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  Letteratura  »  Il disertore, di Giuseppe Dessė, edito da Ilisso e recensito da Piera Maria Chessa 01/07/2020
 
Il disertore, di Giuseppe Dessì, prefazione di Sandro Maxia, Nuoro Ilisso


In questi ultimi giorni ho letto “Il disertore“, un libro di appena centotrentaquattro pagine, di cui una parte destinata alla bella e interessante prefazione del professor Sandro Maxia.
Un libretto dunque, ma dal respiro così ampio che, quando si arriva all’ultima pagina, si vorrebbe velocemente ritornare indietro per gustarlo ancora, vedere se qualcosa è sfuggito alla nostra attenzione; magari un particolare non messo a fuoco, una caratteristica di uno dei protagonisti, o anche semplicemente un termine al quale non è stata data la giusta importanza. Ma andiamo con ordine.

Lessi già una prima volta questo libro, tanti anni addietro, quando ero giovane. Ora, a distanza di alcuni decenni, ho sentito il bisogno di riprenderlo in mano, come ho già fatto con altri, per rileggerlo in un’età che probabilmente sa comprendere meglio quello che un autore intende dire quando si accinge a raccontare una storia.
Ebbene, anche questo è stato una nuova scoperta. Ritengo infatti di averlo oggi apprezzato e capito meglio in tutti i suoi risvolti psicologici.
Prima di tutto ho letto la prefazione, cosa che di solito faccio a lettura ultimata. Sentivo che in questo caso era importante e poteva tornarmi utile per capire meglio la storia.
Il professor Maxia ha fatto un’attenta e accurata presentazione che permette al lettore di conoscere gli aspetti più importanti della vita di Dessì, ma soprattutto gli influssi che altri scrittori e studiosi hanno avuto sui suoi scritti.
Poi ho avviato la lettura della storia vera e propria. Come ho già anticipato, si tratta di un racconto che cattura sin dall’inizio l’attenzione del lettore, coinvolgendolo profondamente.
.
La storia è ambientata in un paesino della Sardegna, Cuadu, nome di fantasia, e fin dalla prima pagina si incomincia a parlare della costruzione di un monumento ai caduti, in ricordo dei settantatré giovani morti nel corso della prima guerra mondiale. Si tornerà diverse volte sulla costruzione del  monumento, sulle difficoltà incontrate, ma soltanto nell’ultimo capitolo si conosceranno le decisioni finali.
I protagonisti di questa coinvolgente storia sono fondamentalmente due, entrambi di grande spessore, nessuno di loro prevarica l’altro, tanto diversi per temperamento, si ritrovano tuttavia in qualche modo a dover intrecciare i loro destini.
Don Pietro Coi è il viceparroco del paese, Mariangela Eca è una povera donna che ha perso non uno ma due figli, una madre sopravvissuta per due volte ai suoi affetti più cari.
Don Pietro è un personaggio dalla personalità anche contraddittoria, ma che non può non suscitare simpatia e benevolenza. Un uomo avanti negli anni, ma ancora forte, rude, apparentemente, soprattutto nei confronti di Mariangela, sua parrocchiana, eppure sensibile e capace di prendere delle decisioni molto difficili, che più volte gli impediscono di riposare la notte, quando tutto appare più difficile da capire, e molte domande rimangono senza risposte.
Mariangela è più o meno coetanea del viceparroco, ma all’apparenza più vecchia, perché provata dalla povertà e soprattutto dal dolore per la morte dei figli, un distacco che non riesce ad accettare. Donna che ha fatto del silenzio una caratteristica della sua personalità. Lei che non sopporta le tante parole, perché le ritiene del tutto inutili.
Un personaggio difficile da dimenticare nella sua semplice complessità, la descrizione che ne fa lo scrittore, nella sua essenzialità, è perfetta, e a noi sembra di incontrarla, potremmo anche riconoscerla tra le tante altre donne di quel tempo.
Un ruolo molto importante ha anche Urbano Castai, medico in un paese che confina con Cuadu, Ruinalta. E’ lui l’amico più caro, forse l’unico, di don Pietro. Un personaggio molto interessante, che appare piuttosto tardi all’interno della storia, ma che lascia un’importante traccia di sè.
Vi sono poi parecchi altri personaggi, che appaiono in alcuni capitoli, scompaiono per un po’ per ritornare in seguito. Sono il marchese Roberto Manca di Tharros, un nobile decaduto, il commendatore Alessandro Comina, il nuovo ricco, l’arciprete Tarcisio Pau, che rimprovera a don Pietro il fatto di essere stato per tanti anni un cacciatore, Gregorio, il marito di Mariangela, personaggio “sfumato”, credo volutamente, sempre in ombra rispetto a lei, così potente nella manifestazione del suo dolore. Senza dimenticare Saverio e Giovanni, i loro due figli, entrambi partiti per la guerra. Giovanni, il figlio dal carattere difficile, Saverio, il più buono, secondo la mamma, ma anche il più fragile. Lui, di cui sappiamo ben poco inizialmente, ma il cui aspetto e carattere vanno prendendo forma gradualmente.
E poi i giovani con le fusciacche rosse, sono i minatori che lavorano nelle miniere dell’Iglesiente, e che nel fine settimana ritornano a Cuadu. Giovani che si oppongono allo strapotere dei cosiddetti “prinzipales”, e che in seguito cercano di opporsi ai gruppi fascisti che in quel periodo incominciano a essere presenti anche in paese e nella non lontana Iglesias.
Tante particolari mi verrebbe da rendere ancora più espliciti per capire una storia che Dessì ha saputo raccontare così bene, ma non voglio svelare niente di più di questo straordinario racconto che, secondo il mio parere, è un vero capolavoro.
Un piccolo gioiello che racchiude dentro la grande storia una piccola storia fatta di povertà e di dolore, diversa e nello stesso tempo uguale a quella di tante altre persone comuni che quasi sempre non hanno voce.
E allora grazie agli scrittori come Giuseppe Dessì che danno loro voce e dignità.

