Nebbia
di
Enzo Maria Lombardo
Oggi il chiarore che entra dalle
imposte socchiuse è diverso dal solito. Sembra latte. Tinge di latte pareti e
mobili. Anche l'aria è di latte, bianca, densa. C'è neve fuori. Ma anche ieri c'era
la neve e l'altro ieri e l'altro ancora: da quanto tempo il paese è coperto di
neve?
Ma non basta la neve a creare
quest'aria di latte: oggi sul fiume è calata la nebbia. Dalla finestra si
vedono a stento le prime case e gli alberi del vicino argine escono fuori grigi
e bianchi, come il grano dal cotone, per Natale.
Il fiume è scomparso, anche se la sua
voce si sente ancora, attutita. Guardando bene, tra i filari della riva si vede
ancora qualcosa: barbagli d'argento si muovono nel bianco, piccole increspature
d'acqua si frangono su una invisibile riva, come se il
fiume fosse diventato mare. Anche ad andarci vicino sarà un mare, con una riva
sola. Chissà se domani il fiume ridiventerà fiume, se si alzerà la nebbia.
Dov'è il cappotto? Devo far presto.
C'è una logica, in questo: è legata a
questo momento e a questo chiarore. Una logica unica, misericordiosa. Una pietà
che avvolge le cose. Non si soffre quando ci si immerge in questo chiarore. Non
soffrono le pietre. Non soffrono gli alberi né gli animali. Anche gli uomini
non soffrono se bevono la nebbia. Si riesce a guardare il Sole, con la nebbia.
E' un disco più bianco nel cielo di latte. Non acceca. Ma può essere anche la Luna. In fondo cosa
importa se è il Sole o la Luna?
Berretto.
Francesco e la Pia non devono
saperlo. La loro logica è diversa. Abitano in città, loro, in un palazzo nuovo,
nell'attico. Ma anche da lassù, vedono di rado il Sole o la Luna. Ne vedono i
falsi riflessi nel vetrocemento e negli specchi, ombre mischiate e confuse assieme
al colore cangiante della tivù. E' tutto colorato da loro. Tutto fosforescente,
lampeggiante, roteante, pulsante... Per questo credono, da lassù, che il mondo
sia proprio quello e sembra anche grande quel loro
mondo, sembra enorme, immenso, proprio per via degli specchi, del vetrocemento,
della tivù. Solo quando ci picchi dentro, in quei vetri, ti accorgi che è tutta
un'illusione e che in effetti, anche nell'attico, sei dentro una buca. Che fai
allora? Niente fai. Niente puoi fare. Continui a girare seguendo i suoni, le
luci, i lampi, i riflessi. Senza fermarti mai. Lassù non esiste la nebbia.
Ecco il bastone. Devo affrettarmi.
Il tizio che viene a controllare se
sono ancora vivo, oggi non verrà perché è passato ieri. Si chiama Cesare e a me
dovrebbe venire più naturale chiamarlo Fineschi come
a scuola, perché allora si usava solo il cognome.
E invece no. Perché so che quel Fineschi era un altro, altre cellule, altre ossa, altro
sangue: è passato troppo tempo per essere lo stesso Fineschi.
Comunque, anche volendo, non potrei più chiamarlo Fineschi,
e neppure dottore, perché ci diamo del tu. Ma non è il “tu” che dai ad
un amico. Sono troppo vecchio per essere suo amico.
Chissà se a lui qualche volta gli viene voglia di chiamarmi “Signor maestro”. Forse no.
Per lui quel suo giovane maestro deve essere morto tanto tempo fa. Quello che
ora ha davanti è solo un vecchio malandato. Altre cellule, altre ossa, altro
sangue.
Il dottor Fineschi
neppure si ricorderà di com'era la scuola, la classe; non saprà se la lavagna
era a destra, vicino alla porta o a sinistra, vicino alla finestra. Chissà se
ricorderà ancora il suo banco e chi gli sedeva accanto. Chissà se ricorderà la
fetta di sole che gli riscaldava il quaderno. Sì, questo è un altro Fineschi.
