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  Freschi di stampa  »  L’iride nel fango. L’Anguilla di Eugenio Montale, di Francesco Zambon - Molesini Editore Venezia 04/03/2023
 
L’iride nel fango.

L’Anguilla di Eugenio Montale

di Francesco Zambon

Molesini Editore Venezia

Saggistica

Pagg. 144

ISBN 978-88947030-6-1

Prezzo Euro 16,00



L’anguilla, angelo di cenere e di fumo: una sorprendente interpretazione della poesia di Montale


L’iride nel fango.
L’ Anguilla di Eugenio Montale

Esito supremo di un ideale poetico, L’anguilla (1948) sintetizza tutto il percorso precedente di Montale, dagli Ossi di seppia fino alla Bufera (in cui è raccolta), e al tempo stesso annuncia l’ultima fase della sua poesia. La lettura di Francesco Zambon fa affiorare progressivamente, a partire dall’immagine dell’anguilla, una costellazione di elementi (oggetti, emblemi, temi, fantasmi) che si richiamano da un testo all’altro: epifanie e oggettivazioni di una dimensione sotterranea nella quale si costituiscono le ragioni del lavoro poetico montaliano. Il lungo viaggio nell’acqua e nel fango diventa la metafora dell’oscura sopravvivenza e del misterioso ritorno del passato: il grande tema dell’animale-vittima sacrificale, terrestre divinità e angelo «di cenere e di fumo», si inscrive in un geroglifico del destino umano, di quella «vita di quaggiù», come scrive Montale, «infinitamente cara quanto più prossima è a sfuggire».


I limoni è il componimento che apre la prima sezione degli Ossi, «Movimenti», dopo i versi In limine (Godi se il vento ch’entra nel pomario): anche senza contare che si tratta di una fra le più antiche liriche montaliane (in alcuni manoscritti è datata novembre 1922, ma la sua prima stesura potrebbe risalire al 1921), tale collocazione inaugurale ne sottolinea energicamente il valore programmatico e simbolico. La prima strofa è una aperta dichiarazione di poetica, nella quale Montale manifesta il suo proposito, come avrebbe poi precisato in Intenzioni (Intervista immaginaria, SP), di «torcere il collo» «all’eloquenza della nostra vecchia lingua aulica», contrapponendo alla vuota retorica dei «poeti laureati» (suo bersaglio polemico è soprattutto il sublime dannunziano) una poesia «povera», fatta di cose umili espresse in un linguaggio dimesso e familiare, anche se proprio per questo non esente, come egli stesso riconosce in Intenzioni, dal «rischio di una controeloquenza»:

Ascoltami, i poeti laureati
si muovono soltanto fra le piante
dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in pozzanghere
mezzo seccate agguantano i ragazzi
qualche sparuta anguilla:
le viuzze che seguono i ciglioni,
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.



Francesco Zambon (Venezia 1949) è professore emerito di Filologia romanza presso l’Università di Trento. Studioso di fama internazionale, ha indagato su numerosi aspetti della letteratura allegorica e religiosa del medioevo latino e romanzo (bestiari, mito del Graal, trovatori, eresia catara, mistica). Ha scritto inoltre su alcuni poeti italiani ed europei contemporanei.

 
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