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  Libri e interviste  »  L'intervista di Renzo Montagnoli a Massimo Baldi, autore di Le quattro stagioni di un viaggiatore solitario, edito da Edizioni Creativa 03/07/2009
 

Intervista di Renzo Montagnoli a Massimo Baldi, autore della silloge poetica Le quattro stagioni di un viaggiatore solitario, edito da Edizioni Creativa.

 

 

Questo libro sviluppa diversi temi quali l'amore, le riflessioni sull'esistenza, la religione e riporta anche alcuni aforismi. Quali motivi inducono un uomo, nel caso specifico tu, a trasporre in versi le proprie emozioni e sensazioni e con quale scopo?

 

Premetto che scrivere è stata, sin dall'età adolescenziale, una passione irrefrenabile, un insopprimibile desiderio di libertà.

I motivi principali che mi hanno spinto a pubblicare  questa silloge e alcuni aforismi sono la voglia di trasmettere agli altri le mie emozioni, il piacere di condividere riflessioni su temi importanti quali l'amore, la religione e la vita in ogni sua forma e manifestazione e la necessità del confronto dialettico con i lettori come costante motivo di crescita e autocritica.

Le tematiche del libro riflettono, inevitabilmente, il mio carattere e la mia sensibilità, il modo di “leggere” il mondo oltre le sterili apparenze; alti e bassi, che sono presenti nel libro, rappresentano pennellate di colore puro sul quadro della vita.

 

Come Vivaldi dividi i periodi della vita in quattro stagioni ed è perfettamente comprensibile, ma perché di un viaggiatore solitario? In fin dei conti hai l'amore per tua moglie e quello ti accompagna che lei sia con te, oppure no. Allora, se la vita è un viaggio, un percorso, che significato ha quel “solitario”?

 

Sicuramente la mia compagna di vita è il dono più bello che abbia mai ricevuto da Dio; io e Lei diventiamo il viaggiatore, anzi siamo quel viaggiatore del libro e, attraverso i suoi occhi, la vita diventa una meravigliosa e continua scoperta.

Il termine “solitario” assume per me due significati abbastanza contrastanti: da un lato racchiude qualcosa di bellissimo ed appagante perché rappresenta l'individualità che rende ciascuno di noi esseri unici e imperfetti (per fortuna), contro qualsiasi omologazione che ci spersonalizza e ci spoglia di noi stessi, dall'altro nasconde, neppure troppo velatamente, una punta di amarezza in quanto io e Lei, talune volte, ci siamo confrontati con persone superficiali, che ragionavano in maniera materialistica, insincera ed egoistica.

Essere solitari, comunque, non vuol dire porre delle barriere agli altri anzi è l'esatto contrario in quanto il solitario ha coscienza di sé e dei propri limiti e il suo confronto con il mondo è leale e sereno perché avviene dopo aver compiuto il viaggio più meraviglioso e difficile, quello dentro la propria anima.

 

O forse è solo la nostra anima che compie il viaggio, un'essenza incorporea che dona la vita a una materia inerte e poi l'abbandona quando la carne ha compiuto il suo ciclo per ritornarsene nell'infinito, nell'eternità.

Sentimenti nobili, che condivido, ma che purtroppo contrastano con un mondo fatto di apparenza e non di sostanza, in cui non sembra esserci posto per quella spiritualità innata in ognuno di noi. E questa mia divagazione finisce per il richiamare un'altra domanda: che cos'è per te la poesia?

 

La poesia è arte sublime e nobile, è capacità di astrarre da qualsiasi contesto l'essenza extracorporea, è sapersi mettersi in ascolto e intimo contatto con la Natura, è a-temporale, senza limiti di spazio, la poesia sono ali per guardare oltre.

La poesia è l'anima che parla, è un fluido magico che unisce, divide, ricongiunge ma che sempre eleva l'Uomo a vette nobili.

La poesia, scontrandosi con il mondo moderno e con la civiltà dell'usa e getta, è anche (e purtroppo) sofferenza, è lacerante grido interiore.

La poesia è ricerca del proprio Io e delle proprie origini, la poesia per me è aria, è la vita stessa.

