Fosse
stato per me, sarei rimasta a casa, tranquilla, sdraiata sul divano a bere una
birra e sgranocchiare pop-corn. Ma Anselmo aveva insistito non poco: -Dai,
vieni! Vedrai che ti divertirai-. Poi aveva aggiunto:-Mi
chiedono sempre perché fai la difficile…-.
Così,
giusto per evitare spiacevoli discussioni, mi ero lasciata trascinare a quella
specie di festa.
Li
conoscevo appena, gli amici di Anselmo. Tutti compagni di lavoro presso la cartiera
del paese; tutti sposati con donne che non avevano altro pensiero in testa che casa-cucina-spesa o, se la serata
buttava bene, l'ultima soap-opera teletrasmessa alle dieci del mattino. Tutto
dipendeva se in quella puntata erano successi avvenimenti degni di discussione,
tipo quello di scoprire che il padre del figlio della protagonista era pure
l'amante della fidanzata del ragazzo, nonché ex-amante della madre della
medesima.
Al nostro
arrivo tutti ci vennero incontro: gli uomini diedero delle grandi pacche sulle
spalle ad Anselmo e lo trascinarono letteralmente in una stanza.
-Vieni
qua, lasciamo le donne tranquille. Ehi! Che ci hai portato di buono?-. Anselmo,
con la stessa eccitazione di chi sta per mostrare un trofeo, trasse da sotto il
giubbotto una bottiglia di Pernod, messa dentro ad un
sacchetto del pane, e la sollevò in alto.
-Allora,
ragazzi, che ne dite? Ce la facciamo tutta prima di cena?-. Li sentii
sghignazzare, prima che la porta si richiudesse alle loro spalle.
-Vieni,
stavamo preparando le ultime cose per cena-, mi disse Elsa, la padrona di casa.
Poi aggiunse: -Meno male che sei venuta: Anselmo, l'ultima volta, ci ha detto
che soffrivi di mal di testa…-
Lasciò la
frase in sospeso e io mi limitai ad annuire. Tra me e me pensai che Anselmo
avrebbe potuto trovare una scusa migliore, una scusa che sapesse meno di falso.
Il tono di Elsa, in effetti, non lasciava il minimo dubbio su come aveva
interpretato il mio “mal di testa”.
-Posso
essere d'aiuto?-.
-No,
grazie: è quasi tutto pronto; siediti e sta tranquilla-.
Porsi il
pacchetto dei biscotti che Anselmo aveva comprato nella drogheria, insieme alla
bottiglia di Pernod, e mi sedetti in un angolo del
divano. Mi misi ad osservare le mie caviglie, gonfie come due meloncini; pensai che mi avrebbe fatto bene distendere le
gambe per farle sgonfiare un po'. Era la conseguenza delle dieci ore che
trascorrevo in piedi, o dietro al bancone del bar o andando su e giù per la
sala a servire i clienti. Il padrone era stato ben chiaro su quel punto: che ci
fosse o no gente al bar io dovevo stare in piedi. “Sai che brutta impressione
per uno che entra vedere la cameriera stravaccata su una sedia?”. Avevo pensato
che era uno stronzo, ma sono
stata zitta: con il mutuo della casa da pagare il mio stipendio era
indispensabile.
Le
quattro coppie erano più o meno della stessa età, avevano i figli già grandi e
indipendenti e si conoscevano da sempre. Io e Anselmo
con i nostri ventidue anni eravamo i più giovani del gruppo ed eravamo finiti
in quel posto da un anno, quasi per caso: appena sposati, infatti, avevamo
deciso di partire alla ventura con il nostro camper e di gironzolare almeno
fino a quando duravano i soldi. Poi ci saremmo sistemati definitivamente da
qualche parte e avremmo messo la testa a posto.
