Franz Krauspenhaar
Biscotti
selvaggi
Intervista di Giuseppe
Iannozzi
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Biscotti
selvaggi – Franz Krauspenhaar
– Marco Saya edizioni
– collana poesiaoggi – prima ediz. 2012 – ISBN
978-88-907500-7-6 – pagine 86 – prezzo: € 12,00
1. Dunque, Franz, la tua ultima silloge
poetica ha un titolo che colpisce dritto alla bocca dello stomaco: “Biscotti selvaggi” (Marco Saya Edizioni). Un
poema all'amore, e alla ribellione. Non ho trovato nei tuoi versi dei
possibili raffronti con altri poeti, vale a dire che la tua poesia è tanto
originale quanto selvaggia. Sei un demolitore di idoli:
dai tuoi cazzotti in versi non esce quasi nessuno vivo o a testa alta. E forse
c'è più ribellione che non amore nei tuoi “Biscotti selvaggi”. Spiegami: sei un
demolitore di idoli? Perché tanta ribellione? Chi o
cosa ti ha portato a scrivere questo poema?
Comincio dalla fine. E'
stata la fame di scrittura che mi ha portato a Biscotti selvaggi. Ero fermo da parecchio tempo, di solito
ho sempre qualcosa in cantiere e invece da molto mesi
non avevo nulla. Ero abbattuto e frustrato; poi a ottobre, d'improvviso, questi
biscotti (una ribellione casalinga, si potrebbe chiamare) si sono cotti quasi
da soli, in dieci giorni. Sulla demolizione non so, ho parecchie antipatie
culturali e umane. La ribellione è un modo per sopravvivere. Sono politicamente
un astensionista. Non potendo/volendo usare la violenza, mi astengo dal voto.
Un'astensione nervosa e violenta.
2 Posso
chiederti perché eri “abbattuto e frustrato”?
Solo colpa del fatto che forse eri incappato, per la
prima volta, nel tipico blocco dello scrittore?
Un po' perché non
riuscivo a scrivere, un po' perché gran parte dell'editoria italiana aveva
respinto il mio ultimo romanzo. Sì, era un vero e proprio blocco, per la prima
volta coriaceo, quasi senza speranza.
3. Immagino tu non abbia una gran opinione dell'editoria italiana, o sbaglio? D'altro
canto non posso darti torto: si pubblica l'inutile e il superfluo, migliaia di
stronzate solo perché scritte da veline calciatori
presentatrici… Si pubblicano libri che, in realtà, in molti casi, sono
scritti da ghostwriter. Sei dell'opinione che la
cultura nel nostro paese sia morta? E se sì, per colpa di chi?
Sì, ma è tutto sbagliato,
tutto da rifare, come direbbe Gino Bartali. Ci sono anche editori che fanno
cose valide, ma in genere si cerca il facile, che poi spesso è anche il banale.
L'editoria italiana è in crisi, soprattutto di coraggio. La cultura in Italia
non è morta, ma certo è la parte del sentire che viene
falcidiata per prima, che viene messa in prima linea in attacchi suicidi da
prima guerra mondiale; io non ho nulla contro i libri dei comici e dei
presentatori, ci sono sempre stati, più o meno; sono contro una politica
editoriale che premia questa gente e la romanzeria midcult, quella che io chiamo “la finta pelle”. Si continua
a far cultura, in Italia, anche con i grandi editori, ma la mia impressione è
che ci siano dietro le solite clientele, che come al
solito non si giudica per merito. Poi è vero che le grandi talvolta pubblicano
dei grandi libri; ecco perché non posso dire che la cultura è morta. E' morto
un certo modo pulito di fare mediazione culturale, piuttosto.
4. “…e se fosse possibile
seppelliamo Bukowski, questo vecchio porco che ha esagerato in tutto, così mi
dicono che faccio il buk ora…”: così scrivi in
“Biscotti selvaggi”. Eppure Buk dovrebbe esserti
(idealmente) vicino: anche lui, come te, ha sbattuto la testa contro i muri per
dar voce a una sua personale ribellione.
