La fotografia
di Grazia
Giordani
Raramente mi
soffermo a guardare una réclame appesa ai muri. Quando rientro a casa sono
stanco, affaticato dalla routine del lavoro, inoltre le ultime sedute
psichiatriche mi hanno veramente stressato: quel medico svizzero mi disorienta,
mettendo sempre più confusione dentro le mie idee già di per sé sconvolte (tu es boulversé, mom
amour – mi diceva una mia
conquista di giovinezza, riferendosi a certe mie paranoie, amiche intime di una incipiente schizofrenia). Mi sono sempre autoconsolato delle mie stranezze, pensando che anche geni
come Nietzsche e Schouman – solo per citare due a
caso fra i grandi – pare fossero schizofrenici o giù di lì.
Ebbene, non
sono un abituale estimatore di pubblicità sui muri – dicevo – ma quella foto di
un mese fa, appesa in un vicolo che non percorro quasi mai, mi sta
letteralmente ossessionando, al punto che perdo molto, troppo del mio tempo, a
fare ricerche infruttuose che mi nevrotizzano sempre più.
Non è
un'attrice quella donna che reclamizza nientemeno che un romanzo (ditemi se
potrebbe esserci qualcosa di più distante da me, che di libri ne ho letti
pochini – se si eccettuano i manuali di informatica, legati al mio lavoro e
qualche libruzzo di fantascienza o opuscoletti
pornografici –, che lettore non lo sono stato mai, visto che ho preferito
praticare qualche sport e viaggiare, quando mi è stato possibile); non è una
star, non è la Marini,
non è la Parietti,
eppure leggo in lei un fascino sottilmente allusivo, uno chic dell'anima che si
fa calore del corpo, che mi attira, mi prende, come un'estetica calamita e io
stesso non so darmene del tutto ragione.
Ho copiato
il nome della casa editrice in un foglietto. È francese .
In questi giorni avrei dovuto inviare un ispettore del mio laboratorio
informatico a Parigi, per trattative commerciali. Andrò di persona, così anche
sospendo le sedute psichiatriche, concedendomi una pausa, un breve e desiderato
respiro, allontanandomi da quel funebre occhialuto, con il suo accento crucco e
i suoi impercettibili oh oh., ogni volta che finge di non scandalizzarsi per le mie
“perversioni” sessuali (ma uno psichiatra non dovrebbe essere nietzscheanamente al di sopra del bene e del male? E non mi
direte che è poi cosa tanto grave se preferisco un rapporto in chat-line
erotica ad uno reale, in cui mi dovrei sciroppare anche gli odori, i sudori e
gli escreti di donne che oltretutto pretendono rassicurazioni amorose?).
Parigi mi ha
accolto percorsa da un vento frizzante che ha increspato
la Senna, fatto
volare lontano il mio cappello e irritato la mia gola, tutto in un baleno,
tutto in una volta, senza soluzione di continuità.
L'indomani,
eccomi nella casa editrice a cercare lumi sulla donna del ritratto fotografico.
Lunga attesa per essere ricevuto dal direttore, in un salottino odoroso di
croissant, seduto su un duro divanetto, sogguardato da una maliziosa segretaria
che ha arrotato tutte le erre che aveva a
disposizione, per dirmi che Monsieur **** mi avrebbe ricevuto, presto anzi
prestissimo. Un prestissimo lungo a dire
il vero, estenuante, molestato anche da una mosca che mi si era affezionata
come nessuna donna mai, nel corso della mia cinquantacinquenne esistenza.
Finalmente,
il naso peduncoloso del severo Monsieur si sporse
sormontato da occhiali spessi e non proprio di specchiata pulizia e la sua
bocca si aprì poco, con avarizia per invitarmi ad entrare.
Gli spiegai,
arrossendo e quasi balbettando, che avrei desiderato ragguagli sulla donna del
ritratto, perché - i interessandomi di pubblicità (nel dire balle, come tutti
gli “schizo”, sono un vero maestro) -, la ritenevo
indispensabile per reclamizzare gioielli di lusso, vista l'aria aristocratica
che spirava dal suo volto, mista a una sensualità di stampo borghese.
«Ce
n'est pas possible !»- gracidò più volte la vocetta
blesa del peduncoloso.
Madame *****
è una scrittrice e compare solo nelle copertine e nella pubblicità dei sui libri, inoltre, quella foto è del 1992.
Posso sapere
almeno il nome?
«Presto
fatto, disse il direttore – subodorando profumo di affari – quante copie del
suo ultimo romanzo intende acquistare?»
«Cinquecento
– risposi senza pensare, pronto al rimando – purché mi dia il numero privato
della signora a cui voglio esprimere tutta la mia ammirazione».
«Mille –
rispose, al rialzo l'ometto».
Avrei
accettato anche un milione, la mia paranoia mi pulsava dentro come un piccola tirannica vaporiera.
All'inizio
fu fredda al telefono, lusingata dall'acquisto, ma distante.
Non accettò
di incontrarmi personalmente (aveva troppo da fare ed era in partenza…); su mia
insistenza mi dette la sua mail.
