Intervista di Renzo Montagnoli a Pietro
Zerella, autore del romanzo storico L'altra faccia dell'unità d'Italia 1860 -
1862, edito da Marco Del Bucchia
Ho letto con grande piacere questo
romanzo che parla effettivamente di un'altra faccia dell'unità d'Italia, ben
diversa da quella che abbiamo studiato sui banchi di scuola e scritta a uso e
consumo della classe dominante, in questo caso la monarchia sabauda.
Mi è piaciuto anche l'equilibrio dello
svolgimento e, per quanto tu sposi una visione che in buona parte condivido,
non porti mai avanti il discorso in modo assolutistico, nel senso che non vuoi
essere la fonte di ogni verità, e, a testimonianza di ciò, riporti in calce due
capitoletti dedicati rispettivamente al revisionismo di natura politica e alle
critiche al revisionismo sul risorgimento. Preciso, anche per i lettori, che le
teorie revisioniste a livello storico sono abbastanza recenti e risalgono più o meno a una ventina di anni fa, cioè quando ormai da
tempo la monarchia era caduta e la repubblica era già ben consolidata.
Secondo te, perché è occorso così tanto tempo per una ricerca della verità che non fosse
quella pontificata a livello scolastico?
La nostra giovane entità di Monarchia, prima, di dittatura e
Repubblica poi, e di come abbiamo vissuto queste drammatiche fasi storiche, ci hanno precluso di guardare indietro e giudicarci. Nella
ricerca della verità gli studiosi trovavano spesso gli archivi sbarrati da
“segreti di Stato” e questo è continuato fin quasi agli anni '80. La nuova
cognizione storica, l'importanza delle piccole storie locali, ricerche di nuovi
appassionati di scrittura e il rafforzarsi della Democrazia e della Repubblica
hanno tolto ogni velo di reticenza sulla Storia d'Italia. La storia scolastica
serviva a formare e modellare la giovane Italia, far conoscere certi personaggi
e ignorare gli altri, descrivere un'Italia perfetta fatta solo di eroi, di
monumenti e di tanti sacrifici. Insomma un'italietta
di “brava gente”. Poi il cadere di tante barriere, la scoperta di documenti
impolverati ci farà conoscere quanto sangue fraterno ha inondato i sentieri di
questa bella Italia.
E' strano che gli storici non si siano sentiti in dovere di
riscontrare se quanto da sempre insegnato trovava una
corrispondenza con la realtà dei fatti. Non è improbabile che qualcuno di loro
abbia avuto più di un sospetto, ma che si sia lasciato attrarre dal quieto
vivere, dimenticando però che solo con la corretta ed esatta conoscenza delle
basi è possibile iniziare a porre rimedio alle storture di uno stato che
rischia di implodere. E' ipotizzabile, quindi, che la grande sfiducia nello
stato delle popolazioni meridionali, all'origine della famosa “questione”,
risieda proprio nel trattamento ricevuto con l'unificazione dell'Italia che,
anche con i corposi aiuti economici successivi, ha considerato sempre il Sud una colonia e non una parte integra e indispensabile
della sua struttura.
Al riguardo, qual'é il tuo pensiero?
La questione meridionale
è un problema che nasce subito dopo l'Unità d'Italia. Si potrebbe cavillare,
cercando di capire le cause più profonde che giustifichino la decadenza di un
popolo e di un Regno andando ha ritroso della storia che ha vissuto il sud.
Tre sono stati i periodi
di massimo splendore per il Meridione: l'impero Romano con la parentesi dei
Sanniti, il dominio Longobardo e l'impero di Federico II scomparso con la
sconfitta di Manfredi a Benevento (1266). Dopo vi sono state dominazioni
straniere, Angioini, Aragonesi… e infine i Vice re spagnoli che hanno portato
fame, rovine e “camorra” fino a Carlo III di Borbone che diventa re delle Due Sicilie. Sotto il suo breve governo si ha la rinascita del
mezzogiorno proseguita dai suoi avi, magari con soprusi e cannonate. La negatività
dei Borbone è stata sempre una politica chiusa e autarchica isolando il suo
popolo tra “l'acqua salata e l'acqua benedetta”. Vero
è, che nel Regno si pagavano poche tasse e pur nella miseria il popolino non
emigrava.