Ma certo. Tu sai benissimo che i
rapporti, anche con chi non si è conosciuto, anche o soprattutto con i defunti,
sono difficili, mai lineari. Buk rappresenta per me
le origini, è uno dei miei padri letterari, e per questo verso lui ho un amore-repulsione. Nel poemetto scelgo Kenneth Patchen, un poeta in fondo simile a lui, perlomeno
nell'isolamento, nell'essere una monoposto che corre a
300 all'ora solo per se stessa, senza stare in alcuna scuderia. La mia
percezione di Bukowski negli anni è cambiata, ma posso affermare che una certa
repulsione in qualche modo me lo fa più vicino. Fa parte di tutta una schiera
di scrittori delle origini che ora respingo, in una
specie di soprassalto di maturità raggiunta. Sono come il diciottenne che si
sente emancipato dai genitori e gira tutto soddisfatto sulla sua macchina
sportiva appena comprata coi risparmi di anni di
lavoretti.
5. Non temi che questo tuo sentirti oggi
“emancipato” possa condurti verso un isolamento tanto sociale quanto culturale?
No, non credo. Ho
rapporti con tanta gente, sono isolato fino a un certo punto, ho compagni di
strada.
6. Non credi dunque che l'amicizia o
l'amore possano essere sentimenti validi per tutta la vita. E' così?
Al contrario. Tutto è
mobile, ma non nego che per alcuni possa essere per sempre. Dovrebbe esserlo. Ma il mondo non è quello di una volta. Di quando eravamo
bambini, intendo.
7. Io non me lo ricordo tanto migliore il
mondo di ieri, che poi, a ben vedere, è dietro l'angolo. In verità trovo che ieri i rapporti fossero maggiormente regolati da
una falsa moralità, per cui anche se un amore era sbagliato, per non andare
incontro alle chiacchiere della gente… Ma forse sbaglio!
No, secondo me non sbagli affatto. Il problema è che allora eravamo
piccoli, più idealisti del normale, senza grandi esperienze. Stavamo in un
bozzolo. Io sono nato a Milano nel 60, la mia infanzia ha aderito perfettamente
a quell'epoca, dal boom alla congiuntura alla protesta giovanile alla nuova
crisi, quella che porterà al terrorismo. Tutte queste cose un bambino, nella
sua povera quotidianità, le sente, e forse tutte
queste cose sono ingredienti che senza saperlo ho messo insieme ad altri per
impastare lo scrittore che sono oggi, e che sono anzi da una dozzina d'anni,
perché ho scelto questa strada, dopo tanti tentennamenti, solo a 40 anni,
insomma in modo sofferto, quasi all'ultimo minuto, spiazzato dalla vita, in un
certo senso. Dunque quello che dici sui rapporti credo sia più che giusto, ‘ma ciò che cambia siamo noi che cambiamo, o
meglio che ci modifichiamo a volte, o spesso, per sopravvivere'.
8.
In
“Biscotti selvaggi” citi anche David Foster Wallace.
Anche di lui, mi pare, tu non abbia una grande opinione. A dirla tutta, non ho
mai amato granché Wallace, se non per i racconti, che, a mio avviso, sono la
sua produzione migliore; ciononostante non ho mai pensato a Wallace come a un
peso massimo della letteratura né mi ha sconvolto che abbia deciso di farla
finita. Franz, a te è mai passato per la testa il pensiero di dire “ora basta,
decido io e decido che è venuto il momento di scrivere la parola FINE”?
Sono stato anche molto
male, però non ho mai pensato al ‘salto'. Piuttosto,
nei momenti di più scura depressione m'era venuta la
paradossale paura di poter arrivarci. Insomma, aver paura di se stessi nel
tempo. Su Wallace sono d'accordo con te. E' lo “scrittore intelligente” per
forza, e pur ammirandone l'intelligenza e la capacità di cambiare pelle davvero
straordinaria, non mi ha mai conquistato. Io quando ho saputo che s'era ucciso ci sono rimasto male; sono cose che mi
inquietano, in ogni caso, chiunque prenda questa decisione. Una decisione
parzialmente voluta, perché Wallace era arrivato all'ultimo stadio della
depressione: quella dell'incurabilità.
