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  Scritti di altri autori  »  I maestri della poesia  »  La poesia, di Giovanni Pascoli 09/11/2014
 

Questa poesia mi ha sempre affascinato e nel leggere i suoi versi immaginavo, quando ero assai pił giovane, un ambiente raccolto, appena rischiarato da una lampada a olio dalla fiamma ferma, una luce che chiama a sé la vita e che nei chiaroscuri, nel bene e nel male, ci indica la via da percorrere.  

 

 

 

La poesia

di Giovanni Pascoli

 


Io sono una lampada ch'arda 
soave!
la lampada, forse, che guarda, 
pendendo alla fumida trave,
la veglia che fila; 
e ascolta novelle e ragioni 
da bocche 
celate nell'ombra, ai cantoni, 
lą dietro le soffici rócche 
che albeggiano in fila: 
ragioni, novelle, e saluti 
d'amore, all'orecchio, confusi: 
gli assidui bisbigli perduti 
nel sibilo assiduo dei fusi; 
le vecchie parole sentite 
da presso con palpiti nuovi, 
tra il sordo rimastico mite 
dei bovi:

II 
la lampada, forse, che a cena 
raduna; 
che sboccia sul bianco, e serena 
su l'ampia tovaglia sta, luna 
su prato di neve; 
e arride al giocondo convito; 
poi cenna
d'un tratto, ad un piccolo dito, 
lą, nero tuttor della penna 
che corre e che beve: 
ma lascia nell'ombra, alla mensa, 
la madre, nel tempo ch'esplora 
la figlia pił grande che pensa 
guardando il mio raggio d'aurora: 
rapita nell'aurea mia fiamma 
non sente lo sguardo tuo vano; 
gią fugge, č gią, povera mamma, 
lontano!

III 
Se gią non la lampada io sia, 
che oscilla 
davanti a una dolce Maria, 
vivendo dell'umile stilla 
di cento capanne: 
raccolgo l'uguale tributo 
d'ulivo 
da tutta la villa, e il saluto 
del colle sassoso e del rivo 
sonante di canne: 
e incende, il mio raggio, di sera, 
tra l'ombra di mesta viola, 
nel ciglio che prega e dispera, 
la povera lagrima sola; 
e muore, nei lucidi albori, 
tremando, il mio pallido raggio, 
tra cori di vergini e fiori 
di maggio:

IV 
o quella, velata, che al fianco 
t'addita 
la donna pił bianca del bianco 
lenzuolo, che in grembo, assopita, 
matura il tuo seme; 
o quella che irraggia una cuna 
- la barca 
che, alzando il fanal di fortuna, 
nel mare dell'essere varca, 
si dondola, e geme -; 
o quella che illumina tacita 
tombe profonde - con visi 
scarniti di vecchi; tenaci 
di vergini bionde sorrisi; 
tua madre!... nell'ombra senz'ore, 
per te, dal suo triste riposo, 
congiunge le mani al suo cuore 
gią róso! -


Io sono la lampada ch'arde 
soave! 
nell'ore pił sole e pił tarde, 
nell'ombra pił mesta, pił grave, 
pił buona, o fratello! 
Ch'io penda sul capo a fanciulla 
che pensa, 
su madre che prega, su culla 
che piange, su garrula mensa, 
su tacito avello; 
lontano risplende l'ardore 
mio casto all'errante che trita 
notturno, piangendo nel cuore, 
la pallida via della vita: 
s'arresta; ma vede il mio raggio, 
che gli arde nell'anima blando: 
riprende l'oscuro viaggio 
cantando.

 

Da I canti di Castelvecchio

 
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