***

Di seguito due brani tratti dal settimo capitolo.

Mariangela, messa la caffettiera sulla brace del fornello, aspettava che montasse il bollore. Guardava sempre l’angolo della finestra e faceva con la testa quel movimento abituale, come se inghiottisse. Poteva aspettare indefinitamente, senza rispondere alle domande che le venivano fatte, e non c’era in lei né tracotanza né imbarazzo, ma un’antica, sottile persuasione di silenzio.”

Il prete versò il caffè nelle tazzine, le fece un cenno: lei prese la sua. Aveva la sua stessa età, ma sembrava più vecchia.
La guardò mentre sorbiva il caffè soffiandoci su a ogni sorso. Aveva sempre bisogno di guardarla per convincersi di quanto fosse invecchiata, che non era più forte come un tempo, come prima della morte dei figli. Se la ricordava sempre com’era tanti anni prima, quando i figli erano piccoli. Giovanni robusto, prepotente, e l’altro, Saverio, mingherlino e malaticcio.”

 

Cenni biografici

Giuseppe Dessì nacque a Cagliari nel 1909, ma dimostrò sempre un grande attaccamento a Villacidro, il paese delle sue origini.
Visse una giovinezza abbastanza complicata, ma poi, grazie ad alcuni incontri importanti, quello con lo storico Delio Cantimori e quello con Claudio Varese, che poi fu sempre grande amico, riuscì a dare una svolta alla sua vita.
Si recò a Pisa, dove si laureò in Lettere. E fu in quella città che pubblicò, nel 1939, una prima raccolta di racconti,
 La sposa in città, e anche il suo primo romanzo, San Silvano.
Nel 1942, pubblicò 
Michele Boschino, nel 1949, Storia del principe Lui, nel 1955, I passeri; due raccolte di racconti invece videro la luce nel 1957, Isola dell’Angelo e La ballerina di carta. Nel 1959, L’introduzione alla vita di Giacomo Sgarbo, e nel 1961, Il disertore. Nel 1966 pubblicò ancora una nuova raccolta di racconti, Lei era l’acqua.
Infine, nel 1972, vide la luce 
Paese d’ombre, che vinse il Premio Strega.
Scrisse anche per il teatro, tra le altre opere,
 La giustizia e Eleonora D’Arborea.
Dopo la sua morte furono pubblicati altri due libri, la raccolta di racconti 
Come un tiepido vento, e il romanzo La scelta.
Giuseppe Dessì dedicò alla Sardegna anche numerosi articoli, che furono poi raccolti, nel 1987, da Anna Dolfi nel libro 
Un pezzo di luna.


Piera Maria Chessa


 
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