Tornato a
Milano le scrissi un messaggio pieno di lodi e di quella umiltà che non provo,
ma che mi piace tanto imitare (tutto questo rientra nel quadro clinico del mio
squilibrio mentale, dice lo psichiatra); la spocchiosetta
rispose cautamente, con poche battute.
Immaginavo i
suoi occhi abbassati sulla tastiera, le ciglia sembravano proiettare ali
d'ombra su quelle guance gentili, mentre la bocca, arrossata da un carminio
leggero, si increspava lievemente, per nascondere la noia di un rapporto
forzato.
Non mollavo
l'osso. Più lei tergiversava e resisteva, più io mi facevo insistente,
rallentando la presa, quando avevo osato troppo, lodando ora la sua vis artistica, ora il suo aspetto di candida malizia, il suo
sguardo ammiccante, la sua mano solcata da vene sottili. Davo prova di aver
letto il suo romanzo riga per riga, commentando avverbi, aggettivi e spazi di
silenzio e respiri dei protagonisti, senza trascurare la forza di
un'interpunzione molto particolare.
Non
smettevo. L'ossessione stava raggiungendo effetti parossistici.
Cosa avrei
voluto ottenere?
Portarla a
letto? No, le mie manie mi fanno prediligere rapporti virtuali.
Farla
innamorare?
Anche, ma
soprattutto umiliarla, cancellando dal suo volto la sicumera di quello sguardo
in tralice, ironico, che pareva mi volesse dire: «sono una regina e tu il mio
valletto, non ce la farai mai…».
Metterla in
ginocchio volevo.
Dominarla.
Schiacciarla.
Dimostrarle
che ero il padrone con la frusta…
Miravo ad un
rapporto d'amore parlato, fingendo d'amarla.
Lavorai a
lungo.
Non fu
facile persuaderla a scaricare in computer una chat, dove io navigo come quel
velista che sono anche nella realtà; feci io la registrazione per abbindolarla
meglio (ridevo così forte che la voce mi usciva dalla gola in rantoli rochi di
crudele soddisfazione…).
Chattammo per lunghe settimane.
Faceva la
riottosa.
«Domani non
posso, perché devo uscire a cena col marito…»
«Oggi solo
pochi minuti, perché poi devo studiare»
Studia,
studia, mi spazientivo, io preparandole lo scherzetto.
Un
pomeriggio la gasai talmente, titillai a tal punto le sue voglie represse,
accesi in lei un fuoco così vivo , da ottenere un vero
appuntamento.
Sarei
tornato a Parigi e l'avrei ricevuta nella mia stanza d'albergo.
Tutto
stabilito.
Tutto
preordinato.
Solo che
alloggiai nell'albergo di fronte, per godermi la scenetta.
Dio, che
risate!!!
La vidi
salire la scalinata, con passo molle.
Mi accorsi
solo allora che apparteneva alla specie di una di quelle donne che più che
camminare “sfilano”, tanto la sua falcata era languida e naturale.
I capelli
erano più corti e ricci che nel ritratto.
Il naso, di
profilo, sembrava lievemente aquilino, ma nonostante il binocolo, non vedevo
bene i particolari, e soprattutto mi sfuggiva lo
sguardo, quello sguardo che mi era costato mille libri, sedute psichiatriche
suppletive e soprattutto notti insonni a congegnare il mio piano satanico.
Dopo un'ora,
la vidi ridiscendere: adesso non sfilava, incespicava.
Ripartii
allegro come un grillo.
A casa
trovai una mail disperata in cui era divisa tra il dolore che mi fosse capitato
un incidente e l'umiliazione che l'avessi giocata.
Non risposi
al telefono, finché non fui sicuro che mi avessero cambiato il numero.
La mia vita
continuò come sempre, con donne virtuali, molto meglio di quelle in carne ed
ossa con pretese di essere amate.
Mi parve che
i miei disturbi nervosi subissero un miglioramento.
In libreria,
dopo un paio d'anni, vidi
esposto un suo nuovo libro.
Lo
acquistai, incuriosito.
Niente foto
nel retro di copertina.
Nella
bandinella si leggeva: «Esce postumo, l'ultimo struggente romanzo di ****».
Peggio per
lei, pensai di primo acchito.
Eppure
quella morte stava tormentandomi subdolamente: la sentivo come un contraccolpo
sordo.
Mi saltava addosso
all'improvviso, vulnerando il mio proverbiale cinismo.
Rivedevo il
suo sguardo all'improvviso, riflesso nella vetrina di un negozio; presi a
vederla dentro il televisore, mi compariva nel bel mezzo di un film,
affiancandosi al primo attore, ieratica, distante, lunare come un incubo.
Un bel
mattino, proprio mentre facevo colazione nel bar centrale della mia città,
avvertii nel tinnire del cucchiaino sul bordo della tazza, le note dolci della
sua risata, una breve cascatina di perle, quasi si
fossero sciolte all'improvviso quelle che nel ritratto lei portava al collo.
La vista mi
si annebbiò.
Sentii
appena il lamento di una sirena.
Due uomini
in camice mi caricarono rudemente sull'ambulanza.