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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Dieci passi di Milvia Comastri 29/09/2006
 

Dieci passi

 

 

 

 

Di dormire ormai non se ne parla.

Le lenzuola sono umide del suo sudore e Diana scalcia nel letto, in quel viluppo di cotone. Sbuffa, rivolta il cuscino, poi lo butta a terra, lo riprende, lo sprimaccia.

Sente un brontolio lontano, fuori, le sembra che venga dal mare. La pioggia, pensa, finalmente!

Ma il sonno se ne è proprio andato.

E a questo punto lei si può anche alzare.

 

 

 

 

 

 

 

 

I muri della cucina racchiudono in un abbraccio compatto l'odore della frittata della sera prima. Il frigo ronfa come un gatto, la vecchia sveglia ticchetteggia sul tavolo, con un aritmia frammentata, perdendo secondi nel suo andare, nella sua cardiopatia meccanica. Nel lavello una goccia urla il suo disappunto per essere scivolata e incide ruvide lacrime di calcare sulla superficie di acciaio. La tenda con le frange dialoga agitata con il vetro della finestra, mentre si lascia impudicamente corteggiare dal vento caldo che si è insinuato fra le persiane.

 

 

 

 

 

 

 

 

Lei è sulla soglia. Potrebbe arrivare molto velocemente alla fine della stanza, e chiudere ben bene il rubinetto, e fissare le persiane, e prendere il cartone del latte dal frigorifero, e versarsene un bicchiere.

Ma quei dieci passi li vuole fare con lentezza. Ha voglia di ripassare un po' della sua vita, di riprendersi dimenticate emozioni attraverso il tatto, non distratto, ma attento.

Un tatto a dieci diottrie.

 

 

 

 

 

Diana inizia il suo mappaggio. Il palmo incontra una superficie liscia e fredda, poi le dita avanzano nella loro ricerca. Dal legno della credenza – lei vede il suo color miele biondo, sotto i polpastrelli, e le  venature più scure che lo attraversano come figure sinuose-, le dita passano a toccare il pannello di vetro del mobile e si soffermano su piccole aree più ruvide, ne seguono i contorni: palme stilizzate e cerbiatti con il muso alzato verso i rami. 1964: il negozio di mobili di via Andretti. Il cospicuo mazzetto da diecimila lire passa dalle loro mani a quelle del commerciante. Tonino e lei, giovanissimi e sposi fra una settimana. Tutti i sogni e le speranze chiusi in quei cassetti, pronti ad essere spalancati. I cassetti che ora Diana apre ad uno ad uno, la mano intorno ai pomelli lavorati, un fiore inciso al centro. E i sogni?

Il tavolo non è sempre stato appoggiato contro la parete. Anni fa era nel bel mezzo della cucina e lì si mangiava, tutti attorno. Diana appoggia le mani sulla sua superficie, ne segue il perimetro. Il marmo le da una piacevole impressione di freschezza. Verso l'angolo di destra, ci sono venature grigie, che sembrano disegnare il profilo della Sicilia: l'immaginazione di Tommaso, quando in terza elementare aveva cominciato a studiare geografia. Il tavolo non è sempre stato contro la parete. Ma adesso lei ha bisogno di muoversi più agevolmente, senza troppi ostacoli. E  ormai, ospiti ne vengono solo per le Feste, e allora si sta in sala da pranzo, a mangiare.

E poi ecco lo scaffale con le ricette. Le dita di Diana scivolano sul dorso dei libri come su una tastiera di pianoforte. La sinfonia del cibo ha accompagnato parte dei suoi anni. Preludi di vol au vent, andanti di lasagne, tempi lenti di arrosti, intermezzi di colorate insalate, capricci di millefoglie. Riccardo e Tommaso giocavano accanto a lei con ritagli di pasta. E ora Riccardo è chef in un ristorante di San Francisco. Torna a casa ogni due anni. Il nipotino californiano, lei, non lo conosce ancora.

Con il televisore Diana non ha avuto mai un rapporto d'amore. Lei ha amato la radio, e sentire ora quell' oggetto sotto le dita, leggermente ruvido intorno, tutto liscio al centro, non le suscita alcuna emozione; vede invece, con la punta delle dita della memoria, la vecchia radio, massiccia, piena di scanalature. Risente un brano di Mozart, sigla introduttiva di una trasmissione che lei ascoltava da ragazzina, risente le voci che hanno portato nella casa della sua infanzia Trieste tornata all'Italia, e i carri armati in Ungheria, e i morti di Marcinelle, e il Giro d'Italia. E rivede Tonino, anni dopo, in questa, di casa, che segue  le radiocronache delle partite, e fa il tifo con i ragazzi, il ciuffo che gli cade sugli occhi.

