Etty
Hillesum: una giovane donna ebrea, vittima della Shoah, che non si
arrese mai
di
Piera Maria Chessa
Quando
si finisce di leggere il Diario e
le Lettere di Etty
Hillesum ci
si accorge di essere entrati in un mondo che non ha proprio niente in
comune con il nostro. Per un momento almeno sembra quasi impossibile
ritornare in quella che noi chiamiamo la nostra vita. Poi, un po’
alla volta, incominciamo a ritrovarci, e proviamo uno sconcerto e una
tristezza infinita pensando a quanto l’uomo possa essere capace
di crudeltà, sadismo, totale indifferenza verso i propri
simili. E allora, ai precedenti sentimenti subentrano un’indignazione
e un disprezzo profondi.
Stati d’animo che io provo ancora
ogni qualvolta mi predispongo a leggere libri e articoli relativi
alla Shoah, nonostante li abbia già letti precedentemente,
come in questo caso.
Esther
Hillesum,
conosciuta da tutti come Etty, nacque a Middelburg, in Olanda, il 15
gennaio del 1914, e morì ad Auschwitz il 30 novembre del 1943.
Suo padre era nato ad Amsterdam, la madre era invece russa. Aveva due
fratelli: Michael, chiamato Mischa, e Jacob, conosciuto come Jaap.
Mischa, musicista già affermato, morirà insieme ai
genitori e ad Etty ad Auschwitz, Jaap, particolarmente portato per le
scienze, diventerà medico, e morirà durante il viaggio
di ritorno nei Paesi Bassi, dopo la liberazione.
Etty era una
ragazza brillante e senza preconcetti, estremamente libera, forse un
po’ insoddisfatta e ancora alla ricerca di veri punti di
riferimento. Si laureò in giurisprudenza, poi si dedicò
allo studio delle lingue slave, che dovette interrompere a causa
della guerra. Riuscì invece a completare gli studi di Lingua e
Letteratura russa. Lettrice appassionata, amò profondamente
Rilke, autore che citerà spesso nei suoi scritti.
La sua
vita ebbe però una svolta decisiva quando incontrò
Julius Spier, uno psicologo e psicoterapeuta tedesco, allievo di
Jung, con quale visse una storia intensa e complessa.
Sarà
tuttavia la dura esperienza nel campo di Westerbork, in Olanda, dove
visse dall’agosto del 1942 al settembre del 1943, luogo di
smistamento prima della partenza dei prigionieri per Auschwitz, a
trasformarla in una donna forte e coraggiosa, e a portarla a dedicare
la sua vita ai suoi compagni di detenzione e al dialogo con Dio.
Un
dialogo intenso, profondo, di abbandono alla sua volontà, ma
anche di richiesta di aiuto, non per sè, ma per i tanti
prigionieri del campo che presto persero la loro dignità di
uomini e la voglia di reagire. Etty intuì da subito quel che
stava succedendo, non in una singola nazione ma nell’Europa
intera. Certamente non poteva ancora sapere in che modo sarebbero
stati uccisi, ma molto lucidamente capiva che si stava compiendo un
“destino di massa”, si trattava solo di tempo.
Nel
campo di Westerbork continuerà a scrivere il suo Diario.
Cercherà di annotare tutto, e sarà molto faticoso
perché potrà farlo nei pochissimi momenti a sua
disposizione. Svolgeva il suo compito di assistente sociale con
notevole impegno. Attraversava tante volte il campo, si recava nelle
“baracche” portando aiuti concreti e sollievo, camminando
sempre in mezzo al fango, e senza mai lamentarsi.
Sempre nel
Campo scrisse la maggior parte delle sue Lettere.
Molte ai cari amici lasciati ad Amsterdam, dove lei e la famiglia
avevano vissuto. Racconta loro come si svolgeva la vita, la
sofferenza delle persone intorno a lei, ma anche le sue riflessioni e
gli stati d’animo. Cercava di non mostrarsi mai troppo fragile
o sfiduciata. E quando questo succedeva e si lasciava un po’
andare, quasi si giustificava.
Era sempre molto preoccupata per
i genitori, temeva il momento in cui sarebbero dovuti partire per
Auschwitz, li aiutava in tutti i modi e cercava di non pensarci
troppo.
Aveva avuto modo di salvarsi, un po’ di tempo
prima, gli amici avevano programmato persino una fuga, ma lei non ne
volle mai sapere, aveva già deciso di seguire la sorte di
tutti gli altri prigionieri, compresi i genitori e il fratello.
