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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Homo Pantera Pardus di Andrea Franco 07/09/2006
 

Homo Phantera Pardus

 

 

Anche lei ha una certa grazia felina.

È una questione di istinto, soprattutto.

L'ho vista arrivare da lontano e il suo ondeggiare ha subito catturato la mia attenzione. Passo dopo passo l'ho seguita, la mia preda in avvicinamento, tra decine di persone insignificanti, troppo umane e poco aggraziate.

Sono nascosto nell'ombra, predatore nato, e di certo non può vedermi. Solo il luccichio giallognolo dei mio occhi felini potrebbe farmi scorgere, ma da dove mi trovo nessun barbaglio di luce guizza a farli risplendere.

Ombra nell'ombra, nient'altro.

Ma lo stesso lei ha alzato gli occhi, ha scrutato tra la gente, mi ha cercato e alla fine, senza vedermi, sapeva che ero lì, a meno di cinquanta passi. Una falcata insignificante.

Predatore e preda.

Uomo contro donna, forse.

Poi è passata oltre. I suoi sensi non sono sviluppati come i miei. Nel buio dove mi nascondo ha percepito niente più che un brivido, un formicolio al basso ventre. Forse ha sentito l'impercettibile sibilo che non sono riuscito a trattenere, lieve, ormonale.

Savana o foresta, steppa o città. Non fa differenza per me. Mi adatto a ogni latitudine, in luoghi selvaggi o meno. E cosa c'è di più selvaggio di una città? Solo l'istinto che mi brucia nel sangue e mi fa strabuzzare gli occhi, piccoli e gialli.

Non ha importanza dove mi trovo. Devo accoppiarmi al più presto. Tra le donne di questa città ho poca scelta. Troppo debole l'eco di antichi istinti animaleschi. Troppa razionalità. Non me ne faccio nulla.

Senza l'istinto e una buona dose di fortuna non l'avrei mai trovata. Ora è davanti a me, ancheggia, scivola silenziosa, i suoi occhi scuri guizzano tra le vetrine.

Felina. E donna, soprattutto.

Sarà lei.

 

Edward James Corbett sentì le grida in lontananza e si fermò. Venivano dalle stalle, al limitare del villaggio.

– Il mostro – gridò un bambino correndo verso di lui, poi svoltò di lato e scomparve all'interno di una capanna di paia e legna.

Corbett impugnò il fucile e cose verso le stalle. Le grida erano sempre più forti. Tutt'intorno decine di persone, contadini e allevatori, correvano all'impazzata agitando le braccia in segno di disperazione. Il mostro era tornato, il predatore di Rudraprayang era di nuovo giunto a spargere sangue e terrore.

Con il cuore che gli martellava nel petto il cacciatore zigzagava attraverso le persone in preda al panico.

– Toglietevi di mezzo – gridò, ma la gente non lo ascoltava. Avevano più terrore del mostro che del suo fucile. Mentre correva cercò di capire in quale punto si trovasse la sua preda, ma la confusione era tale che non riusciva a pensare con lucidità.

– Aspettami, maledetto bastardo – bisbigliò in un soffio di voce. – Non mi puoi sfuggire ancora.

Al limitare del villaggio c'erano tre grosse stalle. Se la bestia era disperata poteva anche essere entrata in uno degli edifici, dove c'erano i grossi bovini, ma più probabilmente aveva attaccato gli uomini che lavoravano in prossimità del piccolo torrente che scorreva a meno di trenta passi.

Quando superò il limitare dell'edificio Edward si ritrovò senza più fiato e la fronte grondante di sudore. Teneva il fucile a tracolla e sentiva la camicia incollata alla schiena, premuta dalla cinghia dell'arma. Si fermò per recuperare le forze e per far tornare la vista lucida.

E alla fine lo vide.

Due metri oltre il ruscello, sul suo stesso versante.

Nello medesimo istante la belva incrociò il suo sguardo, incurante dei cacciatori indigeni che provavano a spaventarla con le loro grezze lance.

Gli occhi gialli del mostro di Rudraprayang luccicarono per un breve istante, poi l'animale, lo spietato mangiatore di uomini, ringhiò.

Le persone attorno a lui indietreggiarono intimorite, ma quel ringhio di sfida fece infuriare Corbett che gridò a sua volta.

Li separavano non più di venti metri. Con la coda dell'occhio Edward vide il corpo martoriato che giaceva sanguinante sotto le zampe dell'animale. Per lui c'erano poche speranze.

Adesso dovevano chiudere i conti.

Gli occhi neri del cacciatore fissi sulla smorfia storta della belva.

Predatore contro predatore.

 

– Posso offrirle da bere?