Ieri, riponendo lo stetoscopio e
l'apparecchio per misurare la pressione, mi ha dato due pacche sulle spalle, un
modo come un'altro per fingere un'amicizia impossibile. Poi ha voluto regalarmi
alcune battute cretine: sono sicuro che le costruisce apposta
per i suoi pazienti più anziani. Queste erano facili facili, proprio adatte per un vecchio rimbambito. Un
vecchio che, solo credendo all'anagrafe e ai documenti scolastici, doveva
essere il suo primo maestro.
Chissà che effetto fa curare il
maestro delle elementari. Se davvero il dottor Fineschi
crede all'anagrafe e ai documenti scolastici si sentirà vecchio anche lui,
guardandomi. Non potrà più fingere con se stesso, non potrà fermare il tempo
come si è soliti fare quando non c'è un punto di riferimento preciso. Io sono,
per lui, un punto di riferimento preciso. Una cosa odiosa. Una clessidra
inflessibile e spietata, uno specchio in cui non si ha voglia di guardare.
Comunque, mentre si metteva il
cappotto ho dovuto far finta di ridere alle sue battute terapeutiche. Ho
dovuto. E lui è andato via contento. O faceva
finta d'essere contento, magari non lo era per niente. Non c'era motivo
d'essere contento. Fingeva.
Dalla finestra l'ho visto camminare
curvo e immusonito. Mentre apriva la portiera della macchina fece una smorfia
con una faccia cupa. Chissà se era preoccupato per me o per se stesso. Vidi che
indugiava troppo a chiudersi tra i vetri del suo universo semovente: forse
voleva chiedermi qualcosa prima che fosse troppo tardi.
Chiedere di nomi svaniti dalla memoria, di compagni perduti, di giochi
dimenticati e lettere e parole e frasi sepolte in quaderni dalla copertina nera
e, nei fogli, con un filo rosso, sottile. Chissà se voleva sapere se, per me,
lui era ancora il piccolo Fineschi o se era diventato
soltanto il dottor Cesare, medico condotto.
Forse voleva solo abbracciarmi,
diventare ancora per un momento uno scolaro. Dimenticare l'ambulatorio, la
moglie, i figli, i malati, i morti e immergersi per un attimo - il tempo di un
abbraccio - in un momento fresco della sua storia. Restava indeciso vicino alla
portiera della macchina: non ha trovato il coraggio di tornare, di dirmi che
gli spiaceva perdermi.
In quel momento sembrava più vecchio
di me, anche se ha una cinquantina d'anni. L'allievo era diventato più vecchio
del Maestro.
* *
*
Cappotto, berretto, bastone: un passo
dopo l'altro. Non sarà difficile. Basterà tenere la testa alta e poggiare tutto
il peso del corpo sul bastone quando la gamba destra viene avanti. Fa tutto il
bastone, a saperlo tenere.
Devo far presto. Più tardi viene
l'Elisa, magari porta Nicolino, se non ha a chi
lasciarlo.
Nicolino
assomiglia a un bambino che ho conosciuto tanto tempo fa. Ora sarà grande quel Nicolino e poi non si chiamava neppure Nicolino.
Si chiamava... si chiamava... che importa un nome?
Questo Nicolino
gli assomiglia, un poco.
L'Elisa gli dice: - “Nicolino, stai con il signor maestro mentre sono
in cucina che lui ti insegna tante belle cose così domani sarai il più bravo a
scuola”.
Quel mio Nicolino
era un bambino, aveva occhi da bambino. Questo Nicolino
finge di essere grande. Se sgrana gli occhi sono occhi da grande. Come si fa a
essere un maestro con uno che ti fissa con quegli occhi?
Così guardiamo insieme la tivù e
insieme impariamo tante cose da questa maestra di vetro colorato, anche cose
che non servono a niente ma tanto non fanno troppo male perché le scordiamo
subito.