 

 

E a proposito di poesia vige la stessa regola che c'è per la narrativa, cioè se non si leggono testi di altri è impossibile scriverne di propri. Quali sono i poeti che su di te hanno esercitato maggiormente il loro ascendente e per quali motivi?

 

Ho letto molti poeti e molta poesia e ogni lettura e rilettura mi ha lasciato impronte importanti; sicuramente, però, alcuni poeti hanno lasciato dentro di me un'orma profonda: Ungaretti, per la sua poesia diretta, espressiva e le immagini che riesce ad evocare (ad esempio inVeglia' non è possibile non compenetrarsi nel soldato giacente l'intera notte accanto al compagno morto), Neruda per la sua poesia di impegno politico e assai impegnativa, che trasuda anche sensualità e passione. Un poeta e filosofo che ama la vita e in cui  intimamente mi identifico.

Pavese, per la particolarità della poesia-racconto (‘I mari del Sud' sono un esempio di come si faccia poesia raccontando e si racconti facendo poesia).

Ma forte, e non meno decisivo sulla mia poesia, è  l'influsso dei classici, Leopardi in primis.

 

Ho notato che in questa tua raccolta il verso è assolutamente libero, però ho ritratto anche l'impressione che le poesie siano state scritte in epoche molto diverse. Questo nel senso che in talune c'è una tendenza al classicismo, mentre altre sono più immediate e di linguaggio attuale. E' così?

 

Le tue osservazioni sono corrette sia relativamente al tipo di verso che al periodo in cui sono state scritte le liriche; il verso rappresenta per me l'onda del mare, si allunga a riva e ritorna placidamente nell'oceano. Questo rifluire, sempre uguale nel movimento ma mai nella lunghezza del “respiro”, evita la scelta di una forma metrica piuttosto che un'altra e il rischio di rimanere intrappolato in una sorta di “gabbia”. Ovviamente, il tipo di verso e la tendenza ad un linguaggio attuale o  classicheggiante dipende dagli influssi ricevuti nel periodo in cui le poesie sono state scritte: diciamo che oggi tendo a scrivere in un linguaggio attuale e la “ciliegina” sulla torta sono gli impetuosi ritorni di fiamma del classicismo.

 

Secondo te, oggi la poesia ha ancora un significato?

 

Questa è una domanda a cui è difficile rispondere perché una qualunque opera, per avere un senso, deve avere chi scrive e chi legge; e se si guardano i dati statistici, freddi ma purtroppo inoppugnabili, devo dire che la poesia sembrerebbe relegata in una sorta di nicchia per pochi eletti. E se, ancora, guardo i costumi, le mode del momento, la superficialità di oggi risponderei di no, non ha alcun senso la poesia; tuttavia, però, la poesia è qualcosa che ci appartiene intimamente perché la poesia è l'anima, è eterna, e non posso (e non voglio pensare) che abbiamo perduto anche l'anima; sta al poeta adeguarsi al cambiamento per raggiungere la parte più profonda degli altri, la coscienza pura, senza però dimenticare che la poesia non accetta alcun compromesso in quanto libera espressione del cuore.

Occorre forse trovare un nuovo modo di fare poesia, nuovi modi per promuoverla, facendo capire che il profitto (perché la poesia è tutto tranne che profitto) non può essere la chiave di tutto, anzi rappresenta la più veloce discesa agli inferi.

Pertanto, la poesia ha un senso ancora, secondo me e ai poeti è affidata la difficile responsabilità di ridestare le coscienze.

 

Quindi, almeno in prospettiva, la poesia potrebbe tornare in auge, stante il suo valore salvifico. Certo che in una società come la nostra , in cui l'unico valore è rappresentato dal successo, l'umiltà di un poeta non trova spazio e del resto sappiamo bene che la poesia ha tirature limitate, da prodotto di nicchia, nonostante sia per lo più agevolmente leggibile e comunque generalmente in tempi più rapidi di un romanzo. L'anima non si è persa, ma  si è dimenticato o si ignora il nostro passato, il che rende difficilmente gestibile il presente e impedisce di programmare il futuro, dando vita a una moltitudine di esseri umani senza vita. I valori fondanti della società sono stati persi ed ecco pertanto il dramma dell'uomo odierno, sempre più solo, sempre più omologato e privo di speranze. Di questo problema mi interesso da lungo tempo e in particolare ne tratta il mio poema Canti celtici, in cui questa perdita di identità viene evidenziata con la caduta dei concetti di famiglia, di spiritualità e di patria, intesa però quest'ultima solo come famiglia allargata.