Lei si volta e mi guarda. Sente di nuovo quel fremito al basso ventre, come pochi minuti prima. Nell'elegante bar c'è poca gente e mi siedo sullo sgabello accanto al suo. Mi sorride, il taglio degli occhi si allunga assecondando il movimento aggraziato ed erotico delle labbra.

– Non le pare di essere troppo sfacciato? – mi dice, ma non smette quel sorriso a base di ormoni. Non rispondo e mi limito ad alzare spalle. A volte basta uno sguardo per intendersi.

Nel mio caso basta l'odore dell'eccitazione e l'istinto di sopravvivenza. Sono sicuro che per lei è la stessa cosa.

– Mi chiamo Edward – dico invece di rispondere alla sua domanda. Senza allungare la mano verso di lei mi giro sullo sgabello e poggio un gomito sul bancone di marmo rosso. Non la voglio ancora toccare, potrei non trattenermi.

Ancora quel sorriso ammaliante. In questo momento è lei la predatrice, sta giocando, mi stuzzica e vuole studiare le mie reazioni. Ma il corteggiamento non dura mai molto con tipi come me.

– Daniela – dice. Un sussurro morbido e sensuale come le curve che lascia intendere sotto il top attillato. Sento un fremito e per un attimo non posso parlare.

– Questo significa che accetta la mia offerta?

– Prendo un martini rosso. – Ora il sorriso è meno intenso, più provocatorio.

Mi rivolgo al barista e ordino due martini. Per alcuni istanti nessuno dei due parla. Bastano i nostri sguardi a continuare il corteggiamento: quello scuro e intenso di lei, addolcito da onde di trucco cremisi; il mio, tagliente, misteriosamente di uno sbiadito ocra felino.

Finisce il suo martini e si alza. Ora non ride più, ma si avvicina al mio sgabello e poggia una mano sulla mia coscia. Ancora un brivido, socchiudo gli occhi. Sento il volto avvicinarsi al mio e il tocco delicato della bocca carnosa sfiorarmi le labbra, esangui. Poi si avvicina all'orecchio e con un colpetto di lingua stuzzica il mio lobo. Dentro di me esplode qualcosa.

– Grazie Eddy – sussurra – è stato gentilissimo.

Il contatto svanisce rapidamente, come l'attacco di un cobra,  e sento i suoi passi allontanarsi. Lascio che il fremito lungo il mio corpo svanisca del tutto, quindi mi alzo e mi affretto a pagare.

Lei è già fuori, di nuovo in strada, tra l'insignificante folla della giungla di Bombay.

Di nuovo preda.

Ancora per poco.

 

Edward James Corbett e il leopardo si fissarono per interminabili istanti carichi di tensione. Era la prima volta che si trovavano così vicini, occhi inchiodati negli occhi, nero e giallo, rabbia e fame.

Quando gli uomini videro il cacciatore aprirono il cerchio nel quale avevano tentato con scarsi risultati di chiudere il felino e indietreggiarono a passi lenti, attenti a non irritare e  provocare la bestia.

Edward sollevò lentamente il fucile e senza staccare gli occhi dall'animale poggiò il calcio sulla spalla destra.

Le urla e i lamenti che lo circondavano svanirono nel nulla e nella sua testa rimase solo il silenzio della concentrazione. Sentì il sudore freddarsi sulle braccia scoperte, i capelli incollati sulla fronte. Prese a respirare con più calma per rallentare i battiti del cuore e per un breve istante socchiuse gli occhi.

– Eccoti – sussurrò a sé stesso. L'animale era immobile, la piccola testa macchiata di rosso, laddove le fauci avevano squarciato la morbida pelle della sua vittima. Da quella distanza Corbett poteva distingue i più piccoli dettagli della bestia e quasi contare gli ocelli che ne maculavano il manto.

Strinse forte il fucile, prese la mira e fece fuoco.

Il mostro di Rudraprayang scattò un istante prima del colpo. Fece un balzo all'indietro e, con l'istinto allo stesso tempo della preda e del predatore, cercò riparo nella macchia al di là del torrente alle sue spalle.

Il cacciatore fece fuoco ancora una volta. Il leopardo ringhiò e sbandò di lato, ma continuò la sua corsa e con un balzo fu al di là del corso d'acqua, pronto a sparire nel folto degli alberi.

Quando gli uomini intorno a Edward si accorsero che un proiettile aveva colpito l'animale esplosero in grida di giubilo e allegria, dimentiche del corpo martoriato del loro compagno a pochi metri di distanza.

Corbett non tirò subito giù il fucile, ma sempre tenendo l'occhio fisso nel mirino seguì la corsa selvaggia della bestia. Poi, con movimenti lenti, abbassò l'arma e si concesse un sorriso.

– È ferito – disse agli uomini al suo fianco – dobbiamo seguirlo.

I sorrisi si spensero in un baleno e le grida festose scemarono fino a morire del tutto. Un mostro ferito è molto più pericoloso, questo lo sapevano anche loro.

