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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Il sedere dell'angelo, di Valentino Rocchi 10/07/2008
 

IL SEDERE DELL'ANGELO

di Valentino Rocchi

 

 

 

 

Adesso, per favore, quando vi dirò che lavoro faccio non cominciate con gli scongiuri! M'indispongono e dimostrano l'ignoranza di coloro che si rifiutano di capire. Si tratta del lavoro più sereno e tranquillo del mondo. Che si svolge in un ambiente di quiete e di pace assolute.

Sì: io faccio il custode del camposanto!

Ve l'avevo chiesto: niente scongiuri. Per favore! Anche perché contrasterebbero con la mia personale soddisfazione. Quella di svolgere un lavoro facile, tranquillo in una posizione autorevole. Chiarisco: io non faccio il becchino o l'affossatore. Quindi io non adopero le braccia. Io non sudo. Io faccio l'impiegato del cimitero. Ho il compito di tenere aggiornato un registro dove segno le entrate e le… no! Le uscite no, non le segno. Perché non ce ne sono, ovviamente.

Me ne sto tutto il santo giorno sotto il loggiato dell'ingresso ad osservare i frequentatori del camposanto. Impettito, con la divisa grigia tutta bordata col cordoncino viola, il berretto piatto con lo stemma come quello degli ufficiali, e le mostrine bianche e rosse dei colori del comune. E mi hanno detto perfino che durante l'orario di servizio sono un pubblico ufficiale! Lo capite? Pubblico Ufficiale!

Se potesse vedermi la mia mamma che diceva che solo lo studio può portare al successo! Chissà che soddisfazione!

Immaginate: mi hanno concesso la casa di bando proprio lì. Quieta e silenziosa. Quindi casa e lavoro senza nemmeno il pericolo di prendere la pioggia per recarmici. Clienti tranquilli e senza grilli per il capo. Qualche mancia da raggranellare qua e là fornendo qualche indicazione.

Lo credereste? I più generosi sono gli amanti! Non avendo potuto seguire le esequie, devono per forza rivolgersi a me per avere indicazioni e poter pregare sulla salma del caro estinto o estinta, a seconda del caso. A volte sono costretto a fingere indifferenza quando a chiedermi l'indirizzo, gli amanti che si presentano in successione sono più d'uno. In quel caso cerco di consigliare loro un orario perché non s'incontrino: uno al mattino… uno alla sera… e così via. Tanto per evitare grane.

Devo confessare: non è che tutto fili sempre liscio. Di quando in quando qualche scocciatura la rimedio anche. Ma fino ad oggi sono sempre riuscito a sbrigarmela da solo.

Qualcuno protesta per una lampada votiva che s'è fulminata, qualcuno si lamenta perché i fiori si sono subito appassiti, a differenza di quelli di fronte che sono durati più a lungo, attribuendone la responsabilità al fioraio. Scordando magari d'essere stati loro stessi a pretendere un bel loculo soleggiato.

Fatti di poco conto, insomma, che risolvo da solo.

Ma adesso il problema s'è fatto più grave. E io dovrei possedere la saggezza di re Salomone per venirne a capo senza far scoppiare una guerra. Una guerra che solleverebbe un vero vespaio. Anche perché motivo del contendere è un'opera d'arte!

Voi lo conoscete tutti, quasi sicuramente, il signor Anselmo. Chissà quante volte siete entrati, magari per partecipare all'acquisto di un regalo di nozze, nel suo negozio di casalinghi, porcellane, cristalli, argenteria che apre le vetrine proprio in piazza, vicino al municipio. Avrete sicuramente letto sui giornali, perché ne hanno scritto a lungo sulle pagine della cultura, dell'angelo che proprio lui ha fatto scolpire da un grande scultore, chiamato apposta dalla città, per onorare la memoria della sua defunta consorte: la signora Amalia.

Si tratta di un angelo a grandezza d'uomo, di marmo bianco, bellissimo, quasi trasparente, con le ali spiegate.

Qualcuno ha voluto obiettare che per portare in cielo la povera signora Amalia sarebbe stato più proporzionato un Boeing 707, a causa della sua stazza extra extra large.

La ricordate ristretta dentro il bancone della cassa del negozio, con le dita a salsiccia a battere sul registratore che fuoriusciva a fatica da sotto il seno straripante?

Fortunatamente l'opera scultorea non le somiglia. I critici sono stati tutti concordi. Per descriverla ed esaltarla hanno chiamato in causa certi scultori di un tempo che si chiamavano Canova, Rodin, Donatello… e chissà quanti altri ancora. Una scultura che mi procura già qualche preoccupazione, perché vengono in visita critici d'arte e scolaresche. Io veramente sarei contrario a fare entrare i visitatori più giovani: l'angelo, infatti, non si presenta così etereo, spirituale ed efebico com'è nell'immaginario collettivo. Si tratta invece di un angelo femmina. Inequivocabilmente femmina! E che femmina! D'accordo, porta le ali, ma tutto il resto è decisamente muliebre. Il velo che ne ricopre il corpo scende adagiandosi alle curve dolci e conturbanti sottolineandole, anziché nasconderle. Una vera provocazione!