Il 1860-61 è il periodo
più travagliato della storia meridionale. Subito dopo la proclamazione
dell'unità, il Regno delle due Sicilie è subito
sottoposto all'uniformità legislativa e amministrativa dell'Italia unita. Il
passaggio dai Borbone ai Savoia avviene attraverso una serie di convulsi
esperimenti, dove il paese è travagliato da una profonda crisi, caratterizzata
dalla dissoluzione dell'apparato amministrativo, dalla stagnazione
dell'economia, dalle agitazioni dei contadini per la quotazione dei demani
comunali, dal brigantaggio e dall'opposizione del clero al nuovo regime. Nei
nuovi governanti manca la visione unitaria e la conoscenza delle effettive
condizioni delle società meridionali e di conseguenza era emanare seri e
concreti programmi governativi per unire le due Italie
(allora mancava l'esempio dell'unificazione delle due Germanie).
Il nord, più evoluto, anche perché più aperto all'influenza dei paesi d'oltre
Alpe e meglio governati dagli Asburgo e dai Francesi, ha percepito prima l'idea
dell'Illuminismo, ma non ha saputo applicare nei confronti dei meridionali i
codici di Napoleone, non ha usato la penna, anzi per i cervelli pensanti del
nord, come la scuola del criminologo Lombroso, Garafalo
e altri, l'uomo del sud, per le sue caratteristiche fisiche, era ritenuto un criminale nato e l' intelligenza simile a un
beduino e quindi per correggerlo aveva bisogno di punizione (fucilazione,
deportazione e incendi di interi paesi), massima repressione e tasse fino
all'osso (Quintino Sella). Naturalmente, il popolo del sud sentendosi colonizzato,
privato delle poco industrie e iniziative, il mercato
aperto alla concorrenza del nord, non protetto in alcun modo dal nuovo stato,
fu costretto ad armarsi, a difendersi, a guardare i campi dei proprietari
terrieri e dei nobili, a costituire società segrete (mafia e camorra). facendo finta di assoggettarsi ai nuovi padroni. (Tutto
cambia affinché nulla cambi).
Gli storici, pur di
sopravvivere, hanno ignorato gli eventi o hanno trovato gli archivi sigillati.
Purtroppo il problema meridione esiste ancora e forse, con gli attuali
politici, che non sono delle “Aquile”, ma delle “Gazze ladre” esisterà ancora.
Terminerà con le nuove generazioni che dimenticando la retorica, capiranno alla
fine, che la penisola sarà grande quando sarà tutta una con un grande popolo.
Hai scritto
bene “nei nuovi governanti mancava la visione unitaria” ed è da questa mancanza
che sono nati i problemi. Per dirla francamente, a Vittorio Emanuele II e a
Cavour non interessava liberare gli italiani e farne, dapprima un'unica nazione
e poi un unico stato. A loro importava semplicemente mettere le mani su terre
ricche d'industrie e d'agricoltura, e guarda bene che anche il resto d'Italia
si trovò più assoggettato che unificato, e così quasi
subito ebbe inizio quel grande flusso migratorio che interessò anche il
Meridione. La leva obbligatoria di cinque anni, che sottraeva le braccia
migliori alle famiglie, le tasse spaventose sul macinato e un'infinità di altre
gabelle si abbatterono sugli italiani “liberati”
peggio di una grandinata, con effetti senz'altro più devastanti al sud, le cui
popolazioni avevano già dapprima un tenore di vita inferiore a quelle del nord.
Non intendo andar oltre, perché altrimenti si corre il rischio che l'intervista
si allunghi fino a livelli intollerabili e passo quindi ad altro. E' stata
originale la scelta della figura del bisnonno, un fantasma che viene dall'aldilà a raccontare al nipote come sono andati i fatti e
anche se il tutto viene esposto da uno che c'era, ma che non era addentro ai
gangli vitali, il ricorso agli articoli di giornali dell'epoca offre un senso
di immediatezza, oltre che costituire il supporto tecnico-storico. Presumo,
comunque, che tu ti sia basato anche su testi specifici, che non hai indicato
nelle fonti bibliografiche, ma che mi interesserebbe
sapere, quale appassionato di storia, magari per poterli leggere pure io. Li
puoi indicare?
Sarebbe interessante
proseguire questa lunga disamina storica sul nostro passato, ma è meglio per
ora rimanere nel testo altrimenti maturiamo un'altra pensione! L'idea di
coinvolgere il mio bisnonno, mi venne qualche anno dopo aver scritto un libro
ambientato sul mio paese: “ San Leucio del Sannio, ho conosciuto il nonno del mio bisnonno” (1997).