Sei di questa opinione e, se sì, come è possibile porre rimedio, ovviamente come poeta?

 

Concordo pienamente con le tue affermazioni, sono amare considerazioni ma esprimono appieno la realtà di oggi. Si sta andando incontro ad un disastro di gravità incalcolabile, speriamo di non toccare il fondo (forse è stato già toccato?) e di accorgerci in tempo degli abissi in cui abbiamo proiettato l'Uomo e la sua anima.

La verità è che i valori di famiglia, amicizia, vita di coppia mancano totalmente perché i modelli dominanti diffondono dappertutto  la cultura della competizione e dell'arrivismo, il che provoca isolazionismo e scatena biecamente i nostri peggiori e bassi istinti.

Il poeta cosa potrebbe fare, secondo me?

Innanzitutto, non piegarsi alla logica del profitto ma restare fedele a se stesso e difendere la poesia per quello che è, Arte.

Il poeta non deve ripiegarsi su se stesso, con il falso pretesto alcune volte di essere una voce (la migliore) fuori dal coro, deve uscire da quei Salotti letterari in cui talune volte si chiude.

Il poeta deve rivolgersi a categorie di persone come gli emarginati sociali, per recuperarli ad una visione più umana e spirituale della vita, deve cercare di promuovere la Sua opera nel contesto in cui opera e lavora, come momento di pura evasione e di profonda riflessione.

Il poeta deve essere in contatto con il mondo esterno ma al tempo stesso rimanerne distaccato e deve essere capace di elaborare gli eventi attraverso la Sua coscienza e la sua sensibilità.

Il poeta non deve smettere di credere che, in fondo ad ogni Uomo della Terra, esista ancora la speranza di risorgere; se il poeta smette di credere, la poesia stessa muore.

E la poesia, sopravvissuta a secoli di barbarie e periodi di rinascita, non si è persa e non si perderà mai, secondo me.

 

Il poeta prima di tutto è uomo e come tale, se si accorge di un pericolo per la collettività – e lui in genere ne ha sentore prima per l'innata capacità di osservazione - , non deve ritirarsi sull'Aventino, come se la cosa non lo riguardasse, ma deve gridarlo nel miglior modo che sa fare, cioè con la poesia. Ho rilevato, un po' dalle risposte precedenti, un po' dai contenuti della tua silloge, che tu ti poni in modo fortemente critico nei confronti dell'attuale società, non tanto esponendo i pericoli, ma parlando di quei valori che ancora conservi. Questo è giusto, perché l'esempio è il miglior modo per distinguersi; l'essere sempre e comunque noi stessi è una forza ignorata dagli altri trascinati nel baratro e quindi ha una sua funzione emulativa per niente trascurabile. La domanda che ti faccio ora è altrettanto difficile. Di come ci siamo ridotti è sotto gli occhi di tutti quelli che sanno vedere, ma del perché siamo in queste condizioni presuppone un'analisi più attenta, con tante correlazioni. E' comunque indispensabile saperlo, perché l'origine del male è il presupposto per la sua cura. Allora, perché abbiamo perso i valori e per colpa di chi?

 

A questa domanda è difficilissimo dare una risposta precisa perché siamo in una fase talmente avanzata del degrado che dovremmo, secondo me, ripercorrere più di un secolo all'indietro per cominciare a capire qualcosa.

Mi spiego: la rivoluzione industriale, ad esempio, ha trasferito l'uomo dalla campagna verso la città e, di fatto, lo ha allontanato dalla Natura, ha dato all'uomo l'illusione che le macchine avrebbero lavorato per lui, restituendogli in tal modo più tempo per dedicarsi a se stesso ma, al contrario, le macchine lo hanno reso suo schiavo inconfessato.