– Seguiremo i passi della sua morte – disse uno di loro. – Ma ora il demonio è ancora in lui.

– Vigliacchi – li affrontò Corbett, ma lasciò cadere l'argomento e fissò di nuovo il punto in cui il leopardo si era inoltrato nella macchia.

Ricaricò il fucile e a passi lenti si incamminò.

 

Ha veramente una grazia e una pericolosità felina.

Mentre la seguo non si volta mai. Ma sicuramente l'odore della mia pelle penetra a fondo nella sua mente, così come nella mia aleggia ancora il selvaggio afrore della sua eccitazione.

È una serata molto calda, ma nel mio corpo sento scorrere brividi di fredda impazienza. Dieci passi avanti a me c'è la fine di tutte le mie ossessioni, il piacere estremo unito all'istinto. Erotismo e Natura in un solo corpo. Non avrei mai osato sperare tanto.

Daniela… ripeto il suo nome nella mia mente e sebbene passanti distratti disturbino la mia vista, posso vederla con gli occhi della mente e modellare le sue curve con la pungente malizia del suo odore.

I suoi sensi non sono sviluppati come i miei, già. Ma lo sa che la seguo ancora. Sente il mio sguardo e percepisce il desiderio che mi avvince. Lo sa che la sto seguendo, e le piace. Le piace da impazzire.

Entra in un portone e senza esitare la seguo, ora più vicino, impaziente e istintivo. Animalesco.

Si ferma al primo piano di una stretta rampa di scale, penombra e silenzio. Adesso solo i nostri respiri e l'odore del desiderio, denso e imbarazzante.

Apre una porta e scompare in un'altra impenetrabile bolla di buio. Allungo il passo e mi chiudo la porta alle spalle. Nell'oscurità me la trovo di fronte, immobile.

Lei vede il luccichio giallognolo dei miei occhi. Io la pozza nera in cui sono affogati i suoi. Percepisco in modo confuso la lunga chioma di capelli corvini, la vita stretta e il seno generoso. Con un balzo le salto addosso, le strappo il top di tessuto leggero e affondo la testa tra le morbide carni che mi offre.

È la preda, ma non si dibatte.

 

Corbett avanzò da solo.

Tutti gli uomini del villaggio si fermarono dall'altro versante del piccolo ruscello e rimasero a guardarlo in silenzio. Le urla di gioia si erano spente già da qualche minuto e adesso qualcuno già era chino sul corpo della vittima. Edward vide una donna e due bambini in lacrime. Solo i familiari si disperavano. Gli altri attendevano le mosse del cacciatore. Il mostro era ferito, ma volevano vederlo morto. Per dormire sonni tranquilli.

Corbett avanzò a passi lenti e dopo pochi metri trovò le prime tracce di sangue. Macchie scure, arteriose. Doveva averlo colpito bene e mortalmente. Sorrise e fece ancora qualche passo. Prima di entrare nell'intrico della selva si fermò qualche secondo ad ascoltare i rumori che si nascondevano minacciosi oltre il primo filare di alberi.

Il suo nemico era ferito e poteva essere pericoloso più che mai. Edward sapeva che a quel punto avrebbe dovuto attendere qualche minuto, affinché l'animale si indebolisse, ma l'istinto del cacciatore lo spingeva ad andare avanti e senza esitare, con il fucile carico e puntato, riprese l'inseguimento.

– Vieni fuori, bello – mormorava per esorcizzare la tensione che gli bloccava i muscoli. – Fatti vedere ancora una volta…

Il rumore dei suoi passi lo disturbava e non gli permetteva di trovare la massima concentrazione. Il leopardo avrebbe potuto essere anche a un metro da lui, ma in quel fitto sottobosco poteva calpestarlo prima di vederlo. E questo Edward James Corbett doveva evitarlo assolutamente.

Poi la belva si mosse. Un rumore anomalo attirò l'attenzione di Edward alla sua destra e lo vide. Una macchia gialla e nera guizzò rapida trai cespugli, a meno di dieci metri. L'uomo si voltò di scatto e sparò senza troppa precisione. Poi lasciò partire un altro colpo, mirando al corpo in movimento.

Il ringhio sommesso dell'animale gli fece capire di avere colpito di nuovo il bersaglio.

 

Ha la testa piegata all'indietro e ansima in preda al piacere. Con movimenti bruschi le ho strappato tutti i vestiti di dosso e adesso la spingo contro la parete e affondo la testa nell'incavo del collo.

Poi mi afferra il capo e mi spinge all'indietro. Il suo sguardo pungente fissa i miei occhi gialli e il suo respiro caldo mi scivola sul volto in un bagno d'erotismo. La lascio e si muove verso sinistra, lungo un piccolo corridoio. Apre una porta ed entra nella camera.

