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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Insofferenza, di Cinzia Pierangelini 16/05/2008
 

Cinzia Pierangelini

 

                            Insofferenza

      

 

La prima volta in cui si accorse di non provare più nulla per il suo cane, Chiara fu presa da una vertigine. Il malessere si trasformò presto in una vera malattia che la tenne a letto per diversi giorni, in preda a una sorta di nausea, causata dai continui giramenti di testa.

Rosario, premuroso come sempre,  si comportò come un angelo; in quel periodo come in tutti gli altri, d'altronde, in cui lei era stata male o aveva avuto delle difficoltà. ”Un marito d'oro” come le dicevano tutte le amiche, invidiandole le premure a cui era stata abituata, e che lei pareva non tenere nel debito conto, considerandole connaturate all'amore.

”L'amore? Ma il matrimonio è la tomba dell'amore! Non te ne sei ancora accorta? Non so più neanche quanti anni sono che non provo nulla di simile all'amore, per mio marito. Le aveva detto Paola, l'ultima volta che si erano scambiate confidenze. “E in fondo anche con gli altri non è più un granché; sarà l'età.”.

“Gli altri? Gli altri chi?” Chiara, aveva posto la domanda all'amica con un tono di voce troppo alto, se ne rese conto mentre le parole le scappavano di bocca come schiaffi.

”Ehi, che modi! Mica vorrai farmi la paternale?! E poi non dirmi che a te non è mai capitato, santarellina.

“Scusa, ma sono rimasta sorpresa. Non credevo che… non volevo giudicarti, ci mancherebbe. Comunque no,  non mi è capitato; e non mi capiterà mai! Almeno lo spero.”

“Ma dai! Non ci credo; saresti una rarità. In ogni caso non ti perdi granché; in fondo conosciuto un uomo li conosci tutti. E' che io non riesco a rinunciare al brivido iniziale della conquista, capisci? Ovviamente dura poco, in genere giusto il tempo di conoscere le sue malattie, le fissazioni, di vedere che perde i capelli o peggio che ha la forfora!

“Che schifo! Ti prego cambiamo argomento. Mi hai distrutto un mito; mi sembravi così felice del tuo matrimonio. Non avrei mai creduto, davvero…”

“Ok, ok lasciamo perdere; non pensavo fossi così bigotta però, Biancaneve!”

Dal primo giorno in cui Chiara, in preda ai capogiri, si era ammalata, il cane si era stabilito nella sua stanza. Paziente come un monaco tibetano, viveva un suo personale ritiro da qualsiasi manifestazione vitale, accucciato sul pavimento sotto il letto. Non c'era verso di stanarlo; passava intere ore, immobile e silenzioso, sospirando di tanto in tanto, come chi non riesca a darsi pace. Soltanto se Chiara si alzava per andare in bagno, o sgranchirsi un po', la bestiola saltava fuori felice, in un tripudio di saltelli, mugolii e colpi di coda; con la felicità pura e totale di chi sia stato esaudito nelle sue preghiere. Una felicità di breve durata però, quando capiva che la donna si sarebbe coricata di nuovo, rimaneva come basito sulla soglia della stanza; poi, con una discrezione quasi nobiliare, scivolava di nuovo, in silenzio, sotto il letto, dove rimaneva sdraiato, con la testa appoggiata lunga -lunga sulle zampe davanti e gli occhi aperti, come fissi su qualcosa di lontano.

A Chiara, ricordava sua madre; quando, instancabile, la assisteva nelle lunghe notti di malattia. Anche sua madre aveva quel modo di guardare lontano, uno sguardo senza sguardo, forse dovuto alla stanchezza della veglia e dell'immobilità; si rivedeva bambina, a disagio nel letto, sentiva la sua vocina dire: “Mamma, vai a dormire. Sei stanca.” inutilmente però. Sua madre, infatti, non si muoveva; né il suo sguardo mutava, quasi che una seppur minima distrazione potesse rivelarsi fatale.

Anche al cane Chiara diceva: ”Vai, stupida bestia! Che stai a fare qui? Pezzo di fesso!” ma il cane neanche la guardava, a volte muoveva un po' un'orecchia,  giusto un fremito. Il suo compito millenario era star lì a difenderla, accudirla, e pregare per lei.

“Questa bestia ti adora!” le diceva Rosario commosso “Lo devo letteralmente trascinare al guinzaglio, per portarlo fuori; vuole tornare da te. Ti ha scelta dall'inizio, sei la sua padroncina, la sua padroncina malata.  Povera padroncina e povero cane.” canterellava.

Piantala,  Rosario! Per piacere.”

“Ehi, che ho detto? Scherzavo. Perché ti arrabbi così?”

