Il Bar Ugo
di Enzo Maria Lombardo
Il bar Ugo chiude. Hanno già portato
via il bancone, il frigo e le vetrine. Il vecchio Ugo ha messo in macchina le
ultime bottiglie di liquore e le lattine. Poca cosa.
Ieri sera è stato portato via anche
il piccolo pianoforte verticale. Le sue corde gemevano mentre lo caricavano di
mala grazia su un furgoncino. Solo per un momento la cacofonia di fruscii
sonori e di scampanellii richiamò l'attenzione dei passanti; poi il silenzio
venne interrotto dallo sfregare delle cinghie sul legno e infine dal rombo del Guzzi. Neppure una coperta da imballo, neppure un cartone a
coprire la sua nera nudità.
Domani scomparirà anche l'insegna del
bar Ugo.
Sì, il
Bar Ugo chiude, Michele: ma stasera posso ancora immaginarti curvo sui tasti
ingialliti di quel pianoforte mezzo scordato, lo sguardo perso verso orizzonti
lontani, le mani aperte, come mostruose farfalle su gradini d'avorio, appena appena sollevate dalla tastiera e pronte ad un
“pianissimo”: l'attacco preferito delle tue incompiute.
Suonavi solo per noi, Michele,
ricordi? La sera, sul tardi, quando gli altri clienti pagavano il conto in
fretta, guardando l'orologio, tu scuotevi il tuo testone ricciuto, quasi avessi
avuto una rivelazione improvvisa, e lasciavi il tavolino ingombro di bicchieri
e lattine di birra per avvicinarti al pianoforte come un sonnambulo.
Ugo finiva di sciacquare i bicchieri,
toglieva il sonoro alla tivù e aggirava a passetti il bancone, lo strofinaccio
sul braccio e un sorriso stampato fra le rughe. Poi, con la sua solita
cordialità indecisa, di padre o di fratello maggiore, diceva: “Stasera musica
ragazzi!”, “Meglio che al Massimo”! o qualcosa del
genere.
Poi passava lo strofinaccio su una
spalla e restava così, in attesa, una mano sulla tavola superiore dello
strumento, quasi a volerne carpire le prime vibrazioni. Nella penombra, i suoi
capelli grigi assumevano i riflessi dei colori pulsanti di una pubblicità al
neon.
Anche Mario, Cesare e io ci
avvicinavamo lentamente, evitando di smuovere le sedie.
Ma una sera il tuo “pianissimo”
abortì miseramente franando nella cacofonia di una frenata e di un motore in
folle. Nessuno scese da quella macchina che s'era parcheggiata proprio davanti
alla porta a vetri del bar. Dai finestrini scuri uscì a stento il biancore di
tre paia d'occhi che sembravano scrutare qualcosa lì dentro. Poi quella
macchina ripartì sgommando e tu riprendesti a suonare immergendoti nel tema
principale, mugolando il motivo assieme al pianoforte, aggiungendovi note e note
in un complicato contrappunto.
Ti stavamo attorno, Michele, ricordi?
Ugo, però, era rimasto immobile con lo sguardo fisso alla vetrata, gli occhi
socchiusi, come a voler fissare in mente qualcosa d'importante; poi si era
allontanato strascicando i piedi, rimettendosi dietro il bancone ad asciugare i
bicchieri. Sentivamo stridere le sue mani sui bordi del vetro bagnato e in
certi momenti quei bicchieri emettevano un fischio acutissimo, fastidioso.
Mario fece: “Ssssss.....”. Anch'io mi girai sorpreso. Diedi un'occhiata ad Ugo
e, guardandolo, lo vidi pensoso a rigirare come un automa i bicchieri già
puliti, lo sguardo perso nel vuoto, oltre la porta.
Dopo quella sera Ugo non fu lo
stesso: le sue birre non furono accompagnate dai lazzi ingenui e dalle leggere
manate sulle spalle. La tivù era sempre accesa ma nessun
accenno al campionato. Anche tu, Michele, hai sentito un'aria diversa là
dentro e da quella sera evitasti persino di suonare. Solo Cesare, una volta
chiese:
- C'è qualcosa che non va, Ugo?
- Niente, niente - rispose.
- Come niente? - fa Cesare.
- Niente, ti dico! Cose porche della
vita mia...
