orribile pelo, nero, ricciuto.
Tenuto
in bilico da una goccia d'acqua, stava immobile, sulla ceramica candida del
lavandino. Quel pelo minuscolo, visto da vicino, sul biancore dello smalto,
assunse le proporzioni smisurate di un incubo. Un pensiero le vorticava in
testa come se non riuscisse, o non volesse, venir fuori; e poi: ”Non è del
cane!” disse Chiara raddrizzandosi, e prendendo confidenza con un'orribile
certezza che inesorabilmente le nasceva dentro. Il pelo disgustoso non era del
cane e neanche suo.
Il
pelo disgustoso sul lavandino era… di Rosario.
(da Dall'ultimo leggio – Traccediverse,
2005)