Contro
un mondo senza amore – Susan Abulhawa –
Feltrinelli – Pagg. 368 – ISBN 9788807033957
- Euro 18,00
Senza
amore e senza pietà
È
davvero un mondo senza amore, e anche senza pietà, quello
contro cui si trova a scontrarsi fin da giovanissima la protagonista
del nuovo romanzo della scrittrice palestinese Susan Abulhawa che, a
distanza di cinque anni da “Nel blu tra il cielo e il mare”
e di circa un decennio dall’ancor più famoso “Ogni
mattina a Jenin”, ritorna ora nelle librerie italiane con una
storia intensa e drammatica, al centro della quale non avrebbe potuto
non trovare spazio la terra d’origine dell’autrice.
Da
lunghi decenni rimpianta e agognata, la Palestina rimane la patria
perduta, luogo dove ricomporre radici e identità stravolte
dall’esilio forzato a causa di quella che tuttora si chiama
“an-nakba”, la Catastrofe per eccellenza del mondo arabo.
Un dramma senza fine che ormai non sembra fare nemmeno più
notizia. L’Abulhawa lo riporta alla ribalta proprio in un
momento alquanto critico nella storia del popolo palestinese, che dal
1948 a oggi non ha conosciuto altro se non il fango e l’umiliazione
dei campi profughi e speranze puntualmente deluse.
Nahr
ne ha ben poche, di speranze, forse nessuna. Quando la incontriamo è
una detenuta ormai ingrigita e spossata che, da lunghi anni di cui ha
perso il conto, sta scontando una pena detentiva all’interno di
una cella anomala che lei chiama il Cubo, dove il tempo si annulla e
la luce e il buio che vi si alternano sono quanto di più
innaturale possa esistere. Chiusa in questa manciata di metri
quadrati di cemento armato, la donna ci racconta a poco a poco la sua
vicenda, partendo dai giorni trascorsi felici sotto il sole del
Kuwait, quando per lei la Palestina si riduceva soltanto a vecchie
storie di famiglia, fino a quelli bui sopraggiunti dopo l’arresto
da parte di Israele con l’accusa di attività
terroristica; nel mezzo, disillusioni, amarezze, umiliazioni,
violenze, ma anche un inatteso spiraglio d’amore di cui il
mondo dimostra di essere per buona parte privo. La penna dell’autrice
ritrae una donna di carattere che non si arrende dinnanzi alle
brutture vissute e che, a ogni caduta, impara a rialzarsi senza
piangersi addosso: una donna dai tre nomi (Nahr, Yaqoot, Almas) che
si adattano a momenti e stagioni della sua vita, mentre il bisogno di
avere radici e di appartenere finalmente a un luogo diviene con gli
anni più impellente. Ovunque, anche là dove sembra che
si possa vivere bene, la condizione di profugo presto o tardi
acquisisce un sapore amarissimo diventando talvolta il capro
espiatorio di situazioni esplosive, come infatti accade persino nel
Kuwait all’indomani del ritiro dell’esercito di Saddam
Hussein nel 1991; molto interessanti, a tal riguardo, le pagine che
raccontano ciò che si è verificato nel piccolo emirato
del Golfo sotto il ra’is iracheno, a dispetto della versione
americana rivelatasi già in passato non affidabile.
“La
gente pensa che l’occupazione irachena del Kuwait sia stata una
specie di massacro, ma non è così. Gli orrori veri e
propri successero quando l’Iraq se ne andò, […]
Per me contava soltanto che quella notte Saddam Hussein mi aveva
salvato la vita e che, durante la permanenza irachena in Kuwait, ero
una donna libera e felice.”
L’io
narrante della protagonista risulta molto coinvolgente e diversi
personaggi, oltre a quello della stessa Nahr, si presentano ben
caratterizzati; in particolare, colpisce quello della maîtresse
iracheno-kuwaitiana Um Buraq che, anzitutto, squarcia il velo
dell’ipocrisia sempre vigente nell’ambito delle società
islamiche in fatto di prostituzione e la cui promessa di un tempo
viene mantenuta nella parte conclusiva del romanzo: “Qualunque
cosa accada in questo mondo ingrato, ci rivedremo, sorella mia.”
Nel
complesso, dunque, la storia narrata sa catturare il lettore e gli
argomenti trattati, da quelli umani a quelli politici in relazione
alla causa palestinese, hanno indubbiamente un peso innegabile.
Tuttavia, forse si avverte qualcosa di diverso nello stile della
Abulhawa rispetto soprattutto a “Ogni mattina a Jenin”,
qualcosa che non consente una valutazione del libro a pieni voti.
Inoltre, ho riscontrato un paio di inesattezze che, con tutta
evidenza, devono essere sfuggite al lavoro di editing: a pagina 161
si parla della città di Haifa situata di fronte all’oceano
(le coste del Vicino Oriente non si affacciano sul Mar
Mediterraneo?); più di una volta si fa riferimento alla
preghiera islamica dell’alba chiamandola, con le parole arabe
corrispondenti, “fajr salat”, che però disposte in
questo modo (imputabili al testo in lingua inglese?) significano in
realtà “alba della preghiera”, mentre
l’espressione corretta è “salat al-fajr” (la
preghiera dell’alba).
In
ogni caso, “Contro un mondo senza amore” è un
coinvolgente romanzo meritevole di lettura: nel solco dei precedenti
lavori dell’autrice, esso ribadisce la ferma e coraggiosa
denuncia della violenta arroganza degli occupanti israeliani, i quali
bollano come terrorismo qualsiasi forma di resistenza da parte
palestinese e, al tempo stesso, nei Territori praticano impunemente
la tortura e ogni forma di abuso. Ciò che Susan Abulhawa
scrive non è soltanto fiction (anche le fonti non arabe
parlano delle stesse cose) e quello di Nahr, così come quello
a suo tempo di Amal in “Ogni mattina a Jenin”, è
l’urlo di dolore – vero, straziante, inascoltato –
di un popolo intero che attende ancora giustizia e almeno un briciolo
d’amore.
Laura
Vargiu
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