L'Elisa l'ha istruito bene e Nicolino sta attento se mi addormento seduto. Di tanto in
tanto mi sento tirare per la manica della giacca da camera e lui mi dice, con
una vocina acuta, impaurita:
- “Svegliati, signor maestro, è
ancora presto per dormire”. Ha grinta questo Nicolino ma ho capito che non sopporta di vedere un
vecchio che dorme. Forse è troppo simile all'immagine della morte, una cosa
sconosciuta, a quell'età, ma che può essere intuita se mancano parole e
movimento. Forse quando dormo l'unico suono di vita è un rantolo pauroso che
m'esce dalla bocca assieme ad un filo di bava.
Qualche volta Nicolino e io tentiamo
di giocare a fare domande. E' un gioco che si può fare stando seduti.
Per lo più è Nicolino
a fare la parte del maestro e mi interroga lanciandomi a raffica domande a cui non so rispondere.
Domande difficili. Termini stranieri. Su film, attori, cartoni, computer,
videogiochi. Non sono bravo come scolaro. Forse tutti i maestri sono degli
asini quando non sono più maestri.
Dopo un poco Nicolino
si stufa di fare domande e fa sbucare dalla tasca una scatoletta color argento
con quattro tasti e uno schermo colorato e quella scatoletta fa rumori strani
quando tocca i tasti e nello schermo si muovono figurine che danzano,
scalciano, volano.
Se non c'è Nicolino
a tenermi compagnia, anche l'Elisa, come Cesare, vuole farmi ridere a tutti i
costi. Le avranno detto di fare così. Magari Francesco e la Pia credono che
ridere faccia bene alla salute. O glielo avrà raccomandato il dottor Fineschi.
L'Elisa mi mette davanti il piatto e
mi racconta i fatti della gente del paese e ride. Rifà il letto, parla e ride.
E ride anche quando rigoverna la cucina e non c'è proprio niente da ridere in
quello che dice ma lei ride lo stesso e parla forte per farsi sentire da me che
sono in camera e si aspetta che io rida assieme a lei. Se non mi sente
s'affaccia preoccupata all'uscio della stanza. Penserà che io sia scivolato a
terra nel sonno. Deve sentirsi addosso una
responsabilità pesante con uno così vecchio e malandato. Poi mi vede, tira un
sospiro e continua a parlare, a ridere. Che voglia avrà l'Elisa di ridere con
la vita che fa!
Quando l'Elisa rigoverna la camera io
resto seduto in poltrona con un libro in mano.
Lei a volte si china, si muove, e la
sottana si tende sulle sue natiche piene, scopre gambe e cosce ma continua a lavorare con una
tranquillità ingenua e triviale ad un tempo, senza pudore, quasi offensiva:
come se fosse da sola in quella stanza.
Fingo di leggere ma gli occhi
accarezzano quelle carni bianche che spuntano dal grembiale, risalgono sulle
curve dei fianchi, sulla sua schiena arcuata, e su, su, fino ai serpentelli dorati che sfuggono dal fazzoletto annodato sul
capo, sul profilo del viso ancora attraente che a tratti si mostra, quando gira
la testa.
Assorbo immagini note e altre appena
costruite, e intanto esamino il mio corpo, sto attento ai miei visceri, con
distacco. Quasi fossero pezzi disegnati su una tavola
anatomica o poggiati, ancora lievemente pulsanti, su un tavolo di dissezione.
Li vedo e li sento freddi, quasi fermi. I muscoli flaccidi, i tendini
allentati, attaccati ad ossa fragili, porose. Il sangue scorre lento. Ciò che
ancora si muove dentro è denso e raggrumato. Solo gli occhi continuano ad
agitarsi sotto il grigiore della cataratta, e cercano, scoprono o tentano di
scoprire, avidi, golosi, dimentichi del resto del corpo. E quel che gli occhi
non vedono lo completa il cervello in una collaborazione senza troppa malizia o
libidine. Sarà perché dagli occhi al cervello il percorso è breve, penso.