I soldi
finirono proprio quando eravamo giunti in quella
cittadina. A dire il vero più che cittadina era un agglomerato caotico di case
sorto attorno alla cartiera, unica fonte di lavoro in tutta la zona. In quel
periodo cercavano giovani uomini da assumere e noi avevamo urgente bisogno di
denaro. Anselmo, così, era finito alla seccheria, un
reparto poco ambito per via della temperatura infernale. “Una cosa pazzesca… i
cilindri essiccatori su cui vengono messi i fogli
ancora umidi e quelle bocche soffianti vento caldo rendono l'aria
irrespirabile. Se uno non prova non può capire”, mi
aveva spiegato una volta Anselmo. In seguito non me ne aveva più parlato.
I
colleghi più anziani l'avevano preso a benvolere e coinvolto in quelle feste
che, a turno, davano ogni quindici giorni e che ad Anselmo piacevano tanto.
A tavola
si parlò, come sempre, della cartiera. Gli uomini facevano pettegolezzi sui
loro capi e sulle segretarie; le donne stavano ad ascoltare eccitate e ingorde
di particolari piccanti. Io, come al solito, non
parlavo. Quella sera i piedi mi facevano particolarmente male e un cerchio mi
stava lentamente serrando la testa. E continuavo a bere, nonostante le
occhiatacce che, più volte, mi aveva lanciato Anselmo.
Mi
facevano schifo quelle donne, tutte uguali e tutte uguali a mia madre. Mi
deprimeva il pensiero che alla fine sarei diventata come loro. Fu la sensazione
di un istante, ma fu terribile: ben presto sarei diventata come Elsa, sciatta e
flaccida. Credo che per comodità non portasse neppure
il reggiseno e le mammelle si appoggiavano, dondolanti e abbandonate, sul
ventre. Ci aveva accolti con su una vestaglietta lisa
e le ciabatte ai piedi, tanto, aveva detto, “siamo tra amici”.
L'aria
era pregna di fumo, di odore di cibo fritto, di sudore: dalle finestre aperte
non entrava neppure un refolo di vento e in quella piccola stanza mi sentivo
soffocare. Solo il vino fresco mi dava sollievo e il padrone di casa continuava
a riempirmi il bicchiere. E io continuavo a vuotarlo, sentendomi sempre più
leggera e meno angosciata. Ad un certo punto mi tolsi le scarpe e scoppiai in
una risata, anche se nessuno aveva detto nullo di buffo. Si misero a ridere
anche loro e io risi ancora più forte.
Iniziai a
fare domande, una dietro l'altra: chiedevo e non attendevo la risposta. Non mi
importava la risposta, a dire il vero. Così chiedevo alle donne di quanto erano
rincarate le zucche per via della siccità e agli uomini di quante volte quella
troia della centralinista della cartiera era andata a letto con il ragioniere.
Ora tutti ridevano e io, presa da una strana euforia, continuavo a fare
domande.
Anselmo
mi disse:-Stai zitta! Sei ubriaca-, ma tutti gli altri
protestarono:-Lasciala parlare… Che male fa?-.
Le mie domande
si alternavano, una alle donne e una agli uomini, con una regolarità
impressionante.
-Smettila!-
sibilò Anselmo.
Ma io non
smisi. Ero diventata all'improvviso seria, la voce incrinata dal pianto, mentre
chiedevo qual era il detersivo più conveniente e, subito dopo, se era vero che quell'incapace di Martino avevo fatto rapidamente carriera
solo perché ce l'aveva grosso e duro e piaceva alla
moglie del direttore.
Anselmo
raccolse le scarpe che erano finite sotto il tavolo, mi strinse forte un
braccio obbligandomi a seguirlo, mentre si scusava con i suoi amici.
A piedi
scalzi sulla porta, piagnucolando, gli dissi che avevo ancora delle cose da
chiedere e che volevo restare.
Non mi
rispose e mi spinse fin dentro l'auto: sentii le loro risate fino a quando Anselmo non partì rabbiosamente, facendo stridere
le ruote sull'asfalto. Nell'improvviso silenzio scoppiai a piangere, disperata.
Tratto
da “Attrazioni e distrazioni” Excogita editore