Area riservata

Ricerca  
 
Siti amici  
 
Cookies Policy  
 
Diritti d'autore  
 
Biografia  
 
Canti celtici  
 
Il cerchio infinito  
 
News  
 
Bell'Italia  
 
Poesie  
 
Racconti  
 
Scritti di altri autori  
 
Editoriali  
 
Recensioni  
 
Letteratura  
 
Freschi di stampa  
 
Intervista all'autore  
 
Libri e interviste  
 
Il mondo dell'editoria  
 
Fotografie  
 
 
  Poesie  Narrativa  Poesie in vernacolo  Narrativa in vernacolo  I maestri della poesia  Poesie di Natale  Racconti di Natale 

  Scritti di altri autori  »  I maestri della poesia  »  La mia malattia, di Giovanni Pascoli 16/06/2014
 

Da un fatto realmente accaduto (Pascoli era a Messina per insegnare e là fu vittima di un'epidemia di tifo che mise in pericolo la sua vita) il poeta ha saputo trarre versi che ben mettono in evidenza il legame affettivo che correva con la sorella Maria, un'unione che si spezzò solo con la morte di lui, anche se lei visse in seguito sempre fedele a una memoria cementata da anni di tanti dolori e poche gioie trascorsi insieme.

 

 

 

La mia malattia

di Giovanni Pascoli

 


L'altr'anno, ero malato, ero lontano, 
a Messina: col tifo. All'improvviso 
udivo spesso camminar pian piano, 
a piedi scalzi. Era Maria, col viso 
tutt'ombra, dove un mio levar di ciglia 
gettava sempre un lampo di sorriso. 
A volte erano i morti, la famiglia 
nostra... Io pian piano mi sentia toccare 
il polso, e sussurrare: - Oh! la mia figlia! 
sola! con nulla! con di mezzo il mare! -

II 
Quelle sere, Maria non, come suole, 
pregava al mio guanciale, co' suoi lenti 
bisbigli, con le sue dolci parole: 
dolci parole dette per gli assenti 
al buon Gesù, dette per me: preghiere 
perché in pace riposi e m'addormenti. 
Prega, e vuol ch'io ripeta. Quelle sere, 
nulla, o diceva: "Dormi, ch'hai la voce 
debole; è meglio ora per te tacere, 
dormire; fatti il segno della croce".

III 
Io pensava: - Ma dunque ella non crede 
più, tanto? Che sarà della sua vita, 
un vilucchio avvoltato alla sua fede? - 
E pensando, alla mente illanguidita 
io richiamava le devozioni 
già dette con le mie tra le sue dita. 
E ricordai che tra quei fiochi suoni 
che a un Angiolo bisbiglia che li porti 
su, c'era il Requiem; c'era anche: Vi doni 
nostro Signore eterna pace, o morti!

IV 
Morti che amate, morti che piangete, 
morti che udivo camminar pian piano 
nella mia, nella sua stanza a parete: 
che sempre in dubbio d'aspettare in vano 
sempre aspettate con pupille fisse, 
come il mendico, tesa ch'ha la mano, 
quelle preghiere; oh! sì, Maria le disse, 
quelle preghiere, ma da sé, ma ebbre 
di pianto, ma di là... che non sentisse 
suo fratello, che aveva alta la febbre...

 

Da I canti di Castelvecchio

 
©2006 ArteInsieme, « 014054808 »