MIRACOLO TRA LE MANI
di Enzo Maria Lombardo
Domenica sera.
Sapore di arancini di riso e acqua di seltz con lo sciroppo comprati con gli
ultimi spiccioli mentre il giallo abbagliante del cielo cominciava a tingersi
di porpora e violetto.
Sul mare pesavano neri
vapori di caldo orlati di rosso, adagiati sul molo e sui frangiflutti, oltre la
massicciata della ferrovia, come una cortina messa lì apposta per isolare la
città dalla brezza del mare aperto.
E tu, quella
domenica, sudavi come un maiale, Michele, anche se camminavamo piano, senza
parlare, oppressi dalla calura stagnante e molto dalla
noia e dal silenzio del lungomare deserto di Catania; quel silenzio che noi due
cercavamo, allontanandoci dalle vie del centro. Un silenzio palpabile, più
pesante dell'aria umida e calda che ci avvolgeva.
Sì, Michele,
camminavamo piano, strusciando i piedi tra le grandi mattonelle della
passeggiata a mare verso gli Archi della Marina, le
mani in tasca, fumando senza piacere, a volte prendendo a calci un barattolo,
tanto per far qualcosa: eravamo in una stasi dell'essere quasi catatonica,
terribile e sublime a un tempo.
Ed è proprio in
questi strani momenti che a me sorgono i pensieri più elevati. Si erpicano nel
cervello come serpentelli, spuntano da chissà dove,
si arrotolano nelle molli circonvoluzioni, si fermano in attesa, crescono, si
moltiplicano, mentre il corpo nuota in un tempo dilatato, quasi in senso
fisico, con i minuti sfocati nell'infinita vastità delle ore e i secondi che
rintoccano lenti come il battaglio di una pendola che sta esaurendo la carica.
Quando ti descrivo
il processo dei miei pensieri tu fai una smorfia e dici che è per via dei serpentelli che ho il cervello bacato. Però lo dici tra uno
sbadiglio e l'altro, senza pensare, anche perché senza avere davanti quei tasti
bianchi e neri del tuo pianoforte tu, Michele, non sai neppure pensare.
Ed è un peccato,
perché è proprio in un tempo così alterato e irreale, che è possibile scoprire
una dimensione nuova e trovare, incastonata in quella dimensione, un'idea fuori
dagli schemi. Un'idea quasi originale.
* *
*
Quella sera, mentre
guardavo le prime stelle bucare le nuvole rosse, sentii in
effetti un pensiero ancora
aggrovigliato e confuso sciogliersi pian piano nella mia mente e scendere in
gola a formare una frase cosciente:
- "Ho pensato che forse Dio c'è per davvero, Michele, - sospirai
inspirato - e noi ci siamo dentro. Per questo siamo
confusi, non vediamo, non comprendiamo... Capisci? Proprio dentro. Forse noi siamo dentro Dio!".
Tu sei rimasto a
lungo in silenzio: ad un certo punto temetti che forse
dormivi in piedi. Non era la prima volta che ti vedevo trascinare la tua
massa grassa per inerzia, nella più totale indifferenza del mondo. In effetti conosco bene i tuoi sonni, Michele. Hai elaborato
un sistema complesso che potrebbe ingannare gli sprovveduti e i distratti.
Occhi sbarrati, passo abbastanza fluido e qualche movimento extra delle braccia
e delle mani, tanto per confondere le idee.
Ma quella sera non
dormivi: vidi nei tuoi occhi una lieve scintilla di luce mentre muggivi “Boh”.
“Questa non è una
risposta” – dissi.
Ripetesti “Boh”
facendo un passo indietro e prendendo bene la mira per calciare di punta una
lattina: insomma, non eri stato colpito dalla grandiosità della mia idea. La
lattina schivò la tua zampa e fu colpita solo di striscio. Rotolò di lato con
un ululato metallico, in attesa del prossimo calcio.
Tutto il mio essere
avrebbe dovuto fremere di sdegno per la tua indifferenza bovina e invece restai
calmo come un monaco zen, immerso nel caldo abbraccio di una consapevolezza
superiore. Ti guardavo dall'alto dei miei nuovi pensieri e non riuscivo ad
odiarti con la dovuta accuratezza per la tua assurda incomprensione, però ti
avrei volentieri fatto a fette per il tuo passo pesante e per quel tuo
ostinarti a zufolare una delle tue ultime incompiute, una di quelle con cui
sporchi la carta da musica.