Oppure è solo l'enfasi di un fatto estetico, il piacere di gustare, finalmente
libero, la bellezza di un corpo, scavalcandone i fini di natura. Solo ora è possibile.
Ora che il fuoco, dentro, è quasi spento.
L'Elisa non si cura di un paio
d'occhi ingigantiti dalle lenti spesse, attaccati ad
un corpo quasi freddo. Ma ha torto a credersi sola in quella stanza. Ci sono un
paio d'occhi di vecchio e un cervello che insieme stanno ingannando gli dei.
Finalmente liberi, sorvolano quel corpo come farfalle, solo per gustarne le
forme e i colori, non più costretti a suggerne il
nettare, come api affamate.
Distolgo gli occhi dall'Elisa e tento
di leggere davvero qualche rigo ma anche le parole scritte diventano oscure. Il
cervello è intasato da immagini e pensieri.
Poi l'Elisa va via e il silenzio
della casa avvolge tutto, ma il silenzio non è bianco come la nebbia. E' di
metallo. Le sue spire non sono soffici come quelle della nebbia. Sono fredde e
dure. Vibrano e ingigantiscono i rumori, anche quelli più sordi e più lontani.
* *
*
Può ricominciare a nevicare da un
momento all'altro. Ora il viale è sgombro di neve, ieri l'Elisa ha spalato fino
alla strada. Ogni giorno spala fino alla strada. Potrebbe risparmiarsi un po'
di fatica e aprire solo un piccolo passaggio, nel viale, giusto quel tanto per
passare lei e Cesare. Tanto,
Francesco e la Pia d'inverno vengono poco. Se poi c'è la neve non
vengono affatto: la strada è pericolosa.
Superata la strada c'è il fiume. Lo
si sente appena da qui, aprendo la porta, come un sussurro lontano, un rotolio
continuo che veste il silenzio senza diventare un vero rumore. In quel sussurro
si indovinano i ciottoli levigati, appena smossi dalla corrente; si intuisce
l'acqua che si separa in rivoli più veloci tra gli steli delle canne, il lento
sciabordio di minuscole onde sulla riva.
Un passo dopo l'altro.
Non c'è neppure freddo fuori. Quanto
manca alla fine del viale? E poi al cancello, alla strada, al fiume? Sembra
tutto così lontano anche se il canto dell'acqua si
sente sempre più nitido e i grandi alberi nudi, appena oltre la strada,
allargano le loro braccia. Decine e decine di braccia amiche, con dita lunghe,
sottili. Alcuni rami, in basso, sono inguantati di neve, eleganti nei loro
disegni casuali con nervature di cristallo, altri, più in alto, si vedono
appena e sono solo ghirigori azzurrini che si perdono nel bianco accecante.
Non è vero che d'inverno gli alberi
dormono. Si mostrano nudi, essenziali. Forse è d'inverno che mostrano tutta la loro forza e la
loro saggezza fatta d'immobilità e d'attesa.
Il cancello sbuca all'improvviso
fuori dalla nebbia, con tutte le sue lance e le mie iniziali di ferro battuto
saldate in cima. Un cancello-simbolo con due lettere arrugginite. Volgari. Non
basta quel filo di neve che li ricopre ad ingentilirli. Magari resteranno lassù
finché tutto il cancello sarà corroso dalla ruggine. Per memoria o per
pigrizia. Ma è più facile che questo cancello sarà sostituito da uno diverso,
magari elettrico e con in cima un'antenna e una luce
pulsante, con un maggiordomo in forma di telecomando. Anche questo nuovo sarà
un cancello-simbolo, pur senza le iniziali.
Oltre il cancello la strada.
Passano poche macchine a quest'ora e
con questo tempo. I fari da lontano sembrano inutili lumicini che bucano a
stento la nebbia; quando sono più vicini mandano fuori una luce filamentosa,
triste. Una striscia giallastra che accompagna il rotolìo
delle ruote e si trasforma, tutta ad un tratto, nella striscia rossa delle luci
posteriori, fino a svanire nella nebbia.
