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  Letteratura  »  Ce ne ricorderemo, di questo pianeta, di Renzo Montagnoli 24/04/2021
 
Ce ne ricorderemo, di questo pianeta

di Renzo Montagnoli



Il 20 novembre 1989 moriva Leonardo Sciascia, a causa di un male incurabile, e i relativi funerali furono religiosi, al fine di non destare troppo scandalo attorno alla famiglia a Racalmuto, come aveva chiesto lui. Forse lo scandalo ci sarebbe stato se le sue spoglie non fossero state traslate secondo i riti cristiani, perché in fondo Sciascia non era certamente ateo, e nemmeno agnostico, secondo una confessione che ebbe a scrivere “mi guidano la ragione, l'illuministico sentire dell'intelligenza, l'umano e cristiano sentimento della vita, la ricerca della verità e la lotta alle ingiustizie, alle imposture e alle mistificazioni”. E in questo miscuglio di ferrea logica e di aspirazione verso l’Assoluto sta tutta l’essenza di uno dei più grandi scrittori del Novecento, un uomo capace di incidere chirurgicamente sulle apparenze per mettere a nudo le verità, ma anche dotato di un cuore che gli faceva comprendere la natura degli altri, che gli impediva di assurgere a giudice di tutto e di tutti, ma sempre e solo di se stesso. Nelle sue ultime volontà volle che sulla lapide fosse riportato questo epitaffio “Ce ne ricorderemo, di questo pianeta “, una frase dello scrittore francese Auguste de Villiers de L’Isle-Adam, una frase che ha dato luogo ai commenti più disparati e che nei più ha visto una sorta di completa tardiva conversione, ma abbiamo una spiegazione autentica dello stesso Sciascia che dice:”Ho deciso di farmi scrivere sulla tomba qualcosa di meno personale e di più ameno, e precisamente questa frase di  Villiers de l’Isle-Adam “Ce ne ricorderemo, di questo pianeta". E così partecipo alla scommessa di Pascal e avverto che una certa attenzione questa terra, questa vita, la meritano”. E quindi il nostro maestro siciliano si era posto, chissà quante volte, il problema dell’esistenza di Dio e forse aveva dato la sua soluzione alla domanda, constatando che questo mondo di cui temporaneamente siamo parte, questa effimera vita meritevole di essere vissuta non possono che essere la prova di qualcosa di tanto più grande di noi, talmente grande che può essere capito solo con un atto di fede.

Leonardo Sciascia era nato a Racalmuto l’8 gennaio 1921, figlio di un impiegato di una locale miniera di zolfo ed ebbe nel complesso una vita tranquilla, riuscendo al termine degli studi a prendere il diploma di maestro. La sua non fu mai una esistenza avventurosa, ma ebbe come riflesso la straordinaria capacità di leggere oltre le righe, di cercare sempre, ovunque e contro chiunque la verità. Sposatosi nel 1944 con la maestra Maria Andronico, da cui avrà due figlie, nel 1948 ci fu un evento che incise profondamente sulla sua esistenza, e cioè il suicidio del fratello Giuseppe.

E’ nel 1950 che comincia a pubblicare con le “Favole della dittatura”, recensito da Pasolini e che è costituito da 27 brevi testi poetici, delle favole esopiche, a cui nel 1952 segue la raccolta di liriche La Sicilia, il suo cuore. Si tratta di un campo, quello poetico, in cui forse Sascia non eccelle, ma che presenta l’evoluzione artistica e filosofica dell’autore, uno Sciascia in embrione, sprazzi di ciò che sarà.