Ormai è mia, quindi la seguo senza fretta. Lei è già sdraiata sul letto e alcuni raggi di luna che filtrano dalla finestra disegnano nastri argentati sulla sua pelle d'ebano. Allarga le gambe e sorride, carezzandosi languidamente con un dito. Porta l'altra mano alla bocca e il medio scompare tra le tumide labbra in un andirivieni lento, al ritmo dell'altro, più intimo, poi scivola in basso e gioca sul seno.

In piedi sulla soglia della porta mi spoglio e rimango nudo. Avanzo di un passo e lascio che anche sul mio corpo danzino le indiscrete carezze della luna. Poi mi chino su di lei e i nostri corpi si intrecciano. Ora le sue mani mi afferrano i fianchi e la lingua cerca la mia. Inarca la schiena e mi invita tra il suo piacere.

Lancia un sospiro quando mi sente dentro, poi comincia a muoversi sotto di me. Anche lei mi vuole. E mi ha scelto.

Predatore contro predatore.

 

– Eccoti, finalmente – disse Corbett a bassa voce, quasi rispettoso del dolore atroce della bestia. Rimase a due metri e scrutò il volto sofferente dell'animale. Quando capì che non aveva più forze si fece coraggio e si portò a un passo.

– Alla fine ho vinto io – mormorò, ma di fronte alla bellezza dell'animale non ne era più tanto convito. Il colpo mortale lo aveva ferito al fianco, vicino la zampa posteriore. Aveva perso molto sangue, probabilmente da un'arteria lacerata, e respirava con affanno.

Il leopardo di Rudraprayang, il famoso mangiatore di uomini, non avrebbe più terrorizzato nessuno. Corbett lo ammirò in silenzio per alcuni momenti.

Era un maschio adulto non più giovane. Il manto era ancora molto bello, ma una delle zampe posteriori portava i segni di una vistosa cicatrice.

– Ecco perché attacchi gli uomini – bisbigliò di nuovo l'uomo, quasi a voler entrare in intimità con il felino. In passato la zampa dell'animale era stata gravemente ferita e non era più in grado di procacciarsi prede selvagge. Per questo attaccava l'uomo e i suoi mansueti animali domestici. Edward annuì, anche se quel cenno di comprensione era inutile rivolto a un animale.

Poi il felino sbarrò gli occhi e i pochi barbagli di luce che riuscivano a filtrare dalla coltre degli alberi vennero catturatati dal suo meraviglioso sguardo giallo.

Gli occhi scuri dell'uomo per un istante incrociarono lo sguardo rabbioso e rassegnato dell'animale, e un brivido percorse la schiena del cacciatore. Il felino spalancò la bocca ed emise un lungo raggelante lamento, poi scalciò e lasciò cadere la testa sul terreno, gli occhi orribilmente spalancati.

Edward sentì come un giramento, ma non distolse lo sguardo dal volto dell'animale. Gli occhi sembravano ancora vivi, di un giallo inquietante. Poi quel colore cominciò a sfumare in un una tonalità più scura. Edward si sentiva le gambe molli e rimase a fissare sbalordito la vita spegnersi nello sguardo della sua preda. Il giallo divenne ocra, poi si confuse col marrone scuro della corteccia e morì in un intenso nero, scuro come la notte. E la morte.

E tutto sembrò subito più strano. La selva intorno a Corbett si riempì di rumori che prima sembravano non esistere e odori pungenti lo colpirono in modo inaspettato. Ebbe un altro giramento di testa e a fatica riuscì ad alzarsi.

Gli sembrava di percepire tutto in modo leggermente diverso, ma l'impressione passò presto e in pochi secondi ogni cosa tornò alla normalità. La caccia era terminata.

Voltò le spalle all'animale e si incamminò verso il villaggio. I contadini sarebbero tornati a recuperare il corpo senza vita del mostro di Rudraprayang.

Quando uscì dalla selva gli uomini lo attendevano ancora al di là del torrente. Avevano sentito i colpi e speravano che la belva fosse morta.

Edward superò il corso d'acqua e passò in mezzo agli uomini in attesa, senza dire nulla. Lo fissavano in modo anomalo, ma non ci fece caso. Passò oltre e li lasciò alle spalle. La donna e i due bambini piangevano ancora sul corpo martoriato dell'uomo ucciso dal leopardo.

I contadini e gi allevatori del villaggio avevano notato gli  occhi gialli del cacciatore, inquietanti e spaventosi. Felini.

Ora lo sapevano e potevano gioire.

Il mostro di Rudraprayang era morto.

 

 

Il leopardo di Rudraprayang è esistito davvero e ha sbranato più di centoventi persone. Venne ucciso dal cacciatore indiano di origini inglesi Edward James Corbett.

Tutto il resto è opera di fantasia.

 

 01/09/05

 

 
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