9. Hai accennato
alla “protesta giovanile”, alla “nuova crisi, quella che porterà al
terrorismo”. Il momento storico che stiamo vivendo, o che stiamo
subendo, è anche versato nella protesta giovanile e, ahinoi, in un ritorno a un
terrorismo che, ingenuamente, si credeva appartenesse al passato punto e basta.
Può la poesia, la ribellione in poesia, far sì che la
società aggiorni la propria coscienza? E: può la poesia curare il poeta che la
porta sulla pagina per se stesso ma anche per donarla a chi vorrà leggerla
assimilarla e farla propria?
La poesia può agire
singolarmente e per pochi. E non perché sia prodotta per pochi, almeno la mia
non lo è: parla di cose concrete, è prosastica, non cerca l'effetto per l'effetto; solo che la poesia è poco letta, poco divulgata.
Una specie di voce sola, spiegata in un enorme palazzo vuoto o, quando va bene,
semivuoto. Io, realisticamente, credo che la poesia non abbia alcun potere, che
non possa cambiare alcunché. La poesia è un grido a
vuoto, come quello di Antonia Pozzi, nient'altro. Un grande
grido, pieno di significato, di sfumature, pieno di grandezza, ma alla fine
vuoto, disperso contro la montagna del disinteresse.
10. Da come parli sembrerebbe quasi che la
poesia sia poi solo un grido che si perde nella vuotezza d'attorno. E sono
d'accordo. Allora, perché fare poesia? Per sé stessi,
per dar sfogo alla propria rabbia punto e basta? Forse meglio sarebbe pensarla
la poesia, lasciarla nascere e morire nel nostro ‘io' invece di perder del
tempo per aggiustarla, metterla in bella forma, e tentare anche di pubblicarla!
No, Beppe, la poesia o si
scrive o si lascia perdere. Si scrive per necessità,
per amore, per disperazione. E' un fatto serio. E' un modo per comunicare. E'
un grido che va fatto. Mai tenere un grido nella gola. Porta alla morte. Il
grido poetico è vita.
11. Dalla tua ultima risposta, mi sembra
di capire che la poesia, al momento, è la forma artistica che ti sta dando
maggiori soddisfazioni e che, or come ora, meglio si adatta alle tue esigenze
espressive. E' così?
No, amo anche il romanzo.
Forse con la poesia sono più soddisfatto perché mi ci sono cimentato da poco,
il primo libro di poesie è del 2009.
12. Tra le tante etichette che mi porto
addosso c'è anche quella di ‘poeta' che però io ho sempre ricusato con forza. Ma questa è un'altra storia, che in realtà mi serve solo per
introdurre la prossima domanda: hai cominciato a scrivere poesia relativamente
tardi… Quali sono stati, o sono ancor oggi, i poeti che, per un motivo o per
l'altro, ti emozionano, e, soprattutto, perché?
Tu, Franz Krauspenhaar, ti ritieni un poeta tout
court?
Sono uno scrittore, nel
senso che mi occupo di scrittura su vari fronti. I poeti che mi emozionano sono
tanti. Ho cominciato con i tedeschi del 900, letti e riletti, da Rilke ai poeti sperimentali degli anni 70; poi sono passato
ai nostri grandi, Montale, Pagliarani, Giudici e
altri; in seguito ho cercato più indietro nel tempo, proprio quando la poesia
ha fatto uno scarto enorme, è diventata “moderna”. Baudelaire è stato il più
grande, sarà il più grande. Come Tazio Nuvolari, di
cui Ferdinand Porsche disse che “è il pilota più grande del passato del
presente e del futuro.” Baudelaire è insuperabile, proprio per quanto è cesura,
rigoglio, novità estrema e unica.
Ovviamente non dimentico gli americani, i beat, come Gregory Corso, maestro
inarrivabile, e quel Kenneth Patchen di cui dicevo
prima, e Bukowski, così originale. Lui è stato un poeta geniale, a mio avviso
c'è uno scarto notevole tra il Bukowski romanziere e il poeta. Quest'ultimo è
molto più grande.