No, non riuscivo ad
odiarti, anzi, con un impeto di generosità, mi sentii in dovere di chiarirti la
cosa dicendo d'un fiato:
- "Perché, vedi, Michele, tutto, ma proprio tutto, è Dio. Ecco: vedi
quelle stelle, quel mare, quelle nuvole? Ebbene, sono Dio. Anche quella lattina
che ti stai portando dietro da mezz'ora è Dio. Lo capisci,
Michele, o stai dormendo?"
Forse potevano andar
bene le stelle, le nuvole, il mare, ma devo convenire che storpiava l'accenno
blasfemo alla lattina, con quella etichetta rossa, volgare e adesso mezzo ammaccata. E poi, ripensandoci, l'idea non era affatto
originale: tanti l'avevano avuta prima di me, l'avevano macinata a dovere e ci
avevano pure scritto sopra un mare di parole. Il fatto è che quella sera non
avevo in testa nulla di meglio. Capita. E poi, Michele, diciamola tutta, tu non
aiutavi per niente.
Il tuo successivo
calcio di punta fu più fortunato: la lattina, colpita a tradimento nel suo
ventre rotondo, urlò di nuovo il suo dolore e volò per una ventina di metri
oltre la massicciata della ferrovia stramazzando, esausta, con un tonfo cupo, sull'erba alta che
incorniciava il frangiflutti.
Mentre le lampadine
dei lampioni della passeggiata a mare, appena accese, si scaldavano pian piano
emettendo una luce rosa pallido, un refolo di vento,
che era riuscito a forzare chissà come la cortina d'afa che chiudeva la città,
ci fece pregustare quel po' di brezza che sarebbe arrivata dopo il tramonto.
E assieme a quel
refolo di vento mi arrivò finalmente la tua voce, attutita e lontana, da
dietro:
- "E così anche
tu saresti Dio?"
Vidi che ti eri
fermato a prendere qualcosa da terra, posata sulle mattonelle chiare: si
trattava di una massa nera tondeggiante che tenevi tra le mani a coppa e che
non riuscivo ad individuare alla luce incerta del crepuscolo.
Il tuo ghigno era cattivo
quando dicesti:
- “Occhèi,
caro Dio, prendi quest'affare e vedi di aggiustarlo per bene. Anche se è un po' acciaccato, nella tua nuova veste ce
la dovresti fare."
Sì, adesso vedevo
cosa avevi in mano: era un piccolo uccello ferito, forse caduto da un nido
nascosto tra i rami degli alberi che fiancheggiavano la strada o forse fuggito
da una gabbia. Aveva un'ala semiaperta e una zampa penzolante. Apriva e
chiudeva il becco in un grido muto, sussultando con tutto il corpo.
- "Sta
morendo... Michele, sta morendo..." – sussurrai
mentre un gelo nuovo mi penetrava nelle ossa annegando d'un sol colpo tutti i miei vaneggiamenti.
Tu posasti
delicatamente l'uccello su un sedile di pietra lavica e restammo così,
inebetiti e impotenti, a guardare quell'agonia.
In effetti la bestiola sembrava ormai priva
di forze e, come un giocattolo con la molla esaurita, apriva a scatti il becco
e scuoteva lentamente un'ala, tentando di sollevarsi prima di ripiombare
scomposta sulla pietra.
Sedemmo anche noi su
quel sedile, evitando di guardare quel batuffolo nero arruffato e palpitante e
chiedendoci l'un l'altro, con sguardi muti e impotenti, cosa fare. Ricordo che
quando abbassavo gli occhi sulla bestiola mi sembrava che quel becco lucido,
che s'apriva e chiudeva ritmicamente, volesse dirmi qualcosa. Che mi implorasse
di fare qualcosa.
Cosa, mio dio?
Chiedeva forse, quel becco, di non prolungare tanto
dolore in un'agonia inutile?
Anche i tuoi occhi,
Michele, mi rimandavano la stessa immagine di sentimenti confusi e contrastanti
e credo che entrambi, in quel momento, ci sentimmo
soli, avvolti da una pietà greve e pesante che si trasformava pian piano in
paura. Paura di vedere l'ultimo alito d'una vita. Paura di un evento che
conoscevamo ancora troppo poco e soprattutto paura di una scelta tra la vita e
la morte.
