Intervista
di Renzo Montagnoli a Ferdinando Camon, autore del
romanzo La vita eterna, edito da
Garzanti.
Perché il titolo La vita eterna?
In quel libro, come nel
precedente (“Il Quinto Stato”), descrivevo una civiltà antichissima, e che
pensavo (si pensava) sarebbe durata a lungo. Secondo Darwin, l'agricoltura
inizia con la formazione dei primi villaggi, nel neolitico. La civiltà
contadina è morta con l'inizio del Novecento. Un poeta francese, Charles Péguy, ha scritto che “la fine della civiltà contadina è il
più grande evento delle storia, dopo la nascita del
Cristo”. Sono d'accordo. Con la fine della civiltà contadina morivano un tipo
di famiglia, una religione, un'idea di lavoro e di risparmio, un'idea di Dio,
di morte e di dopo-morte: i pilastri che sorreggono la civiltà. Io ero nato nel
cuore di questa civiltà, e la vedevo funzionare intorno a me; non avevo la
visione, la sensazione, che sarebbe sparita di lì a poco. Scrivendo “Il Quinto
Stato” e “La vita eterna” ero convinto di descrivere forme di lavoro, di fede,
di culto dei morti, paura del diavolo, autorità dei vecchi, che avrebbero
condizionato tutta la mia vita e poi quella dei miei figli. Era una civiltà
arretrata, isolata e separata. Chi viveva dentro quella civiltà non conosceva
la civiltà opposta, della tecnica, dei consumi, delle città e del divertimento:
la scoperta di questa civiltà arrivò con la radio e poi la televisione. Le
campagne guardavano incantate specialmente la pubblicità, specialmente la
striscia pubblicitaria chiamata “Carosello”: lì vedevano i bagni con le
piastrelle, il sapone profumato, l'acqua in casa, le biciclette col motorino.
Fu una rivoluzione. La civiltà contadina era più umana, più solidale, più
cristiana della civiltà borghese, dei consumi, che irrompeva nella storia: ma
il confronto fra civiltà non avviene sul piano dei valori, avviene sul piano
della forza, soprattutto economica. La civiltà urbana e borghese era
enormemente più forte della civiltà contadina, e la spazzò via. Adesso nelle
campagne non ci sono più contadini. Ci sono industriali della terra,
allevatori, frutticultori. Nella civiltà contadina,
l'uomo lavorava la terra con le mani o con gli animali. Oggi la lavora con le
macchine. La civiltà che credevo eterna è morta.
Devo aggiungere, almeno dal mio punto
di vista, che la morte della civiltà contadina è anche un arretramento dal
punto di vista spirituale, soffocato da concetti di tempo e di natura al
servizio dell'uomo, concetti del tutto infondati e di cui già cominciamo a
pagare le conseguenze. Non è che la civiltà da lei descritta rappresentasse
l'optimum assoluto, perché l'indigenza, le difficoltà del vivere erano palesi.
A mio vedere, l'avvio dell'attività industriale avrebbe potuto migliorare le
condizioni dei contadini, quale supporto alla loro attività, se invece poi non
fosse sfociata nell'industrialismo e come sua naturale conseguenza nel
consumismo. Come al solito la mancanza di equilibrio degli uomini si ritorce
sugli stessi, al punto che ho il fondato timore che ci possa essere un ritorno
a quel periodo iniziale del medioevo del tutto buio e bestiale. Lei che ne
pensa?