13. Kenneth Patchen.
Perché ti è tanto caro Kenneth? E' la seconda volta che lo citi nel corso di
questa intervista.
Potrebbe stare tra i beat
e invece se ne discosta. E' molto inquietante, a volte. E' originale, sembrano
scritte oggi le sue poesie. I beat quasi sempre sono
datati. Meravigliosamente datati. Poi c'è Ferlinghetti.
A costo di essere scomunicato da Dio in persona, dico che Lawrence è stato
molto migliore come editore che come poeta. E' stato al gioco.
14. Mia opinione personale: Hank poeta ed Hank scrittore erano poi la stessa cosa e la stessa
persona. Non trovo che il poeta fosse superiore allo
scrittore. Ed è anche mia opinione che senza Hank non ci sarebbero stati né
John Fante né Raymond Carver, anche se quest'ultimo è stato molto
sopravvalutato. Fortuna che adesso stanno ristampando le opere di Carver senza
i pesantissimi e ingombranti interventi di Gordon Lish,
suo editor.
Su Carver sono d'accordo,
su Fante un po' meno; a me risulta che questi fosse l'eroe di Hank, e non
viceversa. Certo, il poeta e lo scrittore erano la stessa cosa, due facce della
stessa medaglia. Dico soltanto che le poesie mi
piacciono più dei romanzi (così forse evito fraintendimenti).
15. Sì, Fante era uno degli eroi di Buk. Uno dei pochi eroi che aveva. Intendevo solo dire che
scrittori quali Fante, Bukowski, Carver, a ben vedere, è
come se facessero tutti parte d'una piccola grande famiglia.Ma tu, Franz, credo in Dio? Hank, ad esempio, scherzava
con la morte. Ha lasciato molte poesie, affinché venissero
pubblicate dopo la sua morte. Un modo come un altro, per
Hank, di farsi beffe della nera falciatrice e di Dio anche.
Una grande famiglia, sì.
Per niente agghindati. Gente con i calli alle mani e una fantasia incredibile,
capaci di passare dalla cupa autobiografia a una visionarietà quasi alla Hyeronomus Bosch. Parenti di
Henry Miller ma parenti serpenti. Io sono un uomo alla
ricerca, caro Beppe. Tendenzialmente sono teso verso Dio, il Dio dei cristiani
per intenderci. Un Dio che può anche trasformarsi in quello degli ebrei, dei
musulmani, di altre religioni. Se Dio è misericordioso, può anche cambiare,
spostarsi, non essere affatto identico a se stesso.
Amo le religioni fintantoché non diventano giogo mentale, ideologia, estrema
scusa per esercitare un potere. Dunque sono un
agnostico con forti simpatie per il Dio cristiano e non solo. Ma sempre
agnostico rimango, come mettere i piedi a terra. Non è
bello. Ma finisco sempre così, non dimenticando che domani è
un altro giorno e sarà anche un nuovo giorno per provare a credere. Insomma,
sono entrato in questo tunnel che somiglia ancor più a una montagna russa. Su e giù dal vedere Dio nella propria mente. Una tensione
che mi accompagna da tanti anni. Da un punto di vista umano non capisco
l'integralismo, e soprattutto l'ateismo. Non ho nulla contro, salvo quando un
ateo mi dice con sufficienza che lo so anch'io che non c'è niente, che tutto si
risolve qui, e finisce in nulla. Ecco, questa sicumera mi fa abbastanza
innervosire. Meglio un credente, perlomeno, se è modernamente credente, ci
indica una speranza, un cammino. Anche per me scrivere poesie è un modo per
combattere la morte. Ma non penso al dopo. Finché
posso, amo vederle pubblicate, come fossero stazioni di un viaggio il più lungo
possibile.
16. Rischiando forse di entrare nella tua
più che sacrosanta privacy, cercando di fare in punta di piedi, caro Franz, so
che di recente non sei stato molto bene e che hai rischiato forte. La vicinanza
alla morte ti è stata in qualche modo utile a comprendere te stesso e quello
che desideri veramente dalla vita? Non hai mai pensato di poter metter su
famiglia? In “Biscotti selvaggi” accenni all'idea di un figlio; però è come se
temessi che per te è oramai troppo tardi.