Pazientemente ho ricostruito l'esistenza di tutti i nuclei familiari (fuochi)
del paese indicando se proprietari o meno. Questo lavoro l'ho tratto dalle
visite pasquali che il parroco faceva annualmente e fotografava lo stato della
famiglia. Tante persone, maschi, femmine, servi, nati, morti
ecc… e con appunti per casi particolari, come carestie e morti in particolari
condizioni.
Partendo dal 1606, i
primi dati certi delle nostre radici, seguendo tre censimenti fino al 1890, ho ripercorso la vita di un nucleo familiare. Alla fine ogni
famiglia ha scoperto, andando a ritroso negli anni, il suo casato e nuove
parentele che ignoravano. E' stato un lavoraccio perché ho dovuto copiare dai
registri parrocchiali, scritti con calligrafie incerte e abbreviazioni da far
perdere il senno.
Il lavoro è durato circa
due anni e alla fine il comune (io come assessore alla cultura) ha pubblicato e
distribuito gratuitamente alla comunità. Il mio libro fu premiato in un
concorso dei comuni italiani a Montecelio Romano, classificandosi 5^ su alcune
centinaia.
Per qualche anno in paese
si parlò solo di questo libro e dei nonni, molte copie furono richieste dagli
emigranti in
Australia e degli Stati Uniti.
Con queste ricerche e con
le testimonianze degli anziani ho potuto ricostruire il nostro modo di vivere
fatto da tanta miseria e tanti soprusi dei piccoli proprietari e dai preti (su
2900 abitanti vi erano 11 sacerdoti).
Per quanto concerne le
fonti principali delle mie ricerche, oltre ai giornali citati, di Dumas e
altri, mi sono avvalso di quelle del mio primo libro
sul brigantaggio “Preti contadini e briganti…”.
Nella presentazione del
volume, il Prof. di Storia Antonio Gisondi
dell'Università di Salerno mi faceva rilevare che
molto avevo parlato della classe misera ma poco della classe dirigente del
tempo.
Forse fu una giusta osservazione,
ma immedesimandomi in due poveracci, uomini di paese e del popolo, questi non
avrebbero mai avuto l'opportunità di conoscere o confrontarsi con nobili, proprietari terrieri o l'alto clero. Il loro mondo,
per le loro condizioni, legati da una vita e per generazioni alla terra, era
distante dai palazzi anni luce. Per quanto concerne le fonti specifiche, vale a
dire la bibliografia e gli archivi da cui ho attinto le notizie per scrivere
questo romanzo, è piuttosto corposa, di autori
dell'epoca e di storici recenti, senza contare le ricerche dirette presso vari
archivi.
Ha ragione il prof. Gisondi, ma hai ragione anche tu, perché il basso ceto, soprattutto
all'epoca, non avrebbe mai potuto avere uno scambio di opinioni con chi lo
dominava. Tuttavia, il quadro che ne è sortito è più che esauriente, oltre a
essere esposto in modo scorrevole e accessibile. Nel leggere le pagine di
questo romanzo, che più che storico, definirei di didattica storica,
mi sono sorti alcuni dubbi, che ti pregherei di fugarmi.
Il tenore di vita della popolazione prima dell'avvento
dell'Unità d'Italia com'era? Era più o meno a livello
con quello degli abitanti del settentrione?
Esisteva una borghesia rampante, insomma un ceto medio abbastanza
corposo ed influente?
La malavita organizzata (leggasi mafia e camorra) aveva un peso
pari all'attuale?
Il tenore di vita della
popolazione meridionale prima dell'Unità doveva essere
leggermente inferiore a quello del nord, in particolare nelle campagne e nei
comuni.
Invece nelle città si
doveva equivalere sia nella cultura sia nel vivere quotidiano. Napoli, Bari,
Palermo, erano tre grandi città a livello europeo. Non dico Napoli che godeva di molti primati, con il maggior numero di tipografie
di altre città, il Teatro S. Carlo e aveva studiosi ed economisti a livello
europeo, ma anche altri grandi centri non erano da meno.
In alcuni paesi del nord
si moriva di “pellagra”, da noi si moriva d'inedia per
il poco pane. Le novità da voi erano percepite prima, da noi molto più in
ritardo.
Le famiglie per
progredire facevano del tutto per avere un figlio prete o avere qualche umile
lavoro dal signorotto del paese, il Marchese, il Conte… che per un pezzo di
pane seduceva la povera donna e poi magari la faceva sposare con un po' di dote
a qualche suo contadino (I promessi sposi).