Il quadro. Il quadro dipinto da suo padre. Diana alza un braccio, si sofferma a toccare la base della cornice barocca, sente le piccole rientranze, le minuscole volute. Non le è mai piaciuta, quella cornice. Lei, soggetto di quel quadro, si è sempre sentita imprigionata da quelle dorature, da quel rettangolo di legno troppo pesante, che sembra rinchiudere crudelmente la raffigurazione di quella bambina dall'anima lieve e allegra che lei voleva essere. Il quadro: un'icona rappresentativa della sua infanzia soffocata da quell'uomo troppo artista per essere padre. Papà, mormora Diana, vedi, non sono stata capace di darmi un'altra cornice. E il quadro l'ho tenuto nella stanza dove ho vissuto gran parte della mia vita.  E se  me ne chiedo il motivo, non so cosa rispondere.

 

 

 

 

 

 

 

Prosegue il suo migrare sul viale della memoria. Sotto il quadro, la macchina da cucire. Vecchia, mai usata da lei, ma conservata come unico frammento della vita di nonna Luisa. La nonna che le confezionava i vestitini, quando era piccola. La nonna che andava nei negozi del centro e faceva impazzire i commessi per farsi mostrare tutta la mercanzia, ma non comprava nulla e memorizzava gli abiti più belli e glieli rifaceva uguali uguali, con quella Singer nera impreziosita da scritte dorate. Diana che si pavoneggiava, che si immedesimava nei personaggi dei film e delle canzoni. Ricorda e canterella una canzone di allora: “Era bella sotto il mandorlo, col vestito rosa…” Il  suo vestito era rosa, sì, e aveva un ricamo a nido d'api sul petto, e se girava su se stessa faceva il frullo.

Accanto alla macchina uno spazio vuoto, solo i piccoli perimetri delle piastrelle, le fughe disuguali fra una e l'altra. Lì, sul pavimento, c'era la cesta di Duca, le sue fusa, il raspare delle unghie sul pezzo di legno che lei gli aveva messo per quell'uso, evitando così che se le arrotasse sulle poltrone di pelle nel salotto. Ha seppellito la cesta tanti anni fa, in giardino, insieme a quel micio che era cresciuto con i suoi figli, e  che per tanti pomeriggi, quando Diana era sola in casa, era stato il suo unico compagno. Sorride, Diana, come allora: a volte gli parlava, a quel gatto, gli –si- faceva domande e lui a guardarla enigmatico dal sotto in su, a pensare a chissà che, nella sua domestica testa di felino.

Sulla piastra del forno a gas, come abbandonata, ancora la padella della frittata della sera prima. Uno dei due manici, sente Diana sotto le dita, è sgradevole al tatto come una brutta cicatrice. Un mese fa ha cercato di cuocersi un hamburger preconfezionato. Ma la fiamma del gas, troppo alta, ha mutilato per sempre quella povera padellina. Anita, la sua vicina che l'aiuta ogni giorno, si è proprio arrabbiata. “Ma ti rendi conto del pericolo?” ha urlato.

Lei si è sentita come una scolaretta incapace. Le sono venute le lacrime agli occhi per la frustrazione.

Sta per finire la sua accumulazione di ricordi: il penultimo passo. La porta del frigo non è bella liscia come dovrebbe essere. La sua superficie è una pagina di un libro di storie: piccole calamite tengono fermi attimi di vita, lasciati lì dai figli, quando vengono trovarla.
A volte Diana pensa che ci sia ironia in questo. Quando è più depressa pensa che ci sia crudeltà. Ma poi rinsavisce: è ben consapevole che ogni piccola istantanea appesa lì e ogni parola che l'ha accompagnata sono stati un atto d'amore. La foto del nipotino sconosciuto tutto ricci ed occhi scuri, quella di  Riccardo con il cappello  da Chef, banchi d'acciaio e vapori e fiammelle azzurrate intorno a lui, e quella di Tommaso con la sua allegra  moglie, in viaggio di nozze a Zante,  blu  cielo e mare screziato come sfondo.

Il lavello era di ceramica bianca, all'inizio. Poi piccole crepe si erano formate sullo sgocciolatoio. Le sue rughe da vecchio, aveva pensato Diana quando lo avevano sostituto con questo attuale. Come le mie. Stringe con forza la croce arrotondata del rubinetto. Cessa il tic, tic, tic, monotono, regolare, come quei suoi ultimi tre anni dopo l'incidente: ogni giorno uguale all'altro.

 

 

I rumori, sul viale, e sul porto, più lontano, segnalano a Diana la nascita di una nuova alba.

 

Poche ore. Ancora poche ore. Poi verrà Tommaso e la accompagnerà in clinica. Cinque giorni di ricovero, signora Franchini, le ha detto il professore. Quaranta per cento di probabilità che l'intervento riesca perfettamente. Purtroppo il suo è un caso difficile.

 

Quaranta per cento di possibilità, si ripete Diana.

 E cancellare quella oscurità.

 E rivedere il mare.

 

Spalanca le persiane. Non c'è odore di pioggia.

Alla fine, poi, non è piovuto.

 

 

 

 

 
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