Ma un giorno la saracinesca la
trovammo aperta solo a metà: Ugo stava raschiando la vernice bruciata. Per
stasera sarà a posto, ci disse. Una ragazzata.
Accanto alla porta stava ancora una
lattina d'olio tutta annerita e accartocciata e si sentiva forte l'odore della
benzina.
- Stronzi. - disse Cesare.
- Sì, proprio stronzi. - ripeté Ugo.
- E tu non fai niente? - fece Mario.
Ugo girò il capo e ci guardò da sotto
in sù. Aveva il viso smorto, gli occhi socchiusi come
se fosse passato or ora dal buio alla luce. I suoi capelli, sotto il sole,
apparivano quasi candidi. Poi si sforzo di sorridere:
- Sto facendo qualcosa, mi pare. Più
tardi darò anche due colpi di pennello e ho finito. Ragazzate.
- Ragazzate? - ripeté Cesare - Porco
mondo, a beccarli!
- E quando li becchi? – disse Mario –
Saranno stati i ragazzini di qualche cortile qua vicino. Stronzetti. Di quelli
che ti fregano le gomme e l'autoradio e poi si rintanano sotto le gonne delle
madri.
- Ragazzini... Ma sì, ragazzini! –
farfugliò Ugo a mezza voce, sfregando con la spazzola di ferro – Ragazzini,
certo...
Poi fu la volta della finestra del
cesso. Quella che dà sulla traversa. Una traversa buia che ci si passa a stento
in due. E la finestra era solo un buco con un vetro e con una croce di ferro
per inferriata. Tra le sbarre avevano passato uno straccio bagnato imbevuto di
qualcosa. Benzina, petrolio. Lo straccio era caduto sulla tazza del cesso e s'era
spento. Era riuscito solo ad annerire la tazza e il coperchio.
- Roba da niente - Fece Ugo quando
gli chiedemmo qualcosa, quella sera. - La tavoletta era da cambiare. Il peggio
è stato il vetro: ho dovuto tirarlo fuori a pezzi dalla tazza.
- Tutto qui quello che hai da dire? –
fece Cesare. - E ti va bene così?
- No, che non mi va bene, Cesare. Non
mi va bene per niente. Ma passerà. Si stuferanno prima o poi.
- Si stuferanno, dici?! – Era Mario: ed era in uno dei suoi momenti d'oro. Tutto
eccitato, rosso, batteva il pugno chiuso di una mano sul palmo dell'altra. –
Porco mondo, prima la saracinesca, ora il cesso: ti stanno scassando il locale
e tu dici che si stuferanno?
Tu, Michele, sollevasti il testone
ricciuto con una smorfia di disgusto, sbattendo gli occhi come a volerti
svegliare del tutto. Riuscisti persino a biascicare:
- E' vero, è vero. Mario ha ragione.
Un giorno o l'altro manderanno a fuoco il locale.
- No, che non lo mandano a fuoco il
locale – disse Ugo - Non conviene a nessuno... E non conviene a nessuno dire
parole grosse. Manco a voi. Stai tranquillo Michele, non lo scassano il locale,
non conviene...
Il tuo faccione si distese in un
sorriso dolcissimo: ogni invito alla tranquillità ti ha sempre donato quel
sorriso dolce, Michele. Il tuo mondo di soffice bambagia si apprestava già ad
accoglierti nuovamente nel suo grembo.
- Contento tu... - dicesti.
- No, no! Che contento?! – dicemmo quasi in coro Mario e io - Dobbiamo fare
qualcosa.
Cesare stava pensando, poi disse:
- Ecco: dobbiamo fare squadra! Ci
appostiamo stasera nel vicolo, e anche domani e domani l'altro. Prima o poi lo rifaranno, quei piccoli bastardi. E quando arrivano li
pestiamo. Anche se sono ragazzini, mocciosi, poppanti in fasce, anche se...
- Sì, - fece Mario sempre più infervorato
- e poi li trasciniamo a casa per le orecchie. Glieli stacchiamo,
quelle orecchie. Avranno pure una casa, un padre, una madre. E se non ci
pensano loro...
- Grazie, grazie ragazzi - fece Ugo -
Ma lasciate perdere... Non è successo niente, vi dico! Solo la tavoletta del
cesso. Ed era pure rotta. Ho altri cazzi per la testa...
