Schegge
– Giangiacomo Amoretti – DivinaFollia –
Pagg. 100 – ISBN 9788898486908
.- Euro 15,00
Accingersi
ad analizzare una raccolta poetica è sempre un momento magico
e nello stesso tempo un momento di ansia, perché non si sa
dove ci porteranno i nostri pensieri e le parole che dovrebbero
interpretarli.
Non
c’è dubbio che ci si debba disporre alla comprensione,
senza tener conto di chi avverte che le poesie «non vanno
spiegate nel loro contenuto, ma vanno solo “ascoltate”,
va ascoltata la loro musicalità, i suoni delle parole nella
loro sequenzialità ritmico-melodica», altrimenti ci si
dovrebbe arrendere prima di iniziare.
In
effetti anche questa affermazione, se non presa alla lettera, può
essere accolta pensando che ogni poesia ha una sua apertura, una sua
“occupabilità” (come direbbe Paul Celan), che
riguarda il senso / i sensi diversi che chi legge può riuscire
a cogliere, in base alla sua stessa esperienza, ai propri vissuti e
alla emozionalità attivata nel momento in cui legge.
Certo,
le poesie impegnative, colte, come quelle della silloge “Schegge”
di Giangiacomo Amoretti potrebbero sembrare piuttosto oscure, se ci
si ferma a una prima lettura, per quanto attenta.
Tuttavia,
sempre seguendo Celan, «La poesia è in quanto poesia
oscura, e oscura perché è poesia”…
ma ”la poesia vuol essere compresa, vuole, proprio perché
è oscura, essere compresa: come poesia, come “buio
poetico”» - e ancora: “Nella poesia viene detto
qualcosa, ma -di fatto- in modo che il detto rimane non detto finché
chi lo legge non se lo lascia dire”
Questa
è, in certo modo, l’oscurità della poesia. E
della poesia di Amoretti, nello specifico.
Ma
la mia lettura è stata piuttosto approfondita così che
una parte di quello spazio occupabile che le poesie mi hanno lasciato
credo di averlo abbastanza ben sfruttato.
In
un precedente approccio a queste stesse poesie, avevo colto come
fosse evidente un lavorio interiore del poeta che le ha rese vere,
autentiche, ma anche così "difficili", anche grazie
a un lessico ricercato, dotto, non sempre immediatamente a portata di
mente.
Un
esempio è la poesia n. XXXIX “Resta chiuso, dolore”,
in cui colgo anche degli accenti luziani, come nella poesia n. VIII;
ma in tutte le poesie, davvero il poeta cesella le parole, le esalta
nella loro purezza…
La
lingua delle poesie è più elevata di quella che si usa
normalmente, è in certo senso “originaria” perché
cerca di cogliere le cose in un istante cruciale, quello in cui
dall’essere in uno stato di banalità o di anonimia
quasi, entrano nel paesaggio aperto e accogliente della lingua, ed è
a questo istante, nella sua fugace unicità, che il poeta sente
di dover dare voce.
Quello
del poeta, dunque, è un tentativo molto complesso che gli crea
responsabilità e incertezza sull’esito. Tant’è
vero che spesso il poeta non è soddisfatto dell’uso, pur
oculato, che ha fatto delle parole, perché gli sembra che il
senso che avrebbe voluto far loro esprimere non sia sempre risultato,
alla fine, pienamente adeguato all’intenzione poetica.
Celan
sostiene a tal proposito che «La poesia s’intende col suo
stesso autore solo per la durata del suo farsi - e congeda subito
anche lui», il che significa che spesso il poeta non si senta
nemmeno il vero padre delle poesie che scrive. È come un
lasciarsi prendere la mano dalla voce interiore e lasciare che le
parole vadano per conto proprio così che non sempre riescono a
dire quel che si voleva far loro dire.
E
se, a una lettura di superficie, le poesie di questa silloge possono
apparire piuttosto grevi, tremende, come se trasmettessero
dall’inizio alla fine un senso di oppressione difficilmente
superabile, tanto più in quanto ricalcano situazioni ed
emozioni realmente vissute in cui ci si immedesima, ad una lettura
più in profondità danno invece modo di entrare più
agevolmente nell’animo del poeta e di seguire i suoi percorsi
emozionali.
Così
si percepisce sì, chiaramente, già dalle prime poesie,
uno stato di sofferenza dell’anima che è come in apnea e
in stato di afasia, al punto che la poesia, nel suo farsi, diventa
quasi “una tortura”, toglie il respiro e il poeta non ha
altro modo di esprimersi che quello di tenere “premuto in gola
il non detto”.