Il rumore dei passi si perde
assorbito dal silenzio. Sento solo i colpi del mio bastone mentre le scarpe trasmettono
il gelo dell'asfalto. Se guardo in basso vedo solo una striscia lucida, grigia,
che si perde nel grigio, a destra e a sinistra, in due infiniti. Sono al centro
di una retta. Sono al centro di un Universo.
Le scarpe ora non calpestano più
l'asfalto ma la neve. E' neve dura, croccante. Si rompe ad ogni passo e sotto
la crosta gelata sento l'erba. Non è morta, l'erba, sotto la neve. Resta nella
sua tana di ghiaccio in attesa. Mi arrampico sulla neve ammonticchiata ai
margini della strada, ed è una scalata difficile. Più che il bastone mi aiuta
un albero vicino. Non è molto grosso, quest'albero, e posso anche cingerne il
tronco. Il legno ha un qualche tepore sotto le dita: ha assorbito il calore
della terra. Quest'albero vive. La linfa scorrerà lenta nelle sue vene, ma
vive.
Un passo dopo l'altro, a testa
eretta, la destra impugna il bastone e la sinistra si aggrappa ai rami bassi,
ai cespugli, scuotendone la neve che danza, cadendo, nell'aria ferma.
Ora la voce del fiume è chiaramente
udibile, anche se discreta. E' il mormorio di una nota sola. Un rumore che deve
esserci in quest'universo, un rumore primordiale, l'essenza di vari rumori, una
sintesi di voci. Voci che si alternano nella mente, sorgono dalla memoria,
richiamate e imitate dal rumore dell'acqua.
Anche i cespugli, ora, sono più radi:
non mi resta che il bastone per aiutarmi a superare gli ultimi metri e già
s'intravede la riva e l'acqua non è più solo rumore ma liquida strada che sorge
dal nulla per scomparire nel nulla.
Ed ecco che appare il piccolo mondo
visibile della riva. I colori sono smorzati, le linee tremolanti per i riflessi
dell'acqua. Finalmente un mondo concreto, cose facili da guardare, capire, cose note. Il pontile galleggia nell'acqua e si
perde nella nebbia e c'è una barca legata che striscia nel palo di sostegno.
* *
*
Il mormorio del fiume è sempre uguale
e le voci che trasporta si affollano e si sovrappongono nella mente, bocche invisibili si
aprono e dicono qualcosa che mi sforzo di capire. Sussurrano nomi che conosco o
che mi sembra di conoscere, parlano di luoghi che credo familiari, ma anche di
nomi e luoghi sconosciuti. Stranamente una voce, tra tutte, sembra più chiara.
Copre le altre, sorge modulata dai cristalli di ghiaccio sui rami, vibra
cristallina per un attimo e poi si perde nel mormorio sommesso dell'acqua.
Faccio in tempo ad afferrarne il suono. Solo il suono. Immagino che siano
parole. Forse una parola sola ma incomprensibile, esotica. Di una lingua
dimenticata.
Forse il mormorio dell'acqua dice il
nome di tutte le cose. Di cose viste e di cose non viste. Il nome dei ciottoli
e dei granelli di sabbia, il nome dei sassi, delle
sterpi, delle foglie; il nome degli animali nascosti nelle tane, il nome di
uomini e donne che io ho amato e odiato o che non ho mai incontrato; il nome di
luoghi troppo noti o che non ho mai visitato.
Anche il mio nome sembra che sorga
liquido dal fiume e rimbalzi nell'acqua e si perda nell'acqua, in un momento.
Forse qualcuno mi sta chiamando da
laggiù... C'è qualcuno in fondo al pontile, ove è più densa la nebbia?
Da qui non vedo niente, ma il pontile
è lungo. Devo ancora salire tre gradini di legno. Si scivola sul muschio
bagnato e devo far forza sul bastone tenuto adesso con la sinistra. La destra
stringe il piccolo corrimano e poi la ringhiera.