Il
7 settembre del 1943, Etty e la sua famiglia furono inseriti nella
lista delle persone che dovevano partire per Auschwitz. Iniziò
così il loro ultimo viaggio.
I genitori morirono lo
stesso giorno dell’arrivo, Etty il 30 novembre dello stesso
anno, il fratello Mischa il 31 marzo del 1944. L’altro
fratello, Jaap, che era stato portato a Bergen Belsen nel febbraio di
quell’anno, morirà il 27 gennaio del 1945, forse per
tifo, mentre ritornava, come si è detto prima, verso casa.
Concludo
ricordando un’azione che Etty Hillesum compì sul treno
che li portava via: gettò da un finestrino una cartolina sulla
quale aveva scritto: “Abbiamo lasciato il campo cantando.”
La
trovarono alcuni contadini, che si incaricarono anche di
spedirla.
Quello fu il suo ultimo scritto.
Di
seguito due brani tratti rispettivamente dal Diario e
dalle Lettere.
Venerdì
10 luglio 1942 Etty scriveva:
“Un
giorno pesante, molto pesante. Un “destino di massa” che
si deve imparare a sopportare insieme con gli altri, eliminando tutti
gli infantilismi personali. Chiunque si voglia salvare deve pur
sapere che se non ci va lui, qualcun altro dovrà andare al suo
posto. Come se importasse molto se si tratti proprio di me, o
piuttosto di un altro, o di un altro ancora. E’ diventato ormai
un “destino di massa” e si dev’essere ben chiari su
questo punto. Un giorno molto pesante. Ma ogni volta so ritrovare me
stessa in una preghiera – e pregare mi sarà sempre
possibile, anche nello spazio più ristretto. E, come fosse un
fagottino, io mi lego sempre più strettamente sulla schiena, e
porto sempre più come una cosa mia quel pezzetto di destino
che sono in grado di sopportare: con questo fagottino già
cammino per le strade.
Dovrei impugnare questa sottile penna
stilografica come se fosse un martello e le mie parole dovrebbero
essere come tante martellate, per raccontare il nostro destino e un
pezzo di storia com’è ora e non è mai stata in
passato – non in questa forma totalitaria, organizzata per
grandi masse, estesa all’Europa intera. Dovrà pur
sopravvivere qualcuno che lo possa fare. Anch’io vorrei essere
in futuro una piccola cronista.”
(Da
Diario, 1941 – 1943, a cura di J.G. Gaarlandt, Adelphi
Edizioni)
Un
brano tratto da una lettera scritta il 24 agosto 1943 e spedita a Han
Wegerif e altri, nella quale Etty racconta agli amici lontani alcuni
momenti della sua giornata.
“Di
pomeriggio avevo fatto ancora un giro nella mia baracca d’ospedale,
passando da un letto all’altro. Quali letti saranno vuoti
domani? Le liste dei deportati sono divulgate all’ultimissimo
momento, ma certuni sanno in anticipo di dover partire. Una ragazzina
mi chiama. E’ seduta nel suo letto, diritta come una candela e
con gli occhi spalancati. E’ una ragazzina dai polsi sottili e
dal faccino magro e diafano. E’ parzialmente paralizzata, aveva
appena ricominciato a camminare tra due infermiere, passo dopo passo.
” Hai sentito? Devo partire” sussurra. “Come, anche
tu?” Ci guardiamo per un po’ senza riuscire a parlare. Il
suo visino è svanito, è solo occhi. Finalmente dice con
una monotona vocina grigia:” Che peccato, eh? Pensare che
quanto hai imparato nella tua vita è stata fatica sprecata”,
e “Però com’è difficile morire, eh?”.
D’un tratto la rigidità innaturale del suo visino cede
alle lacrime e al grido: ” Oh, dover partire dall’Olanda
è la cosa peggiore”, “Oh, perchè non siamo
morti prima!”. Più tardi nella notte la rivedrò
per l’ultima volta.
Nel lavatoio c’è una
piccola donna che regge sul braccio una bacinella di bucato ancora
gocciolante.
Si aggrappa a me, ha l’aria un po’
spiritata. Mi riversa addosso un fiume di parole: “E’
impossibile, com’è possibile, devo partire e non riesco
nemmeno a far asciugare il mio bucato per domani. E il mio bambino è
malato, ha la febbre, non potrebbe far in modo che io non debba
partire?”
(Da
Lettere, 1942 – 1943, a cura di Chiara Passanti, Prefazione di
Jan G. Gaarlandt, Adelphi Edizioni)
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