E poi alcuni mali sono sempre esistiti ma sono cambiate le casse di risonanza, mi spiego meglio: se un secolo fa l'intolleranza tra due popoli già esisteva, così come esisteva dieci secoli fa e ancor prima, si pensi agli scontri di potere, di religione, questo fenomeno rimaneva circoscritto ai due soli popoli in conflitto, salvaguardando così l'integrità nelle relazioni tra altri popoli; oggi con il massiccio avvento dei mass-media, ogni azione funziona da cassa di risonanza e il primo errore che scorgo sta nel non aver saputo mettere un freno, un controllo - a fin di bene s'intende - a tali tecnologie.

Ecco il primo collo di bottiglia, secondo me: dove la scienza faceva passi in avanti, tanto più la tecnologia doveva essere attenta alle applicazioni, in modo da non innescare fenomeni a catena, spesso emulativi e, soprattutto, negativi.

Manca nella tecnologia una sorta di “controllo etico”, “educativo” e parte dello scempio a cui si assiste si deve anche a questo.

L'avvento della TV (altra tecnologia che ha spostato ogni equilibrio) ha lentamente annullato il concetto di famiglia, il concetto di vita di coppia, azzerando il dialogo all'interno dei suoi componenti: ecco, la TV ci ha allontanato ogni giorno di più; e così ogni altra applicazione tecnologica (cellulari, palmari, notebook). E' innegabile: se do sempre più spazio agli oggetti, ne darò sempre meno alle persone e alla ricerca di una spiritualità interiore.

Mi chiedo allora: chi è che ha voluto tutto questo?

Chi vuole annullare la nostra volontà, chi vuole azzerare il senso di colpa e le nostre emozioni, chi vuole omologarci a tutti i costi per essere in grado di controllarci più facilmente?

Forse la colpa è dentro ciascuno di noi in quanto dovremmo cominciare a comprendere che ogni strumento deve essere al nostro servizio e non il contrario, che si può vivere anche senza tanti oggetti ritenuti, a torto, indispensabili, necessari. Chi l'ha capito, chi ha occhi per vedere e non si rende portavoce di questo messaggio verso coloro “che non vedono” commette ugualmente un errore.

L'imbarbarimento collettivo, dove con ciò intendo non solo il mancato rispetto per la vita altrui ma anche la superficialità e il senso di vuoto con cui molte persone  affrontano la vita, è anche dovuto alla mancanza di “voci fuori dal coro”, di una sorta di educatori che portino messaggi differenti da quelli che ci omologano rendendoci “soli”, ossia senza un'anima, che è ben diverso da quel “solitario”, inteso come essere maturo che ha piena consapevolezza di sé e dei propri limiti, che è l'anelito del libro e della mia continua ricerca.

 

Concordo su quasi tutto e, soprattutto, sui problemi sorti a seguito della rivoluzione industriale alla fine del XVIII Secolo. Gradualmente ha soppiantato l'esigenza del bisogno da soddisfare con quello che costituisce lo scopo dell'esistenza, un effetto di devastanti proporzioni che ha sempre più allontanato l'uomo dalla sua natura originaria. Se aggiungiamo poi gli scempi della televisione, un mezzo che fra l'altro serve anche a egemonizzare talune classi e taluni individui, si può ben comprendere l'infelicità della nostra società. Ritorniamo più direttamente alla poesia e la domanda a questo punto è di prammatica: hai in corso di stesura altre sillogi con l'intento di una loro pubblicazione?

 

Ovviamente continuo a scrivere poesie e ho intenzione di proporre ai lettori una nuova silloge (in tempi non brevi, però), più matura e consapevole ma sempre ricca di slanci e passione; parallelamente, ho in cantiere un progetto accattivante ossia un Saggio sulla figura del poeta nella società attuale e cosa possa e debba fare per arginare il degrado socio-culturale di cui abbiamo ampiamente parlato. Ma preferisco non anticipare nulla perché si tratta di progetti ancora in fase germinale.

 

Ti ringrazio per le esaurienti risposte e ti saluto con gli auguri di successo per questo tuo libro.

 

 

Le quattro stagioni di un viaggiatore solitario

di Massimo Baldi

Nota iniziale dell'autore

Edizioni Creativa

www.edizionicreativa.it

Collana Versi Creativi

Poesia silloge

Pagg. 66

ISBN: 978-88-89841-808

Prezzo: € 9,00

 

 

 

 

 

 
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