Ma,
paradossalmente, è questo non dire che forse lo
“salva”, lo fa vivere e gli permette di intravedere la
propria anima pur disperata, tuttavia “a speranza ancora tutta
ravvinta”.
E
mentre il poeta esamina il proprio stesso volto che “è
come un intrico di crepe e di stromi” con tracce “di vite
già arse”, pure nel fondo dell’anima appare un
barlume.
In
altra poesia, nonostante le immagini negative sembrino occupare
totalmente la mente del poeta, la vita comunque fluisce, “si
ingorga”, “si adima” ma “avanza”, “si
infiltra - ed ancora si dirama”, e tuttavia “ripullula in
distanza”.
La
speranza appare sì velata, ma c’è, non
viene mai meno, così come la luce, anche se in forma di lampo,
di bagliore, di brillio appena intravisto.
Oppure,
nella poesia XXIV, ci si lascia trasportare da un’immagine
metaforica bellissima, anche se precaria, com’è
l’adoperare nubi come appigli, pur sapendo che subiscono
smottamenti “di cielo in cielo” e che sono, appunto per
questo, incerti, inaffidabili perché così mutevoli,
perché è come un aggrapparsi ad aria rarefatta, cioè
al niente. Eppure, in fondo, c’è un “àfono
resistere”.
In
altre significative poesie, come la XXXI e la LII, il poeta è
impegnato “nel cuore della notte” in una sorta di gioco
degli specchi: guarda il suo stesso volto, ma quasi non si riconosce,
perché quello che sta di là dallo specchio è il
negativo di sé, del suo essere, è il suo non-essere.
E
questo accade perché il poeta si sente svuotato, tormentato
intimamente, e l’immagine di sé che gli appare non è
quella abituale, diurna, serena, ma l’immagine quasi beffarda,
notturna, oscura, rapace.
Inoltre,
il vetro dello specchio è opaco, con una “sua impronta
di fumo” ed è segnato da un “taglio netto”,
come a voler deformare la visione del volto.
E
per un di più di tormento, da “una radianza fioca”
che contrasta il buio della notte, lo specchio rischiara appena
l’uomo facendolo apparire uno spettro che senza labbra né
occhi parla e guarda, cieco, di là “dalla tela
disfatta”.
Ricorda
un po’ il ritratto di Dorian Gray… ma forse questa è
solo una mia suggestione..
Nella
poesia XLVII, mi è parso di poter cogliere un indizio che il
poeta stesso ha voluto lanciare a chi legge, come una sorta di chiave
di lettura che conferma quanto ho rilevato fin qui.
Il
poeta si è servito spesso di elementi naturali in cui ha in
qualche modo "radicato" il suo pensiero, le sue emozioni
del momento, che personalmente ho colto come metafore per mostrare la
difficile condizione dell’anima.
Ha
più spesso utilizzato modelli "negativi" (il buio,
il nero, il liquame, l'infetto... ecc..) perché era un vissuto
di ansia, di angoscia, di orrore che voleva esprimere; tutto
l'insieme, infatti, è permeato, fibrilla quasi, di un senso di
sofferenza acuta, di atmosfere che serrano quasi la gola o che
imprigionano l'anima.
Ma
gli ultimi versi di molte poesie tendono a una luce. In questa
XLVIIesima poesia, già significativo l’incipit:
“Nel dire sia certo e ben netto / più che il dire il non
dire / l’afonia - la vertigine”, ma nel finale ecco che
ritorna: “- memoria o veggenza - più acuto, più
duro lo sprazzo / tra foglia e foglia, di questo // balenio come di
topazio”.
Qui,
la descrizione del buio, della notte dell’anima, rischiara per
un attimo il vissuto stesso dell’anima, affinché il
poeta possa comprenderlo e comprendersi: “Ah, era questo il
sentire, lo strazio, questa l’emozione che scavava nel
profondo!” sembra dire il poeta. Ed è così in
quasi tutte le poesie.
Da
questi brevi e pochi esempi si percepisce quale faticoso cammino
interiore abbia dovuto percorrere il poeta, per cercare uno spiraglio
per respirare, per uscire alla luce, per tornare ad essere. La
profondità dei sentimenti alla base delle poesie è
esaltata e affiora quasi ad ogni verso, dall'inizio alla fine, anche
se fa un po' male sentire tanta sofferenza dell'anima, trovarsi quasi
invischiati (leggendo) in veri e propri incubi, come in certe poesie
in cui la notte è lo sfondo oscuro dove si cela e si disvela
un'ombra, un'assenza, una distanza che si fa così vera, così
reale, così prossima da togliere il fiato.