Il passaggio dalla
civiltà contadina alla civiltà industriale non è stato un viaggio verso una
condizione più umana, più buona, più etica. Come dicevo,
la civiltà contadina aveva più virtù, più valori. Ma è stato un viaggio verso
un maggior benessere. Nessuno, tra coloro che han vissuto nella vecchia
civiltà, vorrebbe tornare indietro. E io appartengo a loro. Pasolini ha
confessato la sua nostalgia per la civiltà che finiva, e il suo rifiuto della
civiltà che avanzava, in un articolo famoso, noto come “il discorso delle
lucciole”, perché terminava con la frase: “Io darei tutta la Montedison per una
lucciola”. E' un articolo pubblicato sul “Corriere della Serra” e poi raccolto
nel volume “Scritti corsari”. (Diceva Montedison e non
Montecatini, perché c'era già stata la fusione tra la Montecatini e la Edison). Voleva dire che
una lucciola è la bellezza, la
Natura, gli animali, i prati, l'erba, il dialetto, mentre una
fabbrica è il cemento, lo sfruttamento, l'operaio, il padrone, il sindacato, la
macchina: l'artificiale al posto del naturale. E' vero, è così. Ma una fabbrica
vuol dire anche stipendio, termosifoni, acqua corrente, qualche soldo, fine
delle malattie della povertà. Nessun ex-contadino diventato operaio è d'accordo
con Pasolini. E' stato giusto uscire dalla povertà, perché la povertà era
malessere. Noi siamo passati dal malessere all'alienazione, ma il rimedio non
sta nel tornare indietro, ma nell'andare avanti. La Storia funziona così.
Se ascolto la logica non
posso che darle ragione, ma il mio cuore sostiene Pasolini.
Mi scuso per la
divagazione, ma il tema da lei trattato è di rilevante importanza, perché ci
riguarda tutti. Questa civiltà arcaica, che lei ha descritto, mi consenta il
termine, in modo stupendo, al punto che leggendo vedevo, sentivo gli odori,
udivo le voci di uomini e di donne che parlavano lentamente in dialetto, è
rimasta immobile nel tempo, tanto che la sua narrazione, pur spaziando, non in
ordine cronologico, dal medioevo alla seconda guerra mondiale, a dimostrare
quasi che nulla era mai cambiato e che mai nulla aveva turbato questo lungo
silenzio, ha improvvisamente un sussulto, un urlo muto, perché se lei non
l'avesse scritto sarebbe stato sconosciuto ai più. La resistenza di questi
partigiani contadini, fatta senza retorica, di azioni mai celebrate e di tante
vittime per la feroce repressione sono un tentativo di riscatto di questi
umili, di questi ultimi, è la reazione di una civiltà immobile e anche chiusa
che non può tollerare, in aggiunta alla miseria, le barbarie.
La mia domanda è questa:
già in passato questi contadini erano stati sottoposti alle angherie dei
diversi occupanti, ma non si erano ribellati. Come mai allora questa reazione
durante l'occupazione nazista?
No, non è stata una
reazione al nazismo. Nelle campagne non si sapeva niente dei nazisti, e tra
l'altro nessuno mai li chiamava così. Erano “tedeschi” e basta. Non c'è stata
una “Resistenza Contadina”, come da qualche parte, e su qualche libro, si
sostiene. Forse in Emilia-Romagna i contadini avevano una qualche coscienza di
monarchia, repubblica, dittatura, democrazia, partiti,
partito comunista, ed elezioni. I contadini veneti, le campagne venete, e posso
anche dire tri-venete, dell'area che adesso si chiama Nord-Est, non avevano
coscienza politica. Si sono ribellati ai nazisti perché i nazisti erano
crudeli. Perché i nazisti torturavano e impiccavano. E bruciavano fattorie. Io
ho assistito a un'impiccagione, sul ponte del mio paese, e ho avuto un parente
impiccato, sul ponte di un paese vicino. Non ho molto da accusare, in
proposito, perché questo parente, di vent'anni, era effettivamente un
partigiano, i tedeschi avevano avuto una spiata, credo anche di sapere da parte
di chi, lo hanno prelevato a casa sua, lo hanno portato sull'argine, sotto il
ponte, e gli hanno messo il cappio al collo: volevano sapere i nomi di tutta la
banda, e gli promettevano: “Se tu non parli, noi
‘piccare”. Lui aveva le mani legate dietro la schiena, e il cappio al collo, ma
ogni volta che un tedesco gli capitava a tiro, gli tirava un calcio sugli
stinchi e rispondeva: “Non parlo, ‘picchéme”.