Non esisteva una
borghesia rampante perché costoro si accontentavano di vivere intorno alla
nobiltà. Quest'ultima abituata a non lavorare ma ha vivere di rendita
proveniente dalla terra (coltivazione dell'ulivo, uva, grano …) o dai
latifondi, ha vissuto bene quando la rendita di stato era solida e costante
negli anni; in seguito con l'Unità e, la svalutazione, dalla terra non ha
ricevuto più nulla, non ha saputo capire i tempi e investire in altro come al
nord i conti Baroli, Ricasoli…
Al sud, come ancora oggi,
non abbiamo la cultura dell'industria, ma quella dell'artigianato e della
piccola imprenditoria.
Mafia, Camorra…hanno da
sempre condizionato l'Italia e ancora la condizionano.
Purtroppo, sia prima che oggi, lo Stato è stato sempre debole e a volte se n'è
servito (Vedi Rep. Napoletana (1799) con il cardinale Ruffo,
il ministro dell'interno L.Romano,
nella seconda guerra mondiale gli Stati Uniti con Luky
Luciano, i vari sequestri eccellenti e l'altro ieri… il patto scellerato…
Oggi poi la malavita si è
evoluta talmente che sta lasciando il sud per espandersi nell'opulento nord: “i camici bianchi”, sparano di meno ma uccidono di più.
Presto questo primato
sarà superato con l'arrivo della mafia russa e cinese e dalla crudeltà dei
popoli slavi.
Al sud finché esiste il
problema della “monnezza” (l'oro della malavita), la
mancanza dello Stato e una politica sociale moderna, la criminalità fiorirà
sempre, ora più che allora, in cui regnava la miseria.
E veniamo al triste fenomeno della corruzione, ora più che mai
dominante nel nostro paese. Si dice che siano stati i Savoia e Cavour a
introdurre la corruzione nel Regno delle Due Sicilie,
pagando ministri, generali e anche nobili, al fine di agevolare l'impresa di
Garibaldi. Al riguardo, ci sono prove incontrovertibili. Questa politica di
ungere le ruote era una costante del Regno di Piemonte, tanto quasi da essere
un marchio di fabbrica.
La domanda: in precedenza, il livello di corruzione era notevole o
modesto?
La corruzione è stata per sempre il male dell'uomo, antica come le
donne di malaffare. I romani ne fecero largo uso comprandosi re e condottieri.
Tutta la spedizione dei mille fu organizzata non da principianti o
semplici volontari sprovveduti, ma da gente raffinata, intelligente e da gradi
politici di ampio respiro.
Chi non era al corrente di nulla,ma
credeva nella giusta causa della libertà erano Garibaldi e i suoi volontari.
Nel XVIII e il XIX secolo la massoneria
mondiale era una grande realtà che influiva sulla politica delle nazioni,
sull'economia e sul modo di pensare dell'uomo (V. nascita degli Stati Uniti,
diritti dell'uomo e altri eventi ancora sconosciuti al popolo).
Anche i problemi della penisola furono influenzati e diretti dalla
massoneria inglese che finanziò la spedizione di Garibaldi con tre milioni di
franchi francesi in piastre d'oro turche per corrompere i ministri e i generali
borbonici.
Altri finanziamenti provenivano dalle offerte private e dai
comitati, disseminati in cento città, allo scopo di raccogliere denaro per
l'acquisto di un milione di fucili. I proventi a favore di Garibaldi venivano puntualmente registrati dal responsabile della
cassa, lo scrittore Ippolito Nievo e dai suoi collaboratori.
Guardo caso, la contabilità scomparve nel misterioso affondamento
del vapore “Ercole” che da Palermo era diretto a Napoli.
Nella disgrazia perirono duecentocinquanta garibaldini e andarono
persi i registri della contabilità e la cassa della spedizione. (Nievo portava con sé l'intera contabilità dell'intendenza
per la gestione dal giorno 8 giugno 1860 fino al 31 dicembre).
Si parlò di sabotaggio perché non si voleva far conoscere
l'intervento della massoneria inglese.
Il generale Franceso Landi,
quello dello scontro di Calatafimi, fu uno dei tanti
che per soldi tradì e mise in crisi l'esercito borbonico. Da tener presente
che, anche senza corruzione, i maggiori ufficiali dell'esercito di Francesco II
avevano una certa età e abituati più agli agi della corte che a vivere tra i
soldati.