Un atto, un piccolo
atto di forza e di pietà. Cos'era un attimo? E quel batuffolo nero sarebbe
diventato una cosa inerte: niente più dolore. Niente più vita.
-“No” - dissi
scotendo il capo – “Che diritto abbiamo, noi...?”.
Anche tu, Michele, abbassasti il tuo testone e sospirasti: “Nessuno... proprio
nessuno”.
E così restammo in
silenzio, seduti con l'uccello che palpitava in mezzo a noi, fingendo una
maschia indifferenza che non avevamo, aspettando l'esito finale.
* *
*
Fu a questo punto,
Michele, che tu, per enfatizzare la tua finta compostezza, cominciasti a
zufolare piano una delle tue incompiute. Iniziasti piano, e il suono si
confondeva con la risacca del vicino mare, poi le lunghe note, si alzarono un
poco sovrastando il leggero tramestìo delle ali e del
becco sulla pietra del sedile.
Era la tua incompiuta
più triste. C'ero io l'ultima volta che osasti suonarla al pianoforte. Fu
quando l'inquilina del piano di sopra, una zitella in carne, ancora belloccia,
venne giù in lacrime, scongiurandoti di smettere perché doveva uscire e non
poteva, con tutto quel rimmel che le colava dagli occhi.
Ecco, Michele: sono
sicuro che resterai famoso per le tue incompiute.
Di solito gli autori
possono vantarne poche. Una o due, dovute alla repentina scomparsa. Qualche
altra ritrovata dai posteri in un cassetto, dimenticata o ripudiata in vita.
Tu, invece, invadi il tuo studio di “Incompiute”. Gli spartiti restano impilati
sul pianoforte, alcuni scivolano sui divani, altre si mescolano agli utensili
di cucina. Qualche spartito porta ancora il fetore del pesce, altri sanno di
pane o sono macchiati di lardo.
Ma in quel momento,
Michele, non pensavo affatto ai tuoi spartiti: udivo il tuo fischiettare
ispirato e guardavo come, a tratti, ponevi le mani, a barriera, vicino a
quell'animaletto sussultante perché non cadesse, e allora ti imitai, anche se
sentivo un brivido strano a contatto con quelle penne fredde.
Così restammo,
immobili, con le nostre quattro mani unite sul sedile, quasi a formare un
piccolo recinto in cui potesse consumarsi in pace l'ultimo atto di una breve
vita.
Sarà stato effetto
di quella luce rosata o delle note della tua incompiuta, ma quello spazio
compreso tra le nostre quattro mani non mi parve più come un recinto di morte
ma come un grande crogiolo di carne, un utero rosa in cui stava rinascendo una
vita.
E
in effetti qualcosa stava cambiando sotto i nostri occhi: i movimenti
del volatile erano assai più fluidi e, preso dall'euforia, tu avevi cambiato
registro e stavi zufolando qualcos'altro. Il motivetto non era più triste: si
trattava di un'altra incompiuta, una marcetta dai
toni allegri, piena di speranze e promesse, piena di vita.
E, quasi seguendo le
note della tua nuova melodia, l'uccello tentò di alzarsi su una zampa sola,
trattenendo l'altra rannicchiata vicino all'ala. Malfermo e incerto, si sollevò
puntellandosi col becco sul sedile, iniziando ad articolare l'altra zampa e
muovendo l'ala che credevamo rotta, in una parodia del volo.
Frastornato da quel
repentino risveglio alla vita, restai a lungo in silenzio, fissando quella
palla di penne arruffate e i suoi movimenti buffi. Tentai anche di allargare di
più lo spazio tra le mani, dilatando le dita, quasi a formare una gabbia di
carne, pronto ad intervenire per evitare una caduta rovinosa.
Contemporaneamente
mi attraversarono la mente alcune ipotesi fantastiche, subito rimosse dalla
coscienza quasi con ripugnanza, che tuttavia si lasciarono dietro una scia di
dubbi, labili e persistenti a un tempo, come riflessi intermittenti di luce
nell'acqua smossa di uno stagno.
Forse anche a te
balzò addosso qualche serpentello
maligno perché d'un tratto hai spezzato a metà una felice frase musicale e hai
posato il tuo sguardo sul cerchio di mani e sull'uccello ferito e poi ancora
sulle mani, quasi a voler individuare le tue, tra le mie, per riappropriartene.
Poi con voce
cavernosa balbettasti (e c'era una filo di paura tra
le parole):
- “Che... che... che sta succedendo?”