Lo hanno impiccato. C'è una lapide lì accanto al ponte, col suo nome. Fino a
qualche anno fa, davanti alla lapide passava il guardrail e il nome veniva
nascosto, non si vedeva. Ho scritto al sindaco, chiedendogli di tagliare il
guardrail, o alzare la lapide, in modo che il nome si legga: ha alzato la
lapide.
Ma i partigiani non avevano ideologia, cultura, conoscenze politiche. I
tedeschi erano odiati da tutti perché quelli che andavano per le case,
interrogavano, prelevavano uomini, erano SS, bastonavano e uccidevano.
Incendiavano le fattorie con una certa facilità: non occorreva che scoprissero
qualche partigiano che dormiva nel fienile, bastava che avessero il semplice
sospetto che qualcuno era passato di lì di nascosto. Per scavare trincee lungo la Linea Gotica avevano
prelevato dalle case tutti i maschi in età da lavoro, anche quelli esonerati dal servizio militare. La lotta che va
sotto il nome di Resistenza Contadina fu una reazione feroce
a una dominazione feroce. I tedeschi combattevano per il dominio,
i contadini reagivano per l'autodifesa. E' vero che molti contadini ospitavano
partigiani a dormire nei fienili, ma a pagamento.
Adesso comprendo meglio i motivi di un breve urlo dopo secoli di
silenzio. Lei prima ha citato Pasolini che, se non vado errato, dovrebbe aver
scritto la prefazione del suo primo libro (Il Quinto Stato). E' un autore che
stimo soprattutto come poeta e anche lui ha per lo più descritto i reietti
della terra, le periferie misere, vagheggiando il ritorno a un mondo più
statico e umano. Perché l'uomo non è
capace di crescere se non cancellando il suo passato? Tenga presente che, secondo
me, in questo modo vive male il presente e non riesce a costruire un futuro
equilibrato .
Ho molta gratitudine per Pasolini, che fu mio padre non una volta ma
tre. Scrisse la prefazione al mio primo romanzo, poi alle mie prime poesie,
infine scrisse un articolo di critica sul mio primo libro di critica. Io non
mandai “Il Quinto Stato” in lettura a lui, lo
mandai direttamente all'editore, perché ritengo che si faccia così. L'editore lo girò a Pasolini per avere un giudizio, e Pasolini mi
telefonò una mattina prestissimo, verso le 5 (stava andando a montare un film),
per dirmi: “Io non vorrei dire: “Sì, si stampi; vorrei scriverci la prefazione,
se lei non ha niente in contrario”. Assonnato e confuso, risposi: “Mi
onora”. Mandò la prefazione non a me, ma all'editore. Per leggerla, presi
il treno per Milano, la lessi dritto in piedi in una
stanzino, intorno a me i 5-6 dirigenti della casa editrice, e risposi: “La
accetto”. Era una prefazione bellissima e sbagliatissima.
Sbaglatissima perché esprimeva la speranza che il
mondo contadino restasse così com'era, in mezzo a una civiltà opposta e ostile:
sarebbe stato come un ospedale in mezzo a un'epidemia. Scrivere questo, però,
avrebbe significato fare dell'arcadia. Le campagne volevano cambiare. Volevano i
consumi. Volevano soldi, auto, acqua corrente, riscaldamento, riposo
settimanale. Io ho descritto le campagne com'erano, come pativano, come
speravano. La campagna veneta non era molto diversa dalla
campagne francese, dalla meseta, dalla pampa, dalla puszta. Se il libro venne
subito tradotto in vari paesi, il merito non è mio, ma del mondo che descrivo.