Il signor Anselmo è ben felice del risultato, e passa davanti a me orgoglioso, quando entra al camposanto, perché sa d'essere diventato un benemerito del luogo. Così tronfio che non mi degna più nemmeno di uno sguardo.

Ma, ahimè, quella statua è stata capace di provocargli una grossa preoccupazione. Una decina di giorni fa è corso da me trafelato:

«Qualcuno tocca il sedere di quell'angelo della mia Amalia.»

Non sono uno stupido: ho capito subito che non si trattava della povera defunta, ma della statua di marmo.

«Ne è certo?»

Mi pregò di seguirlo.

L'angelo è sistemato, sulla tomba, sopra una colonna che funge da piedistallo, così che il suo posteriore risulta appena più in alto del viso di un visitatore.

Purtroppo era vero. Su quella rotondità così poco eterea e celestiale c'era, netta, decisa, inconfondibile, l'impronta di una mano! Secondo il signor Anselmo chiunque l'avesse lasciata aveva commesso un'azione sacrilega, e doveva essere punito in conseguenza.

«E, mi creda, non è la prima volta che succede! Credevo di aver sbagliato, ma questa volta, guardi bene, non ci sono più dubbi! Bisogna chiamare la polizia», disse il signor Anselmo, «perché prendano le impronte digitali e ritrovino quel depravato!»

«E poi, le impronte, con quali le confrontano?», obiettai, «con tutti quelli che vengono al cimitero?». Anche io leggo i libri gialli, e certe cose le so.

«E allora?» chiese lui grattandosi il mento, perplesso.

«Lei dice che non si tratta della prima volta, vero? Allora aspettiamo tentando di cogliere quel pervertito quando ripeterà il gesto.»

Lo trovammo! Accidenti se lo trovammo! Anzi, lo trovai proprio io dopo un appostamento che non durò nemmeno a lungo. Il colpevole non era del tutto un estraneo all'ambiente cimiteriale. Si trattava, infatti, di uno dei muratori che stanno costruendo i nuovi loculi in fondo al campo cinque. Per questo lasciava le impronte! Quando passava a compiere il suo gesto, aveva le mani sporche di cemento o di gesso.

Lo trattenni ed avvertii il signor Anselmo. Pensavo che il poveretto, che avevo colto con le mani nel… sacco, avrebbe protestato e cercato di sottrarsi al giudizio. Invece rimase lì immobile, tranquillo, senza battere ciglio.

«Lei non ha nessun diritto…», esordì il signor Anselmo puntandogli contro il dito teso.

Mi aspettavo il volto contrito e penitente dell'accusato.

Ebbi invece la sorpresa:

«E chi l'ha detto?»

«Io!» ribatté l'altro. «Quella è la tomba di mia moglie e la statua l'ho pagata io!»

«Ma chi l'ha pagata più cara? Io o lei?»

Questa era davvero nuova. Per me e anche per il signor Anselmo, che volle precisare, sfregando il pollice e l'indice:

«Sapesse lei quanto m'è costato quello scultore! E lei adesso viene a dire…»

«Che è costato anche a me!»

«E allora si spieghi, dunque!»

«Lei sa, per caso, chi ha posato per quell'angelo?»

«Una modella, penso. E penso anche che con quello che l'artista mi ha fatto spendere l'abbia anche largamente compensata.»

«Non solo non l'ha pagata, ma se l'è anche portata via!» Sembrava stesse per piangere. «Era mia moglie!»

Finalmente esplose in un singhiozzo liberatorio:

«E lei vorrebbe proibirmi di lasciarmi concedere, da mia moglie, il piccolo piacere che ancora può offrirmi!»

Ne nacque una discussione animata e a volte perfino furiosa. Ciascuno dei due tentava d'accampare dei proprio diritti che l'avversario intendeva negare. Quindi si appellarono alla mia veste di pubblico ufficiale per avere un giudizio al di sopra delle parti.

Cosa dicevo? Bisognerebbe possedere la saggezza di re Salomone! Io ho provato a ragionarci sopra e mettere i diritti di ciascuno dei due su due piatti di una bilancia presa a prestito da una giustizia che s'erge sulla tomba di un giudice. Ho messo sul primo i soldi del signor Anselmo e sull'altro le corna del muratore. E la bilancia non s'è mossa.

Non potreste darmi un consiglio voi?

 

 

 
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