Domenico
Paparozzi mise giù la cornetta e imprecò. Col pugno
colpì il legno duro del tavolino del soggiorno, quindi prese l'impermeabile e
la pistola. Aprì la porta e uscì nel pianerottolo, avvolto in una bolla melmosa
di penombra. Socchiuse gli occhi qualche istante, per riordinare le idee.
D'istinto allungò una mano verso il legno scuro della porta di casa e con i
polpastrelli carezzò i piccoli intagli verticali che ricoprivano la superficie
levigata.
–
Vaffanculo – sibilò, poi scese le scale di corsa.
Quella
sera aveva trovato posto proprio davanti al portone del palazzo e aveva evitato
di scendere fino ai parcheggi sottostanti la palazzina. Quei cunicoli scuri,
bagnati da riflessi di luce al neon, lo mettevano a disagio. I passi
echeggiavano sinistri lungo le macchine, scivolando sulle pareti grigie, e
dietro ogni colonna sembrava annidarsi un'ombra pronta a saltargli addosso.
Non
erano paure da detective, se lo ripeteva spesso, ma quando poteva parcheggiava
la macchina in strada, dove il buio della notte sembrava meno minaccioso.
L'appuntato
Ramoni lo attendeva in strada, vicino alla volante. I
lampeggianti azzurri guizzavano su tutti gli oggetti circostanti e il volto del
sottufficiale era macchiato da strani riflessi cerulei. Aveva poco più di trent'anni, un fisico asciutto e un'espressione sempre
cordiale.
Paparozzi lo salutò con un cenno della testa e
si fermò a un passo.
–
Primo piano – disse l'appuntato senza specificare altro. Le informazioni
essenziali le aveva già fornite per telefono meno di mezzora prima.
Il
detective si strinse un po' di più nell'impermeabile per proteggersi dal gelo
della notte, quindi entrò nell'edificio e si avviò per le scale. Un passo alla
volta, senza fretta. La rampa era in penombra. Le ombre danzavano dietro ogni
angolo.
Non
devo avere paura, si disse. Non riuscì a essere convincete.
Cavallo in
D5
Mangio
Regina Nera
Fai la tua
mossa!
Il
detective Domenico Paparozzi si fermò sulla soglia
della camera da letto, i denti stretti, i lineamenti del volto tesi.
Romina
Santamaria, la Regina Nera, era davanti a lui, ai piedi del
letto.
Morta.
Decisamente
morta.
L'uomo
fece scorrere lo sguardo sul corpo scomposto della donna: dalla testa, poggiata
sul bordo del letto, ai piedi, distesi lungo il tappeto cremisi. L'espressione
sul volto aveva assunto un'improbabile distesa serenità. Se non fosse stato per lo squarcio slabbrato che le attraversava la
gola Paparozzi avrebbe potuto pensare che fosse
semplicemente addormentata.
Ma
non lo era. Il sonno adesso era solo quello eterno.
Sentì
dei passi alle sue spalle e si voltò. Dal corridoio alle sue spalle vide
arrivare il medico legale. Antonio Ricciardi lo
salutò con un sorriso che mal si addiceva allo stato d'animo del detective.
–
Faccia largo, amico. Queste sono cose da uomini di stomaco – annunciò,
mollandogli una sonora pacca sulla spalla.
–
Ehi – esclamò ancora il dottore vedendo il corpo della donna. – Bella, ma
troppo moscia per i miei gusti!
–
Faccia presto – lo imbeccò Paparozzi – e non voglio
sentire altre battute di cattivo gusto. Mi faccia almeno questa cortesia.
Il
dottore alzò le spalle e non rispose. Si chinò sulla donna e aprì a piccola
borsa nera che aveva portato con sé. Il detective si voltò per non dover
guardare quell'uomo amorale che svolgeva il suo
lavoro. Lui non si distingueva certo per essere un modello di vita, ma mal sopportava i sarcastici atteggiamenti
dell'altro. E ultimamente lo incontrava fin troppo spesso.
–
Morta, sì – disse di nuovo il medico, non resistendo alla tentazione di
innervosirlo.
–
Fai la tua mossa… – mormorò Paparozzi.
Il
dottore piegò la testa di qualche centimetro. – Cosa dice?
Il
detective scosse la testa. – Niente di importante. Faccia il suo lavoro. In
fretta.
Era
più di un'ora che l'appuntato Alessandro Ramoni era
giunto sul luogo del delitto e cominciava a non sopportare più il freddo gelido
che soffiava senza posa. Ma non voleva nemmeno sedersi in macchina. Il suo
turno era quasi finito ed era stanco morto. Seduto nel tepore della vettura la
stanchezza lo avrebbe di certo vinto.
–
Ce la fumiamo? – La voce del suo collega lo fece sobbalzare. Gianni era uscito
dalla macchina e l'aveva raggiunto sul marciapiede a fianco del portone. Ramoni lo fissò con sguardo incredulo.
–
Ora fumi anche te?
Gianni
scosse la testa. – No, ma mi sono stufato di aspettare senza fare niente. Dai,
offrimi una sigaretta.
Alla
terza boccata il detective Domenico Paparozzi uscì
dal portone. I due sottufficiali lo guardarono avanzare fino a loro con la
testa china, assorto in pensieri impenetrabili.
–
Allora? – chiese il brigadiere Gianni Pierri.
Paparozzi alzò lo sguardo e lo fissò negli
occhi vispi dell'altro. Fece spallucce e non disse nulla, quindi si voltò e
camminò a passi cadenzati verso la sua macchina.
–
Non ti sembra strano? – chiese Ramoni.
–
Normale non è mai stato – scherzò l'altro.
–
Ma dai, lo sai cosa intendo. Mi sembra diverso dal solito.