C'erano molti paesi fratelli del mio, che nella mia descrizione vedevano la
loro descrizione. Sono paesi che cambiano. Per andare verso il progresso, devono
uscire dalle condizioni in cui vivevano. Tutte le condizioni. Anche morali,
religiose, comportamentali. Il progresso ha un prezzo. È molto quel che
guadagniamo, ma è molto quel che perdiamo. Io racconto quel che perdiamo. Sono
un narratore parziale e limitato, lo so e lo dichiaro. Non sono un narratore
del progresso, ma del prezzo del progresso.
Nella postfazione di Morando Morandini all'edizione in mio possesso, è riportato un
passo della sua prefazione all'edizione 1988 di Romanzi della pianura. La cito a beneficio dei
lettori “ Questi miti, dolcissimi e
crudeli, mi facevano male come un tumore: dovevo staccarli da me,
depositarli…Essi sono dunque una testimonianza dall'interno. Un popolo che non voleva essere conosciuto
si trovò così rivelato al lettore (al nemico) da uno dei suoi figli: in una
parola, tradito. Da allora, la scrittura rimase sempre per me
connotata da questi due criteri: è un'opera di liberazione, è un'opera di
tradimento”. Sono parole che
fanno molto riflettere, perché denotano, non tanto da parte sua, ma del mondo
che ha descritto un senso di vergogna, o meglio ancora un disagio per essere
stati così, per essere diventati oggetto di conoscenza. Non erano dei delinquenti e allora come può essere
spiegato questo atteggiamento? Forse il senso di pietà di cui è pervasa la sua
narrazione ha finito con l'offenderli, oppure è la reazione di uomini che
vogliono dimenticare un passato per non confrontarlo con un presente che si
accorgono essere ricco di luce, ma anche di molte ombre?
Pasolini raccontò i
ragazzi di vita dopo averli frequentati a lungo, andava a trovarli con la sua
Alfa Romeo metallizzata grigia, si faceva narrare le loro giornate, furti,
rapine, fughe, arresti, e poi li metteva per iscritto. A raccontargli tutto
erano Ninetto Davoli e
Franco Citti, che poi divennero i suoi attori
preferiti. Davoli e Citti
amavano Pasolini per i suoi racconti e i suoi film sui “ragazzi di vita”. I
miei contadini si offesero quando uscì “Il Quinto Stato”, perché avevano il
sogno di entrare nella condizione borghese, uscire dalla miseria, senza che ne
restasse traccia o memoria. Sentivano lo stato borghese, al quale aspiravano,
come decoroso, e lo stato contadino, dal quale uscivano, come indecoroso. Ho
un'amica che insegna Letteratura Italiana Contemporanea in questa università, è
figlia di un calzolaio, un giorno vede da un antiquario gli attrezzi del
calzolaio di una volta, con la pece, la lesina, eccetera, compra la scatola e
la regala al padre. Il padre scartoccio il pacco e impallidisce: “Butta via
questa vergogna”. Ecco, per i contadini è la stessa cosa. Mio padre aspirava
con tutte le sue forse a portare la famiglia un gradino più in
su, ad avere vestiti decenti, pasti normali, riposo alla domenica, letti
col materasso, e così via. Si sentì umiliato quando vide descritta da un figlio
(il secondo di quattro) la vita della campagna. Fece venire un notaio da
Bologna, venne a Padova con lui, gli altri figli e due testimoni del paese, e
mise in atto il “diseredamento”. L'ho molto ammirato
per questo. Per lui ci sono tanti valori che vengono prima della Letteratura, la Letteratura è uno
degli ultimi. Sento che ha ragione. Il sindaco del paese voleva intentare un
processo per farmi condannare. Soltanto molti anni dopo, sotto un altro
sindaco, hanno organizzato una riconciliazione: hanno preparato una grande
festa, con cena per tutti, invitati e no (son venute 400 persone), e un tenore
che cantava per me. Da allora, c'è una certa pace, la sospensione della
belligeranza.
