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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Il pittore di Gabriella Cuscinà 26/08/2006
 

                           Il pittore

 

Dipingeva in stile espressionistico. La sua era un'arte di pura espressione intima, per cui gli oggetti non erano che uno schermo sui quali proiettava il drammatico travaglio dell'anima. Esasperava i colori e deformava violentemente i corpi che rappresentava. Tutto nella sua pittura era soggettivo; il mondo lo vedeva con dinamismo estremo, lo spazio per lui era solo una visione passeggera.

Leopoldo si era diplomato all'Accademia di belle arti con il massimo dei voti e adesso, dipingeva per gli allestimenti scenici del teatro lirico della sua città. Era molto apprezzato per dei quadri che aveva esposto nelle varie gallerie d'arte e che aveva venduto. Talora aveva tracciato, sulla tela, figure che erano la trascrizione di immagini interiori, visioni di sogno, con scenografie deserte e smaltate da lisce stesure di colore.

Improvvisamente cominciò ad avere strane allucinazioni e si preoccupò seriamente. Pensava di essere vittima del demonio o di essere divenuto il più grande pittore del mondo. Infatti gli accadeva che, ogni volta che dipingeva una figura, questa si muoveva, usciva dal quadro e a volte infieriva su di lui.

Era stato schiaffeggiato dalle mani di San Bartolomeo che aveva ritratto in atteggiamento di preghiera. Appena ebbe finito di tracciarne le mani, queste si mossero di scatto e gli riempirono il viso di schiaffi.

Aveva dipinto il viso e gli occhi di <Aida> per i cartelloni pubblicitari del teatro, che appunto metteva in scena quell'Opera. Gli occhi però non smisero più di guardarlo e lo terrorizzavano poiché lo seguivano ovunque.

Dipinse i teloni e i pannelli scenici per la rappresentazione di <Cavalleria rusticana> e tracciò le immagini dei vari personaggi; ma appena ebbe fatto loro le gambe, quelli scapparono lasciando i pannelli vuoti.

Leopoldo era disperato e chiese consiglio al suo parroco, confidandogli quegli strani fenomeni. Il prelato lo guardò attonito, aprì la bocca per parlare, poi la richiuse e restò muto. Dopo un po' si limitò a battergli una mano sulla spalla dicendo: “Coraggio, coraggio, è solo un malessere passeggero causato dallo stress. Cerca di riposare e vedrai che tutto tornerà normale.

Ma niente tornò normale.

Era celibe e non aveva mai trovato una compagna che sapesse stargli accanto, qualcuno che lo amasse e capisse veramente l'estro e le sfaccettature complesse della sua personalità. Figlio unico, aveva perso i genitori da qualche anno. Dunque aveva solo degli amici, i quali  spesso lo adulavano e, al contempo, lo prendevano in giro per le sue bizzarrie da pittore stravagante. Quando era in preda alle paturnie, lo canzonavano dicendo che era un genio incompreso. Tutti però gli consigliarono  di rivolgersi ad uno psichiatra e di sottoporsi a delle sedute di analisi.

Leopoldo non volle sentir parlare di medici e cercò di dipingere con degli accorgimenti particolari. Stava lontano dal quadro servendosi di una canna con in cima un pennello, ma in questo modo disegnava male e non riuscire a riprodurre sulla tela ciò che sentiva e che la mente gli ispirava.

Allora pensò di dipingere paesaggi senza figure e senza personaggi che potessero fuggire o nuocergli. Intraprese la rappresentazione di un bosco con centinaia di alberi e s'era soffermato a colorare e sfumare un albero dal tronco robusto e dai rami pieni di foglie e fiori.

Ad un certo punto però l'albero cominciò a parlare. Le sue parole erano flebili e rotte dai singhiozzi.

“Tu mi ami” diceva “ e certamente capirai tutta la mia tristezza. Sono seccato e le mie foglie non spunteranno mai più perché ho un grande dolore.

Il nostro pittore restò attonito, si fermò e non dipinse più.