In breve l'episodio:
“Dopo una giornata di duri combattimenti a Catalafimi
il settantenne generale Francesco Landi, con
quattromila soldati e l'artiglieria, senza aver subito gravi perdite, ordinava
la ritirata, davanti a mille uomini male armati e
quasi privi di munizioni, lasciando libera ai Garibaldini la strada per
Palermo (per questo comportamento fu accusato di tradimento e di essersi
venduto a Garibaldi per 14.000 ducati).
La corruzione ormai si era propagata in tutto l'esercito
borbonico. La truppa in Calabria era forte di 12.000 uomini, ma nessun Generale
prese l'iniziativa di affrontare Garibaldi. I soldati non condividevovano
l'atteggiamento codardo di chi li guidava, tanto che in un sussulto d'orgoglio,
durante la ritirata su Monteleone, i militari
uccisero il generale Briganti, indignati di dover fuggire davanti ad un nemico
inferiore per uomini e mezzi. Il fatto curioso è che alcuni gallonati dell'esercito
garibaldino si recavano giornalmente nel campo dei rivoltosi per parlamentare
con gli avversari. In questa situazione, dove la maggior parte degli ufficiali
tradiva o passava al nemico, con soldati sbandati, con un esercito
demoralizzato, fu facile l'avanzata delle camicie rosse. Da Reggio Calabria non
vi furono più combattimenti; interi corpi
dell'esercito si arrendevano senza sparare un colpo, come a Severia Manneli, dove si arresero
10.000 uomini . La propaganda piemontese ebbe un ruolo speciale.
Garibaldi era preceduto, nella marcia d'avvicinamento
verso Napoli, dalla leggenda dell'invincibilità. Tra gli uomini di Francesco II
incominciò a prevalere la rassegnazione e l'ineluttabilità delle cose. Napoli,
poi, aprì letteralmente le porte ai garibaldini senza sparare un colpo, anzi un
soldato gli presentò le armi. Prima dell'arrivo in città di “don Peppino”, così
lo chiamava Francesco II, nei negozi si vendevano da giorni camice
rosse e altri cimeli garibaldini.”.
Come vedi è una triste storia, una pagina di tradimenti e
corruzione di un Regno in decadenza e della nullità del suo ultimo discendente
borbonico “Francesco II” mai all'altezza del suo compito. Ebbe un sussulto di
orgoglio solo alla fine nella battaglia del Volturno e all'assedio di Gaeta. (veramente più che lui, l'eroina fu la giovane moglie
Sofia).
Per quanto su esposto, si potrebbe argomentare che era inutile far
versare tanto sangue ai sudditi del Regno delle due Sicilie
quando ormai non combattevano più e avevano accettato supinamente l'annessione
aprendo le porte ai vincitori.
Per completezza, osserviamo dalle colline la battaglia
(scaramuccia) di Catalafimi.
Calatafimi
Questa battaglia è ricordata da tutti per la famosa
risposta di Garibaldi a Nino Bixio: generale, temo che bisogna ritirarsi -
Bixio che dite? qui si fa
l'Italia o si muore. Qualche fonte vicina
al Generale riferì che Bixio, visto l'andamento
negativo della battaglia, chiese a Garibaldi di ritirarsi, ma questi rispose: ma dove ritirarci? Erano in una
situazione che non offriva possibilità di scelta: o si andava avanti o si
moriva. Di fronte e ai lati avevano l'esercito borbonico e sulle alture vi
erano bande di Siciliani, che attendevano l'esito del
combattimento per schierarsi con il vincitore.
Lo stesso Garibaldi rischia di essere ucciso.
Nel corso del combattimento, è ferito al fianco destro da un
sasso, lanciato da un soldato dell'ottavo battaglione Cacciatori dell'esercito
borbonico, perché il suo fucile, per ben due volte non ha sparato. L'episodio
potrebbe far sorridere o sembrare non vero, ma in una guerra insolita succedono
spesso cose bizzarre. Il militare, senza volerlo, aveva imitato il giovane Gian
Battista Perasso di Genova.
In questa giornata, un contributo di sangue lo
danno anche i religiosi, i frati francescani, al seguito di Garibaldi. Vediamo
in poche righe la descrizione di G. C. Abba, in Da Quarto al Volturno:
Macchiette nel quadro
grande, veggo quei francescani che combattevano per
noi. Uno di essi caricava un trombone con manate di palle e di pietre, poi si
arrampicava e scaricava a rovina. Corto, magro, sudicio, veduto da sotto in su a lacerarsi gli stinchi ignudi contro gli sterpi che
esalavano un odore nauseabondo di cimitero, strappava le risa e gli applausi.
Valorosi quei monaci, tutti, fino all'ultimo che vidi, ferito in una coscia,
cavarsi la palla dalle carni e tornare a far fuoco.