Chiara aveva girato la testa verso la finestra, senza più rispondere, mentre due lacrime le infuocavano gli occhi. Il marito era uscito dalla stanza, mogio, pieno di disapprovazione e d'impotenza davanti a quel mutismo ostinato. Un'arma, con cui tante volte Chiara aveva concluso discussioni importanti e vinto  piccole battaglie del menage familiare. Un silenzio che Rosario odiava, perché lo escludeva dalla vita della moglie, chiudendo la comunicazione, e facendolo sentire piccolo e indifeso.

Quel silenzio, solido come un muro, lo mandava in bestia. Avrebbe voluto abbatterlo con la violenza; avrebbe desiderato gridare, e scuotere sua moglie sino a farla tornare indietro, nel loro mondo, nel mondo che avevano creato insieme: con i loro ricordi, la casa, il cane… Nel mondo da cui lei lo esiliava, punendolo di colpe che non conosceva, ingiustamente e ferocemente. Ma non era mai riuscito a gridare, né a prenderla per le spalle. Le prime volte aveva provato ad accarezzarla invece, a stringerla a sé; ma il corpo rigido di Chiara lo aveva spaventato ancora di più. Così ormai preferiva allontanarsi, distrarsi in qualche modo, scacciare la sensazione umiliante che quel muto rifiuto  gli creava.

Rosario dunque era uscito, sbattendo la porta, unico gesto di violenza che il suo amore, e l'educazione da -marito d'oro-, gli permettevano.

Chiara finalmente aveva potuto piangere, con la testa sempre girata verso la finestra; come se dovesse ancora nascondere la sua debolezza, la sua paura, agli occhi del marito. Perché tale era il suo silenzio: paura, incapacità di mettersi a nudo, o di esternare la rabbia, la frustrazione, i bisogni. Più riconosceva l'assurdità del suo mutismo più si arrabbiava con se stessa, e puniva Rosario; dal dolore del marito, riceveva infine la giusta pena che credeva di meritare; in un circolo vizioso,  senza fine e senza scopo.

Avrebbe voluto parlargli invece, spiegargli come mai la testa aveva cominciato a girarle; avrebbe voluto non vergognarsi di ammettere ciò che, come in un lampo, aveva dissolto il suo amore per il cane. Avrebbe dovuto confessare tutti i pensieri che da mesi ormai faceva: la sensazione di portare al guinzaglio un contenitore d'escrementi, l'umiliazione di raccogliere peli ogni giorno in giro per la casa, l'estraneità che nutriva per la bestia e l'assurdità di una convivenza tra due specie così dissimili. E l'orrore poi! L'orrore che sentiva per le passioni del cane, per il cibo che mendicava senza sosta dalla tavola, per gli odori che lo attraevano in strada, e persino per il modo di farsi grattare il fondoschiena. Tutto era diventato osceno, ai suoi occhi; e immondo. Una millenaria convenzione si era sradicata dentro di lei, e la donna aveva visto il cane: una bestia. Una bestia in casa sua.

Forse avrebbe dovuto confessare i suoi pensieri all'inizio, non appena si erano presentati; magari Rosario avrebbe detto qualcosa, una battuta ad esempio, capace di scacciare quelle sensazioni per sempre. Ma adesso, come avrebbe potuto farlo? Non sarebbe mai riuscita a confessare, adesso, che l'animale di casa, quel quasi figlio che aveva condiviso tutti i momenti della loro vita, quell'angelo che la proteggeva da sotto il letto, le suscitava orrore e schifo!

Chiara si alzò per andare in bagno a sciacquarsi il viso, e il cane, felice, abbandonò la sua tana per saltarle addosso, allegro; davanti al bagno lei gli assestò un calcio, e si chiuse dentro. Fece in tempo, però, a vedere gli occhi dell'animale: avevano uno sguardo confuso, sorpreso. Quando riaprì la porta, il cane era ancora lì, seduto; scodinzolava timido, incerto sul comportamento da assumere. Chiara lo chiamò e la bestiola, dissolto ogni dubbio, si fece avanti gioiosa; pareva dire: “Tutto dimenticato! Magari ti sei sbagliata con quel calcio.”

Chiara richiuse la porta su quel muso fiducioso, e un capogiro violento la fece quasi cadere per terra; si aggrappò al lavandino, dove rimase piegata in due per diversi minuti, a occhi chiusi. Riaprendoli, notò subito un pelo; un pelo sfuggito alla pulizia del mattino. Un orribile pelo, nero, ricciuto.

Tenuto in bilico da una goccia d'acqua, stava immobile, sulla ceramica candida del lavandino. Quel pelo minuscolo, visto da vicino, sul biancore dello smalto, assunse le proporzioni smisurate di un incubo. Un pensiero le vorticava in testa come se non riuscisse, o non volesse, venir fuori; e poi: ”Non è del cane!” disse Chiara raddrizzandosi, e prendendo confidenza con un'orribile certezza che inesorabilmente le nasceva dentro. Il pelo disgustoso non era del cane e neanche suo.

Il pelo disgustoso sul lavandino era… di Rosario.

(da Dall'ultimo leggioTraccediverse, 2005)


 

 
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