Comprendo, ma è triste pensare che degli uomini si debbano
vergognare della loro vita umile, ma onesta. Si vede
che è un pegno che si deve pagare per entrare a far parte di una civiltà in cui
c'è l'illusione di realizzarsi, convinti che tutto lì sia possibile,
soprattutto quello che prima non lo era. Secondo me non cambia nulla, perché
sempre resteranno poveri rispetto a quelli che già prima erano uomini.
Come scrittore avrà letto anche molto e penso che, come tutti, ci
siano degli autori, in prosa e poesia, che su di lei più di altri hanno
esercitato il loro ascendente. Chi sono e perché?
A quell'epoca leggevo
molto gli scrittori sudamericani, soprattutto Garcìa Màrquez e Julio Cortàzar. Avevano
un modo istintivo, naturale e sapiente di
raccontare la terra, il paese, la campagna. Quello che era allora il direttore
della Garzanti, Sergio Morando,
mi diceva: “Noi abbiamo il fantastico, loro hanno il
meraviglioso”. Secondo me voleva dire una cosa acuta, e cioè: che noi
raccontando la nostra condizione la rendevamo interessante elaborandola
culturalmente (era l'epoca di Calvino), loro si guardavano intorno e trovavano
tutto meravigliosamente pronto per essere parola. Ma devo dire che sentivo più
degli altri il modello Pasolini, e prima di Pasolini Verga. Ad ogni rilettura,
vi trovavo sempre qualcosa di nuovo. Mi separava da loro solo un fatto: loro
erano estranei al mondo subalterno che descrivevano, lo conoscevano da fuori,
Pasolini visitandolo con la sua Alfa Romeo, Verga aggirandosi per il porto tra
i pescatori. Erano pronti come spugne ad assorbire. C'è un proverbio che dice:
“Occhio di straniero – vede meglio di sparviero”. E' possibile che il mio
essere interno al mondo che descrivevo mi creasse dei
problemi di tradimento, di colpa, di responsabilità, di riguardo. Me lo chiedo.
Non so rispondere.
Che cosa rimpiange della civiltà contadina e che cosa salva invece
dell'attuale civiltà dei consumi?
Rimpiango che sia sparito
tutto, mentre c'erano molti valori da salvare. Dai miei genitori a me s'è
trasmessa una tradizione (si chiama così per questo, perché viene trasmessa),
che da me non s'è trasmessa ai miei figli. Io sono stato figlio dei miei
genitori, i miei figli non sono miei figli. Il secondo
insegna Procedura Penale a Bologna, scrive libri di Diritto, ma io li posso
leggere solo se li prenoto e li compro in libreria. Il primo scrive e produce
film a Los Angeles, con la sua ultima sceneggiatura (“The Messenger”) un mese
fa ha vinto il Festival di Berlino: non il film o gli attori, ma la
sceneggiatura. Tuttavia io non ne ho mai letto una parola. È' morta una
famiglia, è morta una religione, un senso della società, della solidarietà. Il
mondo è diventato più ricco ma peggiore.
Quando vivevo in campagna, tra i contadini, se in paese
c'era qualcuno malato, tutti lo sapevano e gli facevano visita. Qui in città di
fronte al mio appartamento un ragazzino moriva di cancro, nessuno l'ha saputo
mai. Quando è morto, i genitori sono andati via, vendendo l'appartamento e il
garage. Allora, per il garage, l'hanno saputo tutti.
La ringrazio per la cortesia e la pazienza, nonché per le risposte
franche ed esaurienti. La saluto augurandole ogni bene
e serenità.
La vita
eterna
di Ferdinando Camon
Postfazione di Morando Morandini
Garzanti Editore
Narrativa romanzo
Collana Gli elefanti
Pagg. 172
ISBN: 9788811666288
Prezzo: € 6,46