Abba ci parla di un incontro avvenuto il 22
maggio a Parco (Monreale) con padre Carmelo, nel corso del quale il religioso
mette in mostra tutta la sua saggezza e la filosofia del popolo
siciliano: le attese, le speranze e l'Unità d'Italia, la miseria, la
prepotenza dei più forti20.
Mi sono fatto un amico.
Ha ventisette anni, ne mostra quaranta: è monaco e si
chiama padre Carmelo. Sedevamo a mezza costa del colle, che figura il Calvario colle croci, sopra questo borgo, presso il cimitero.
Avevamo in faccia Monreale, sdraiata in quella sua lussuria di giardini; l'ora
era mesta, e parlavamo della rivoluzione. L'anima di Padre Carmelo strideva.
Vorrebbe essere uno di
noi, per lanciarsi nell'avventura col suo gran cuore, ma qualcosa lo trattiene
dal farlo.
- Venite con noi, vi
vorranno tutti bene.
- Non posso
- Forse perché siete
frate? Ce ne abbiamo già uno. Eppoi altri monaci
hanno combattuto in nostra compagnia, senza paura del sangue.
- Vorrei, se sapessi che
farete qualche cosa di grande davvero: ma ho parlato con molti dei vostri, e
non mi hanno saputo dir altro che volete unire l'Italia.
- Certo: per farne un
grande e solo popolo.
- Un solo territorio...!In quanto al popolo, solo o diviso, se soffre, soffre: ed
io non so che vogliate farlo felice.
- Felice! Il popolo avrà
libertà e scuole.
- E nient'altro! -
interruppe il frate: - perché la libertà non è pane, e la scuola nemmeno.
Queste cose basteranno forse per voi piemontesi: per noi qui no.
- Dunque
che ci vorrebbe per voi?
- Una guerra non contro i
Borboni, ma degli oppressi contro gli oppressori
grandi e piccoli, che non sono soltanto a Corte, ma in ogni città, in ogni
villa.
- Allora anche contro di
voi frati, che avete conventi e terre dovunque sono
case e campagne!
- Anche contro di noi:
anzi prima che contro d'ogni altro! ma
col vangelo in mano e colla croce. Allora verrei. Così è troppo poco. Se io
fossi Garibaldi, non mi troverei a quest'ora, quasi ancora con voi soli.
- Ma
le squadre?
- E chi vi dice che non
aspettino qualche cosa di più?
Non seppi più che
rispondere e mi alzai. Egli mi abbracciò, mi volle baciare, e tenendomi
strette le mani, mi disse che non ridessi, che mi
raccomandava a Dio, e che domani mattina dirà la messa per me. Mi sentiva una
gran passione nel cuore, e avrei voluto restare
ancora con lui. Ma egli si mosse, salì il colle si
volse ancora a guardarmi di lassù, poi disparve.
Nel corso del combattimento è ferito ad
un braccio anche il figlio di Garibaldi, Menotti, che reggeva il tricolore; fu costretto a passarlo ad un
compagno, ucciso poi da un soldato napoletano, un certo Angelo De Vito, il
quale s'impadronì del cimelio e lo portò quale trofeo a Palermo.
Dopo una giornata di duri combattimenti, il settantenne generale
Francesco Landi, con quattromila soldati e
l'artiglieria, senza aver subito gravi perdite, ordinava la ritirata, davanti a
mille uomini male armati e quasi privi di munizioni,
lasciando libera ai Garibaldini la strada per Palermo (per questo
comportamento è accusato di tradimento e di essersi venduto a Garibaldi per
14.000 ducati).
Questa sanguinosa battaglia segnò il destino della Sicilia; i picciotti,
che non si erano ancora apertamente schierati con i nuovi arrivati perché
incerti sull'esito della contesa, visto che l'esercito borbonico si ritirava,
incominciarono ad ingrossare le file dei Garibaldini.
Sulla vetta del colle denominato Pianto dè Romani, in memoria
della sconfitta inflitta dagli Egestani al console
Appio Claudio nel 262 avanti Cristo, sorge il monumento-ossario con l'elenco
dei 120 Garibaldini caduti in battaglia.
Il Cappellano militare del 9° Cacciatori dell'esercito borbonico,
Giuseppe Buttà, nella sua opera, riferì che il peso
della battaglia gravò solo su 500 unità delle quattro compagnie comandate dal
maggiore Sforza, mentre il resto della truppa, circa 3.000 soldati, si
trovavano a poca distanza, agli ordini del generale Landi.