Ma l'albero continuò: “Amavo una donna bellissima che in primavera veniva a sedersi sotto di me. Allora io facevo cadere su di lei una pioggia di petali e la mia ombra  la copriva. Succhiavo più acqua dalla terra affinché le gemme si aprissero e il profumo giungesse a lei in tutta la sua dolcezza. A volte si addormentava e allora io chiamavo il vento perché smuovesse le mie fronde e dai rami uscisse un lieve fruscio che la cullava. Però un giorno ella venne insieme ad un giovane e si baciarono a lungo parlando d'amore. Piansi e non volli più vivere, i miei rami seccarono, le mie foglie ingiallirono e lentamente divenni uno scheletro come ora  mi vedi.”

Leopoldo guardò l'albero che aveva dipinto e lo vide trasformato: si era scheletrito e i suoi rami erano nudi e secchi, il tronco arido e contorto. Continuò a guardarlo come in preda alle allucinazioni. Poi pensò che forse lo aveva già dipinto così, la sua mente voleva rappresentarlo proprio in quel modo. Rifletté che la sua arte aveva raggiunto la divina perfezione e che la sua personalità era tanto forte da dar vita alle figure che dipingeva.

Ciononostante qualcosa non lo convinceva; l'intelligenza gli suggeriva che nella sua mente alcuni meccanismi non funzionavano più, la logica era svanita insieme ai processi di deduzione temporale e di induzione spaziale. Non si diede per vinto e volle dipingere se stesso. Voleva vedere cosa sarebbe successo realizzando un autoritratto.

La propria immagine su tela si sarebbe mossa? Avrebbe schiaffeggiato l'originale? Sarebbe fuggita?

Il risultato superò ogni aspettativa: venne fuori l'intera figura di un uomo bellissimo, con un meraviglioso corpo atletico, muscoli torniti, occhi azzurri affascinanti, capigliatura folta e ondulata.

Era lui. Era proprio Leopoldo, che in realtà, era stato sempre un uomo seducente.

Quell'immagine non si mosse, non scappò, solo che il pittore continuò a guardarla incantato. Rivisse le sensazioni del mitico Narciso e s'innamorò di se stesso. Anzi a poco a poco si convinse che non fosse mai esistito uomo più bello di lui. Cominciò a credere che tutte le donne gli cadessero ai piedi e che alcune addirittura svenissero se le guardava. Allora prese a vivere appartato e quando usciva, indossava cappello e occhiali, mantenendo uno sguardo staccato e assente. Cercava di non farsi riconoscere e sperava che non lo guardassero, temendo di creare trambusti e disordini a causa della sua bellezza. Inoltre sospettava che lo sguardo altrui potesse deteriorare il suo bel volto, come accade ai dipinti dei musei colpiti dai flash delle macchine fotografiche. 

Così restava sempre più spesso a casa, solo, rinchiuso, senza mangiare e a rimuginare sulla sua sorte strana e funesta.

Un giorno, lo scenografo del teatro lo incaricò di dipingere i pannelli scenici per la rappresentazione di “Manon Lescaut” e Leopoldo cominciò a tracciare le immagini del mare dal quale sarebbe salpata la nave dell'eroina. Sulla spiaggia però disegnò la sagoma delicata di un bambino. Improvvisamente, il bimbo lo prese per mano e disse: “ Portami in riva al mare. Portami a toccare il mare. Voglio vedere il mare.

Il pittore uscì dal teatro lirico e si recò al porto della sua città. Appena vi arrivò, il  piccolo corse, si buttò in mezzo alle onde e scomparve. Lo chiamò e lo cercò disperato, ma non vedendolo più, anche lui si immerse tra i flutti e continuò a invocarlo. Guardava quella immensa distesa e lo cercava, poi lo ricordò, lo rivide con gli occhi della mente e capì che era uguale a se stesso da bambino, era se stesso bambino.

Allora bevendo acqua cominciò a gridare: “Leopoldo! Leopoldo! Leopoldo! Dove sei Leopoldo?”

Scomparve tra le onde mentre continuava ad urlare.

 

 

 

 
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