Sì, caro Beppe, l'infarto
mi ha cambiato, ho riflettuto sulla mia solitudine,
che in effetti non ha più molto senso. Mi piacerebbe cambiare, essere stabile
negli affetti. Nel libro mi rendo conto che le mie paure continuano a
bloccarmi, continuo a stare in bilico fra
trasgressione e necessità di fermarmi. Mi consola il fatto
che ognuno ha i suoi tempi di maturazione e cambiamento. La vicinanza
alla morte mi ha fatto scrivere il romanzo rimandato al mittente da più parti,
a volte con motivazioni risibili, non degne dei marchi editoriali di coloro che
“motivavano”. E' come se una grande squadra come l'Inter nella sua campagna
acquisti comprasse solo dei brocchi. Ecco, nel calcio questo può succedere una tantum, ma poi diventa impossibile; in editoria è la
norma. Un'editoria di brocchi, spesso giovani e pieni di spocchia. Gente che
non sa un cazzo di cosa sia l'esistenza, la vita vera, e quindi la letteratura.
17. Il mio augurio, caro Franz, è che il
tuo stato di salute, oggi, nonostante tutto quello che hai passato, sia
ottimale, così tanto ottimale da farti decidere di
metter su famiglia se questo è uno dei tuoi desideri, una famiglia che ti ami e
che ti rispetti per quello che sei in realtà. Purtroppo, sono anni che vado
dicendolo a destra e a manca: l'industria editoriale funziona ma funziona male. Non conosco quelli che sono i contenuti del
tuo romanzo ancora senza un editore. Avresti voglia di
raccontare, anche solo per sommi capi, di cosa parla?
Certo. Il romanzo narra
in prima persona di uno scrittore cinquantenne (un mio alter ego) che ha avuto
un infarto e si ritrova in ospedale per la riabilitazione. Lo scrittore deve
fare i conti per la prima volta con l'uscita da un tunnel pericoloso. E' un
maniaco del vintage: per lui tutto si ferma al 1990, non usa dunque il
computer, ma bensì la macchina per scrivere; viaggia
solo su auto d'epoca, mette vestiti da collezione, ascolta musica anni 70 e 80;
e nel frattempo inizia a vedere e sentire cose che non esistono; ha delle
allucinazioni uditive e visive. Vede il padre morto nelle sembianze di una
lepre gigantesca che corre per l'autostrada dei laghi; fa viaggi nello spazio e
nel tempo, finendo addirittura in una futuro remoto,
probabilmente nel corpo di uno sconosciuto, per pochi lunghissimi minuti. Insomma,
lo scrittore, diviso con se stesso su tutto, autore anche di libri gialli sotto
falso nome che l'hanno arricchito, va avanti a viaggiare nel tempo e nello
spazio finché… beh, questo non lo dico.
18. Il romanzo, per quel che ho avuto modo di capire, è quello che potremmo definire di
una possibile oltreché augurabile ‘svolta'. Fossi in te
non demorderei. Prima o poi un editore interessato lo
troverai. Franz Krauspenhaar non è un nome
sconosciuto.
Un'ultima domanda prima di chiudere. In “Biscotti selvaggi”, tra i tanti versi
da te scritti, questi mi hanno colpito in particolar modo: “…io ho ancora la
certezza di essere un vero, lercio borghese distrutto, che da ragazzo andava
alle scuole private, che non aveva un cazzo di problema perché mio padre e mia
madre risolvevano tutto”. Oggi i problemi te li devi risolvere da te, credo e
temo che su questo non ci piova; ma cosa significa, oggi come oggi, “essere un
vero”?
Beh, significa mantenere,
nonostante tutto, un livello di educazione che nemmeno le più atroci bestemmie
riescono a scalfire. Nascere borghesi significa morire borghesi.
In mezzo, ci può stare tutto e il contrario di tutto, ma la visione è sempre
crudelmente distaccata, se vuoi a un passo di distanza – parafrasando Flaiano –
dal cinismo.
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