- Che cazzi? – feci io.
- Oh, tanti... i soliti. Le fatture,
le bollette, le tasse da pagare. E l'affitto. E la gente che non viene. E poi
la casa. Io ho moglie e un figlio, a casa, lo sapete.
- E gli amici? – facesti tu. Avevi
gli occhi ancora appannati di sonno ma sorridevi. Un sorriso poetico. Forse
stavi rivoltando nel cervello la parole “amicizia” tra
le note - I tuoi amici non contano niente?
- Contano, contano... Ma non sempre
gli amici possono fare qualcosa – sospirò Ugo - E gli amici non ti pagano le bollette
e i fornitori... Cosa porto a casa, Michele, l'amicizia? Cosa mette Lina nella
sporta? L'amicizia?
- Va beh, va beh, - fece Cesare – tu
non ci pensare. Stasera vai a casa come al solito, da tua moglie e da tuo
figlio. Ci stiamo solo noi tre nel vicolo. Solo per la soddisfazione di...
- No! No! Basta! – Ugo ansimava -
Lasciate perdere! Tutti e quattro. Lasciatemi perdere...
Non lo avevamo mai visto così. La
barba di due giorni, gli occhi cerchiati di nero, il capo chino e due rughe
nella fronte che parevano solchi. Continuava a passare lo straccio sul bancone
e sfregava, sfregava e ad ogni inutile passata mugolava qualcosa.
- Ma... – cominciò Mario.
- Basta! Avete capito?! – Ora Ugo gridava.
– Vi ho detto di lasciare perdere, sant'iddio! – E
gridando lanciò in alto lo straccio bagnato. Lo straccio volò verso il
soffitto, poi ricadde con un tonfo su un tavolo.
Quello scatto sembrò svuotarlo del
tutto. Noi restammo a guardarlo sbalorditi. Forse offesi.
Ma durò un attimo, quel tanto da
renderci conto che Ugo stava male: ingoiava aria, come un mantice sfiancato, le
mani aperte sul bancone d'acciaio, a sorreggersi.
D'un tratto allo sbalordimento
subentrò in noi qualcosa che sapeva di pietà e di paura. Pietà per quell'uomo
distrutto e quasi vecchio, e paura per qualcosa di indefinibile e oscuro che
sentivamo strisciare attorno e sopra lui. Leggevamo di
un inferno personale tra le sue rughe sempre più scavate, ma non ne conoscevamo
l'entità e la forza…
- Scusatemi ragazzi. Scusatemi. –
soffiò subito dopo – Non volevo. Davvero. Non volevo... E non ce l'ho con voi.
Lo so che avete un cuore grande così e che mi volete bene. Ce l'ho solo con me
e con la vita mia. Forse sono davvero troppo vecchio per questo porco mestiere.
Qualcuno me lo ripete da un po' di tempo e forse ha proprio ragione... Ha
ragione da vendere...
- Chi te lo ripete...? – fece Cesare.
- Nessuno, nessuno... Ho forse
parlato di qualcuno? Ho detto male! Proprio nessuno me lo ripete! Nessuno. Lo
penso solo io. Io e basta. Il fatto è che ci sono altre cose nella vita! Altro
che tazza del cesso...
La sua voce era diventata cupa, quasi
un mormorio. Quando riprese lo straccio caduto sul tavolo, fingendo di pulire,
ci accorgemmo tutti che stava tremando.
E infatti
c'era dell'altro. Non lo sapevamo, non l'abbiamo mai saputo con certezza. Ugo
non ci ha mai detto nulla, né quella sera né poi.
Solo
sospetti. Voci. Brutte voci.
Mario, Cesare e io non potevamo far
nulla per lui con i nostri libri e la nostra Università. Né tu, Michele, con il
tuo Conservatorio e le tue incompiute. E lui lo sapeva bene.
Ora il Bar Ugo chiude,
Michele. Non suonerai più in quel locale. Non rendeva, dicono. Si parla di una
nuova pizzeria, di un ristorante. Si parla di un emporio.
Ugo ha trovato lavoro come cameriere
in un bar del centro e quando lo vediamo affannato tra i tavoli a servire
granite e brioches, lo salutiamo da lontano.
In quel bar del centro non abbiamo
mai messo piede.