Più avanti non c'è ringhiera e il
bastone passa nella destra e batte deciso sulle tavole.
Passi cadenzati dai colpi. Tum... tum... tum...
Sotto, tra le fessure delle tavole, piccoli vortici, sciacquio
d'acqua, risucchi. La barca striscia sul legno.
Altri colpi, dentro. Tum... tum... tum...
Sarà il cuore. Il sangue pulsa nelle orecchie e mi impedisce di
sentire bene il mio nome che qualcuno continua a ripetere da lontano, in fondo
al pontile. Quella voce mi arriva distorta dalla distanza, coperta dal rumore
dell'acqua, dai cigolii del legno e dai battiti del cuore.
Una voce che so riconoscere, ma che
ormai può esistere solo dentro di me.
Ora quella voce è un sussurro distorto dalla
distanza, coperto dal rumore dell'acqua, dai cigolii del legno e dai battiti
del cuore. Quel sussurro si perde nel pozzo di un tempo lontano.
Il pontile è deserto e adesso ne vedo la fine. No,
tu non ci sei. Non c'è nessuno su quel pontile, nessuno attorno, solo un vuoto
grigio di nebbia e d'acqua.
E io mi ritrovo a dire: “aspettami, cara, aspettami cara...”, e mi bruciano gli
occhi.
Guardandomi attorno mi sento
fluttuare nel niente. Ora anche quel sussurro tace, sommerso fra i ricordi e
tra i nomi di tutte le cose.
Solo sciabordio d'acqua e cigolii di
legno. Nient'altro. E io mi sento stranamente leggero in questo niente. Nessun
ricordo. Nulla. Neppure il mio nome.
Il mio nome è già dimenticato in
questo Universo.
* *
*
Spire serpentine di nebbia si
avvolgono attorno alle mie gambe come eteree molle che possono lanciarmi
nell'aria densa. Non dovrebbe essere difficile volare in quest'aria e
scomparire nell'acqua. Far nascere dieci e cento e mille cerchi muti. La nebbia
attutirebbe il tonfo di un corpo nell'acqua con la sua misericordia, la sua pietà...
Resterebbero solo liquide vibrazioni non udibili da orecchie umane. In quelle
vibrazioni sarebbe scritta tutta la mia storia.
E invece mi giro, sconfitto, passo il
bastone nell'altra mano. Ritorno. Un passo dopo l'altro, colpi cadenzati
rimbombanti sulle tavole marce. Tre scalini di legno da scendere, verdi di
muschio, poi una strada da riattraversare: un luogo al centro dell'Universo,
tra due infiniti, a destra e a sinistra. E infine un cancello cigolante con due
patetiche iniziali arrugginite. Ritorno sconfitto in quel mio piccolo mondo
circoscritto dal ferro e dai mattoni. E torneranno anche i ricordi, uno dietro l'altro o tutti insieme. Folle di ricordi, di
nomi, di voci...
Forse tornerà anche la tua voce,
forse tornerà anche il mio nome. Potrò ancora parlare con te, dirti di
aspettarmi... ci vorrà poco, cara, ci vorrà poco. Sono stato sconfitto, ancora
e ancora... Perché non ho coraggio, capisci? Non ho coraggio...
Un passo dopo l'altro, sciabordio
d'acqua. Alcune foglie morte vicino alla riva oscillano
impercettibilmente sulle piccole increspature... Loro hanno provato a volare,
almeno per una volta. Ora creano cerchi muti che navigano come disegni
intrecciati, si spezzano, scompaiono nella nebbia, raccontano ancora a qualcuno
la loro storia.
Io non ho il coraggio delle foglie...
Io non so ancora volare.
Un passo dopo l'altro, verso casa.
Colpi cadenzati.
Vedo nascere nuovi brandelli di
cerchi vicino alla riva: s'intersecano, vagano lenti tra canne e sterpi.