In una prima fase il combattimento fu favorevole ai
soldati borbonici, i quali sbandarono le file dei Garibaldini e li misero in
fuga. Il generale Landi, che osservava lo scontro,
invece di mandare in campo forze fresche e dare una svolta decisiva alla battaglia,
ordinò la ritirata e cominciò a retrocedere verso Alcamo senza avvertire il maggiore
Sforza, impegnato nell'inseguire le camicie rosse. Lo Sforza, accortosi che le
munizioni stavano per terminare, vistosi abbandonato,
incominciò a ripiegare.
I Garibaldini, vedendo l'inatteso comportamento del nemico, si
riorganizzarono e, aiutati dalle squadre siciliane, presero ad
inseguire ed attaccare la retroguardia dell'esercito regio; da quel momento le
cose cambiarono totalmente a favore di Garibaldi. Questi riuscì a vincere
proprio nel momento in cui stava per essere sconfitto. Casi del genere si
ripeteranno in altre circostanze: da una probabile vittoria dell'esercito
borbonico nasce una sicura sconfitta!
……..
L'avvenimento descritto da un testimone oculare.
Da “I Mille” di G. Bandi: ...Pochi minuti prima di mezzogiorno, i soldati regi,
giunti in tre colonne sulle colline più basse, dinanzi alla nostra,
cominciarono a manovrare, spiegandosi e rispiegandosi, come se fossero sulla
piazza d'arme e come se tentassero di impaurire con una artifiziosa
mostra di forza e di disciplina le turbe degli - scomunicati ladroni - cui non
doveva sembrar vero il fuggirsene senza pagar lo scotto.
Garibaldi, seduto sempre
sul suo greppo, guardava tranquillamente quello spettacolo, esclamando di
tratto in tratto:- Per Dio! Come manovrano bene! Son belle truppe davvero!
Poi cominciarono a suonar
le trombe dell'ottavo battaglione dei cacciatori.
Il generale stette un
pezzo a sentir quella musica, fumando sempre il suo sigaro; e quando la musica
tacque, si volse a noi e disse: - Hanno buone trombe davvero! Facciamo che
sentano un po' la nostra. E soggiunse, volgendosi: - Dov'è la mia tromba? -
Son qui,
- rispose il trombettiere Tironi, (Giuseppe Tironi
era nato a Rotondi, un paesino della Valle Caudina - Avellino - nello stesso
paese era nato un altro trombettiere garibaldino, Pasquale Mainolfi,
che si distinse alla Breccia di Porta Pia) che
sedeva, pochi passi indietro, sull'erba. E Garibaldi a lui: - fate sentire a
quella gente la mia sveglia.
Ci guardammo in faccia
meravigliati, e credemmo che il generale burlasse; ma egli non faceva segno di
ridere, e il trombettiere intonò con chiara e sonante voce la stessa sveglia,
che nelle prime ore di quella mattina gli aveva procurato tanta lode e una
bella moneta da cinque lire.
In quel momento,
guardando col binocolo i cacciatori nemici che cominciavano a spiegarsi a mo'
di ventaglio, notammo che si fermarono all'improvviso, stupiti di quella
singolare cantilena della nostra tromba, tutta dolcezza e serenità. La
solennità dell'ora, il silenzio profondo della valle e la novità di quel suono debbono aver fatto credere ai napoletani, che qualche Fata
si pigliasse giuoco dei fatti loro, o che noi togliessimo a canzonarli, rispondendo
colle soavi modulazioni dell'idillio alle provocatrici note delle squille guerriere.
Dopo che il trombettiere
ebbe ripetuta la sua cantilena, Garibaldi gli fé cenno che tacesse, e disse a noi che gli eravamo
accanto:
- Adesso pensiamo a dar
due buone bastonate a quei signori.
Il cielo era sereno e
tranquillo, e non si udiva per tutta la vallata lo
stormire di una foglia.
I volontari erano distesi
sull'erba, guardando il nemico.
Avevo in quel momento accant'a me due bersaglieri, tre o quattro passi indietro
avevo Nino Marchese.
- Nino, - gli dissi - tra
qualche minuto sentirai fischiar le palle.
Sta' fermo e guarda me; e
quando vendrai ch'io salto giù, seguimi
senza paura e non fermarti sinché io no mi fermi.
Nino sorrise, e alzò il
cane della carabina.
A quel rumore, il
generale volse il capo, ed esclamò:
- Nessuno
faccia fuoco senza mio ordine! Tirare da lontano è segno di paura.