Ma
con lo sguardo rivolto alle vie di fuga, alle vie di salvezza che il
poeta stesso ricerca, quasi ansimando, annaspando, ecco che si
ritrova il vero e profondo senso di questa silloge:
provare
a mettere a nudo il paesaggio complesso e intricato della propria
anima, mostrare la pena che l’affligge, ma trasfigurata in
forma poetica, così da poterla indagare, comprendere, forse
anche accettarla, in quanto attraverso la sofferenza si coglie poi
meglio la luce, il vero senso del vivere, i piccoli o brevi momenti
di gioia che si apprezzano di più proprio perché così
brevi ma anche così preziosi. La sofferenza insegna.
Come
diceva Thomas Eliot, infatti, la poesia è catartica non se
indulge nelle emozioni, descrivendole, ma se da esse fugge e se,
scrivendone, le allontana dall'animo del poeta.
Lo
scopo di questa recensione non era di analizzare nel dettaglio le
poesie, ma di comprenderle nell’insieme, e mi pare che
attraverso alcune di esse ciò (mi) sia stato possibile.
Ma
ho ancora alcune brevi riflessioni che vorrei fare.
-
La prima riguarda una poesia che chiamerei “paradigmatica”,
la n. LXIV, “Eri altro”- pag. 73, che mi pare possa
spiegare da dove abbia avuto inizio tutto il lavorio interiore del
poeta.
Una
metamorfosi, una rivelazione. Con tutte le conseguenze che questa
scoperta improvvisa può comportare.
-
La seconda riflessione si riferisce all’ultima poesia della
silloge, “Mai l’amore è difforme / da
giustizia. Misura / e dismisura insieme si legano e si sciolgono. //
Un cerchio solo, alto ed invisibile, / da sempre le governa / - le
apre a ciò che è oltre, / le pareggia - le eterna.”
Forse
non a caso questa poesia chiude la silloge: il poeta ha a sua volta
trovato la chiave di lettura delle sue emozioni e la offre al
lettore; questa chiave ha dentro tutta la speranza e i desideri di
vita serena a cui ogni essere umano aspira. Alla fine l’amore
vince sempre...
-
Con l’ultima riflessione, vorrei in qualche misura chiudere il
cerchio, riferendomi ancora a Paul Celan, secondo il quale “il
poetare autentico è antibiografico”.
Quest’affermazione sembra, anzi è, categorica.
Ma
questa silloge l’ho analizzata come un percorso poetico
autobiografico.
Allora,
Giangiacomo Amoretti non ha scritto vera poesia?
Sì,
la sua è vera, autentica poesia, perché, sempre
secondo Celan, “La poesia che viene al mondo vi giunge carica
di mondo”. E di quale mondo se non del proprio mondo, di quel
mondo che ciascuno di noi - e quindi anche il poeta - esperisce nel
suo breve tempo e spazio di vita?
E
in altro passaggio dei suoi Microliti, Celan sostiene che “La
poesia è monotona. Nessuno diventa ciò che non è”
e anche che “Nessun poeta parla mai per altro conto che il
proprio” […] ma “quanto è detto nella
poesia viene sottoposto al pensiero di chiunque, al pensiero,
non a un uomo” particolare.
Dunque
per “poetare antibiografico” si deve intendere
che, pur facendo leva sui propri vissuti, il poeta sia in grado di
trasfigurarli, di renderli in forma poetica come contenuti
universali.
E
quel che poteva apparire nelle affermazioni di Celan come
paradossale, supera brillantemente l’apparente contraddizione
con quest’altro pensiero: “Le poesie sono formazioni
porose: la vita scorre e filtra qui dentro e fuori, imprevedibilmente
bizzarra, riconoscibile e in incognito”.
Esattamente
come si può rilevare dalle poesie di Giangiacomo Amoretti.
E
senza trascurare, lo ribadisco, la lingua colta, originaria, che
coglie le emozioni nella loro purezza, nel loro stato nascente,
facendo sì che altri si riconoscano negli stessi vissuti o in
esperienze simili e ne traggano comprensione, e dalla comprensione,
conforto e speranza.
Quale
altro miglior compito potrebbe darsi la vera Poesia?
Maria
Carmen Lama
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