–
Più preso – azzardò Pierri.
–
Già – ammise l'appuntato – hai visto giusto.
–
Ma sai che ti dico? – riprese il brigadiere. – ‘Sti cazzi. Andiamo, che è tardi.
Voglio andarmene a dormire pure io.
Domenico
Paparozzi accese la macchina, ma non partì
immediatamente. Lasciò il motore acceso per farlo riscaldare e si perse in
mille considerazioni.
La Regina
Nera non c'è più, pensò.
Mentalmente
visualizzò la mossa che aveva fatto prima di uscire di casa, ma aveva la testa
confusa e non riusciva a trovare la giusta concentrazione.
Senza
concedere altro tempo alle riflessioni, inserì la marcia e pigiò sull'acceleratore.
I copertoni stridettero sull'asfalto umido e lanciò la macchina lungo le strade
deserte della notte. A quell'ora Civitavecchia
era deserta e in quel modo riuscì a sfogare parte della tensione.
Mentre
sfrecciava a bordo della sua Punto blu rivide la gola
della giovane donna e nelle immagini della sua mente la vide muoversi, alzarsi
e andargli incontro, nell'angusto spazio della sua camera da letto. Sempre
nella sua mente provò ad allontanarla, a ricacciare quelle immagini nei recessi
bui che le avevano partorite. Era tutto inutile. La Regina Nera non c'era
più. Morta. Mangiata. Ora il pericolo era più vicino.
Inchiodò
e la macchina sbandò violentemente in mezzo alla carreggiata. Tenne il piede
premuto sul pedale del freno con tutta la forza che aveva, anche quando la
macchina ormai era ferma.
Davanti
a lui, a meno di cento metri, un semaforo lampeggiava colorando la foschia tutt'attorno di un surreale alone arancione. Ma il
detective stava stringendo forte gli occhi, tanto da farli lacrimare, e la
notte intorno a lui era tutto un intrecciarsi di dardi di luce perlacea.
L'arancione del semaforo era come il centro di un universo lontano.
–
Fai la tua mossa, bastardo – urlò, battendo i palmi delle mani sul volante.
Poi
i fari di una macchina che sopraggiungeva alle sue spalle lo scosse e, dosando
piano l'acceleratore, ripartì. Riportò la vettura sul lato destro della strada
e proseguì con andatura lenta. Con il dorso dell'impermeabile si asciugò gli
occhi umidi. Dopo pochi minuti aveva ritrovato tutta la sua lucidità.
–
Fai la tua mossa. La Regina
è tua, ma non è finita.
Impietrito
si fermò davanti alla porta del suo appartamento. Per un istante temette che il
nervosismo potesse tornare a sopraffarlo, ma riuscì a controllarlo con lunghi
respiri.
Il
coltello, puntellato sul legno scuro della sua porta, teneva fermo il solito
foglietto.
Quando
il detective allungò una mano per togliere il coltello, si sorprese a tremare.
Fermò il suo tremore sull'impugnatura dell'arma e tirò via. Il foglio cadde a
terra. Lui rimase a fissarlo per alcuni secondi. Cadendo aveva volteggiato e
ora era adagiato volgendo al pavimento la parte scritta.
Paparozzi si inchinò e lo raccolse. Non voleva
leggere. Non ce la faceva ancora. Lo strinse forte in pugno e lo infilò nella
tasca dell'impermeabile.
Ascoltò
per alcuni secondi i rumori ovattati che giungevano dalla rampa di scale.
Qualcuno stava salendo dai garage. Si affrettò a prendere le chiavi e aprì la
porta. Entrò nel suo appartamento senza accendere la luce. A passi lunghi andò
verso l'angolo opposto del salotto e si fermò.
La
luce dei lampioni filtrava attraverso le imposte leggermente aperte della
finestra. Fissò la scacchiera di fronte a lui, ripercorrendo mentalmente la
logica della sua ultima mossa.
L'altro
aveva mosso il cavallo in D5. E la Regina Nera era andata. Gettò uno sguardo sul
foglio bianco fissato al muro con una puntina. I pochi raggi che penetravano
riuscivano a rendere leggibile alcune parole. Scorse
la lista fino a trovare la
Regina Nera. Accanto al nome del pezzo, a caratteri eleganti
e spigolosi, un nome: Romina Santamaria. Cavallo in D5. Mangio la Regina Nera. Romina era
morta.
Lo
sguardo cadde di nuovo sulla scacchiera, tagliata in diagonale dalle schegge di
luce che sfuggivano alle tapparelle socchiuse.
Lui
aveva mosso prima di uscire. Alfiere in E3. Una mossa difensiva. Una mossa
affrettata. Una mossa di chi sta morendo di paura. Una mossa di chi sta morendo
e basta. Stupida. Una mossa davvero stupida.
Con
la mano tornò a rovistare nella tasca dell'impermeabile. Tirò fuori il
foglietto accartocciato e lo aprì con movimenti lenti.
Guardando
la scacchiera poteva intuire la mossa senza leggere. Il passo in diagonale del
suo alfiere nero lo aveva tradito. Ma dopotutto a scacchi chi fa la prima mossa
è sempre avvantaggiato. Il bianco muove sempre per primo. Un assassino, pure.
Abbassò
lo sguardo sul foglio:
Torre in
B4.
Scacco al
Re.
Scacco
Matto!
–
Maledizione – sussurrò. Non dovette consultare la lista per sapere che nome
c'era scritto al fianco del Re Nero. Resistette alla tentazione di allungare la
mano verso la pistola. Non avrebbe fatto in tempo. Sentì un brivido gelido
lungo la schiena. Era giunto il momento.
Scacco
Matto… Il Re Nero stava per morire.