Cogliendo al volo
l'occasione, con una espressione compunta e occhi
semichiusi, salmodiai: “Gloria et exultatio sanctorum...” e dopo una pausa di
raccoglimento: “Deus altissime rex angelorum...”, il tutto tentando una cadenza il più
possibile ecclesiastica e austera. Poi terminai cantando un lungo: “amen...”.
- “Ecco...” - ripresi, in volgare – “Un miracolo... Michele. Ma non
capisci? Hai fatto un miracolo! Un vero miracolo! Magari sarà stata la tua
musica... Oppure saranno state le tue mani. Senti forse caldo
nelle mani, Michele?”
Evidentemente non
hai colto subito la parte più recondita dei miei pensieri, perché rispondesti,
con un'alzata di spalle:
- "Nelle mani? Perché proprio
nelle mani? Ho caldo dappertutto: per lo meno le mani non sono coperte. Pensa
nel ..."
- “No, no, - ripresi io – questo è un calore
diverso… Non senti qualcosa di caldo che esce … che esce... che esce...”
Ti bloccasti a
mezzo, rimuginando.
- "Che esce? Da dove? Dalle
mani... dici?"- L'elaborazione era terminata: il risultato era evidente e
quasi tangibile nel sottile tremore della tua voce.
- “Vuoi dire che
io... la mia musica... la musica e le mani... cioè... che tu e io... proprio
noi... con le nostre mani...”
Ricordo che ti
alzasti, di scatto, le palme aperte a ventaglio, tremanti, dinanzi agli occhi
sbarrati, e a quel movimento improvviso, approfittando del varco, l'uccello
volò, un po' di sghimbescio, è vero, strisciando sul sedile di lava e
rischiando un atterraggio rovinoso sul selciato, ma volò. Lo vedemmo posarsi
sul margine del viale e da qui, saltellando su una zampa sola, si posò sulla
massicciata della ferrovia, poi sulle rotaie e infine, quasi ubbidendo ad un
richiamo inaudibile, spiccò un volo pulito e perfetto, ad ali spiegate, verso
gli scogli e il mare arrossato dalle ultime luci del tramonto.
Ricordo anche come
gironzolavi nervoso davanti a quel sedile, stropicciandoti le mani, guardandole
con occhi vitrei, articolando le dita e scuotendole
con forza per poi tornare ad osservarle perplesso.
-“Le ho calde, accidenti. Hai ragione,
troppo calde..."- biascicasti - "calde e con
un formicolio...uno strano formicolio...
come se...come se... " e qui ti bloccasti, apristi gli occhi bovini e con
un ghigno feroce dicesti: “...come se fossero intorpidite! Ecco cos'è, altro
che miracolo! Le ho tenute mezz'ora bloccate in quel sedile!”
Ora riconosco che
non eri pronto per essere un Santo. Non lo eri proprio, Michele. Io volevo
ancora darti la giusta atmosfera ma il mio latino cominciava a difettare. “Per
omnia saecula seculorum...”, cominciai.
- “E piantala!” –
ansimasti. Ora la voce vibrava di rabbia e il tuo viso aveva due macchie rosse
sulle guance.
- “E se fosse?” - dissi con studiata noncuranza - “Tutto è dio,
Michele. Perché solo tu
dovresti esserne escluso?”
Sei rimasto solo un
attimo perplesso prima di snocciolare una serie di frasi sconvenienti. Ma stai
tranquillo, Michele: quello che mi hai sputato addosso quella
sera io l'ho già dimenticato. Non è in linea con la tua signorile bonomia che
di solito manifesti nei rari momenti di veglia.
Comunque non
protestai, non tentai nemmeno di continuare il gioco, anche perché era ormai
svanita, assieme alla luce rosata del tramonto, quella magica dimensione
irreale in cui tutto era possibile. Anche un miracolo. Il bianco vivido delle
lampade al neon, ormai ben calde, faceva apparire ogni cosa fin troppo concreta
e razionale.
Così stetti in
silenzio e in silenzio annuii più volte prima di sussurrare, senza molta
convinzione, quasi parlando a me stesso: - “Chissà…?...
Però, se tutto è Dio..."
Ma tu non ascoltavi.
Avevi ripreso a zufolare una delle tue incompiute e ti guardavi attorno nella
segreta speranza di trovare almeno un'altra lattina da prendere a calci durante
il tragitto verso casa.