In quel mentre le trombe
napoletane suonarono avanti, e udimmo le voci dei capi-quadriglie ripetere i
comandi. Poi, dopo alcuni istanti, udimmo uno strano coro d'impertinenze, che
quÈ bravi cacciatori ci regalavano per antipasto,
mentre venivano innanzi gobbi gobbi,
come se andassero a caccia alle quaglie. Gridavano quei poveri soldatelli: Mo venimme, mo venimme, straccioni, carognoni,
malandrini. Un altro squillo di tromba, e le palle cominciarono a fischiare
sulle nostre teste...)
Per concludere credo sia opportuno fare
una sintesi: la massoneria, soprattutto quella inglese, decretò il successo
della spedizione dei mille, fornendo denaro per corrompere i comandanti
militari borbonici e anche i maggiori politici napoletani. Dunque,
il merito di Garibaldi viene ampiamente e, giustamente, ridimensionato.
Il Regno delle Due Sicilie, per quanto inetto fosse
il suo re, era pur sempre una realtà non dissimile dal Regno di Piemonte, che,
nel cosiddetto risorgimento, non si interessò di
sollevare gli italiani (e del resto nemmeno loro presero la cosa a cuore), ma
di annettere nuovi territori. Insomma, fu una guerra di conquista e non di
liberazione. E ciò è tanto più vero ove si consideri quanto avvenne dopo
l'annessione del Regno delle Due Sicilie, considerato
una vera e propria colonia, con un marcato impegno a depredarla e a trattare i
suoi abitanti alla stregua di selvaggi incivilizzabili. Ci fu indubbiamente un
tentativo di restaurazione della precedente monarchia, ma furono anche la fame
e le promesse disattese ad accendere quel fenomeno che troppo sbrigativamente,
e per celarne la natura, fu chiamato “brigantaggio”. Una guerra per bande, sanguinosa
e feroce, che costò ai meridionali un numero imprecisato di vittime, ma che
alcune fonti fanno ascendere a più di centomila, se non addirittura
duecentomila. Si venne a determinare così una generale sfiducia verso lo stato
che diede inizio a quel fenomeno, tuttora in essere, denominato più
genericamente “La questione meridionale”.
Concordi e hai qualcosa da aggiungere?
Concordo pienamente la tua disamine.
L'argomento Unità d'Italia non è facile da trattare. Di luoghi comuni ce ne
sono tanti ma se approfonditi riemergono dei particolari che forse per la
coscienza umana è meglio ignorarli. La politica di oggi e quella di ieri si differenzia di poco. Il più forte comanda e segna i confini
di sua convenienza.
Di tutto il Risorgimento italiano vi sono personaggi che vanno
messi sugli altari della gloria ed altri che sono
stati delle meteore che hanno seminato solo morte e miseria.
Garibaldi l'idealista, l'eroe del tempo, la star europea, l'uomo
che entusiasmava i giovani, li faceva sognare, fu utilizzato e spremuto come un
limone e poi messo da parte e confinato nel suo eremo di Caprera, a volte
sorvegliato a vista dalla flotta piemontese.
Cavour
intelligente e cinico, vero uomo di stato senza scrupoli e senza anima, Mazzini
il filosofo, l'educatore ma con mancanza si senso pratico. Vittorio
Emanuele l'uomo di facciata, lontano dai meridionali anzi li disprezzava.
Francesco II, troppo ingenuo e “ fesso”
per il suo ruolo, anche se onesto.
Il generale Cialdini l'uomo che ha sulla coscienza migliaia di
vittime e soprusi.
Così Pietro Zuzolo e Ciccillo
Esposito videro i maggiori protagonisti del tempo.
Dispiace fermarsi, perché l'argomento merita di essere
ulteriormente trattato, ma bisogna pur arrivare al termine onde non stancare i
lettori, che, d'altra parte, qualora fossero intenzionati ad approfondire o a
saperne di più, potranno trovare ampia soddisfazione in questo tuo libro.
Quindi mi accommiato, con l'augurio di
successo per L'altra faccia dell'unità d'Italia, opera senz'altro meritevole
di attenzione.
L'altra
faccia dell'unità d'Italia
1860 –
1862
di Pietro Zerella
Copertina di Wenzel Franz
Marco Del Bucchia Editore
www.delbucchia.it
Narrativa romanzo storico
Collana Vianesca/Poesia e narrativa
Pagg. 196
ISBN 88-471-0550-8
Prezzo € 15,00