Non c'è che dire: non ho mai trovato una
descrizione delle famigerate SSc più riuscita di
quella in versi di Ferdinando Camon. Lui ha saputo
cogliere il piacere perverso che allignava in questi assassini e che li portava
a far sì che prima le vittime si illudessero, per poi crollare per la
consapevolezza della loro sorte. C'era in quei carnefici una fantasia funebre
che nella storia non è mai stata eguagliata.
Una visita di cortesia
di Ferdinando Camon
Quel che facevano i marines
con l'M16 in Vietnam,
lo facevano le SS con la «machine
pistole» in Pianura Padana.
L'SS entrava in casa con
portamento
austero, salutando con
inchino,
faceva un buffetto al
bambino,
sorrideva a tutti ed era
bello:
sacramento!,
se c'è un dio in terra, è
quello.
Lui dichiarava: «Questa
essere fisita
di cortesia»,
le donne pulivano una sedia
e gliel'accostavano: «Cossa
podemo offrirghe?»,
«Crazie,
un poco di fino».
Guardandole in piedi lungo
il muro, zitte,
alzava il bicchiere
augurando: «Prosit!».
Le poverette pensavano: “È
buono”.
Ma la sua faccia diventava
strana,
passando da Lucifero a
Satana,
metteva l'arma sul tavolo,
puntata
sul marito, e lo fissava
muto:
quello capiva di essere fottuto.
«Chi essere capo particciano
qui?», «Lo giuro, nessuno
lo sa»,
«Preco,
seguitemi al comando,
per semplice formalità».
La moglie cadeva in
deliquio
e gli baciava la mano,
come si fa con una reliquia
di Sant'Antonio:
gli avrebbe baciato anche
il culo,
come si fa col demonio.
Lui pungeva il prigioniero
con la pistola alle reni,
lei non vedeva niente, gli
occhi pieni
di lutto: era già vedova.
Da Dal silenzio delle campagne (Garzanti, 2014)