L’iride
nel fango.
L’Anguilla
di Eugenio Montale
di
Francesco Zambon
Molesini
Editore Venezia
Saggistica
Pagg.
144
ISBN
978-88947030-6-1
Prezzo
Euro 16,00
L’anguilla,
angelo di cenere e di fumo: una sorprendente interpretazione della
poesia di Montale
L’iride
nel fango.
L’ Anguilla di Eugenio Montale
Esito
supremo di un ideale poetico, L’anguilla (1948)
sintetizza tutto il percorso precedente di Montale,
dagli Ossi
di seppia fino
alla Bufera (in
cui è raccolta), e al tempo stesso annuncia l’ultima
fase della sua poesia. La lettura di Francesco
Zambon fa
affiorare progressivamente, a partire dall’immagine
dell’anguilla, una costellazione di elementi (oggetti, emblemi,
temi, fantasmi) che si richiamano da un testo all’altro:
epifanie e oggettivazioni di una dimensione sotterranea nella quale
si costituiscono le ragioni del lavoro poetico montaliano. Il lungo
viaggio nell’acqua e nel fango diventa la metafora dell’oscura
sopravvivenza e del misterioso ritorno del passato: il grande tema
dell’animale-vittima sacrificale, terrestre divinità e
angelo «di cenere e di fumo», si inscrive in un
geroglifico del destino umano, di quella «vita di quaggiù»,
come scrive Montale, «infinitamente cara quanto più
prossima è a sfuggire».
I
limoni è il componimento che apre la prima sezione
degli Ossi, «Movimenti»,
dopo i versi In
limine (Godi se il vento ch’entra nel pomario):
anche senza contare che si tratta di una fra le più antiche
liriche montaliane (in alcuni manoscritti è datata novembre
1922, ma la sua prima stesura potrebbe risalire al 1921), tale
collocazione inaugurale ne sottolinea energicamente il valore
programmatico e simbolico. La prima strofa è una aperta
dichiarazione di poetica, nella quale Montale manifesta il suo
proposito, come avrebbe poi precisato in Intenzioni
(Intervista immaginaria, SP),
di «torcere il collo» «all’eloquenza della
nostra vecchia lingua aulica», contrapponendo alla vuota
retorica dei «poeti laureati» (suo bersaglio polemico è
soprattutto il sublime dannunziano) una poesia «povera»,
fatta di cose umili espresse in un linguaggio dimesso e familiare,
anche se proprio per questo non esente, come egli stesso riconosce
in Intenzioni,
dal «rischio di una controeloquenza»:
Ascoltami,
i poeti laureati
si
muovono soltanto fra le piante
dai
nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
Io,
per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi
dove in pozzanghere
mezzo
seccate agguantano i ragazzi
qualche
sparuta anguilla:
le
viuzze che seguono i ciglioni,
discendono
tra i ciuffi delle canne
e
mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.
Francesco
Zambon (Venezia
1949) è professore emerito di Filologia romanza presso
l’Università di Trento. Studioso di fama internazionale,
ha indagato su numerosi aspetti della letteratura allegorica e
religiosa del medioevo latino e romanzo (bestiari, mito del Graal,
trovatori, eresia catara, mistica). Ha scritto inoltre su alcuni
poeti italiani ed europei contemporanei.
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