Occorrerà arrivare al 1956 con Le parrocchie di Regalpetra, una autobiografia della sua esperienza di insegnante per comprendere che Sciascia si sta avvicinando a grandi passi alla letteratura con la elle maiuscola. Non siamo ancora all’apoteosi, che verrà solo con i romanzi, ma intanto ci si può accontentare – si fa per dire – dei racconti della raccolta Gli zii di Sicilia, che vide la luce nel 1958. E così nel 1961 esce Il giorno della civetta, una precisa e circostanziata denuncia della mafia e che gli procurò non pochi grattacapi, perché per la prima volta l’organizzazione malavitosa siciliana non vi era rappresentata apologeticamente, ma come una piovra, un cancro ramificato che cozzava chiaramente con chi ne negava l’esistenza o ne forniva una visione folcloristica. Segue nel 1963 Il consiglio d’Egitto, ambientato nel ‘700 a Palermo con la figura di un abile falsario, l’abate Giuseppe Vella, che arriva a inventare un antico codice arabo in grado di togliere ogni legittimità ai baroni. E del 1967 è il saggio Morte dell’Inquisitore, di ambientazione secentesca che parla dell’eretico siculo fra’ Diego La Matina, una vittima della Santa inquisizione siciliana e che uccide l’inquisitore Juan Lopez De Cisneros.

I romanzi, tuttavia, sembra siano i più graditi ai lettori ed ecco allora che nel 1966 esce A ciascuno il suo, in cui il tema dominante è la diffusa omertà. Del 1971 è Il contesto, una tormentata vicenda di omicidi di giudici. Dal giallo, frutto di creatività, agli episodi di cronaca nera, aggiustati allo scopo di mostrare una realtà che si vuole disconoscere, il passo è breve ed ecco allora Atti relativi alla morte di Raymond Roussel  del 1971,  I pugnalatori del  1976 e L’affaire Moro del 1978, quest’ultimo sul sequestro, il processo e l'omicidio nella cosiddetta "prigione del popolo" di  Aldo Moro organizzato dalle Brigate Rosse, frutto anche dei lavori della relativa commissione d’inchiesta di cui farà parte come parlamentare. Anche in questo caso cercherà la verità, senza tuttavia raggiungerla, ma lasciando delle tracce logiche in grado di dare interpretazioni e di arrivare anche a risultati qualora la politica lo avesse voluto, ma si sa che non volle. Del 1974 è Todo modo, sul bizantinismo dei politici democristiani e della loro innata coerenza nelle connessioni con il malaffare, da cui sarà tratto un noto film, come nel caso di altri romanzi di Sciascia. Per me, però, il miglior Sciascia è quello che cerca la verità nell’uomo, pone in evidenza le nature degli esseri viventi, i loro grandi e piccoli drammi, ed ecco allora La scomparsa di Majorana del 1975 e Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia, dell’anno successivo.

Forse l’aspetto meno chiaro e contraddittorio della sua vita è stato quello politico e la sua polemica con l’antimafia, in particolare con Paolo Borsellino, con il suo sospetto di una casta, un sodalizio di magistrari dediti al carrierismo. Si trattò di una voce fuori dal coro e forse ancor più stridente alla luce della sua denuncia di anni prima del fenomeno mafioso. Secondo me avrebbe dovuto restare fuori dal mondo politico, in considerazione anche della sua ondivaga opinione, che lo pone fra gli eletti come indipendente di sinistra al consiglio comunale di Palermo e, nelle liste radicali, anche quale deputato europeo (incarico a cui rinunciò) nonché a membro della Camera italiana, incarico che preferì. Nulla da dire sul suo impegno in funzione della carica, ma credo che abbia finito con il trovarsi come un pesce fuor d’acqua, in un ambiente irto di trabocchetti e caratterizzato da insincerità. Praticò anche il giornalismo, con il Corriere della Sera e la Stampa, un’attività che sembrava confacergli, con quella passione di reagire alle storture quotidiane, denunciandole a chiare lettere.

Io, però, allo Sciascia politico e giornalista preferisco il letterato, forse il più grande che ha avuto la Sicilia, ancor più grande di Luigi Pirandello, e senz’altro uno dei maggiori a livello mondiale, una presenza tanto più grande ora che anno dopo anno si acuisce la sua assenza.

Non si può senz’altro disconoscere l’acume dei suoi scritti, quella tenacia con la quale poco a poco riesce a squarciare il velo di un’omertà che non è solo siciliana, ma è propria anche di chi, per quieto vivere, preferisce volgere gli occhi altrove; è uno stile, il suo, in cui la sottigliezza delle riflessioni, nel far sorgere dubbi, conduce per mano alla verità, in un crescendo a tratti rossiniano, una capacità che ha quasi del prodigioso, perché la passione è opportunamente frenata dalla ferrea logica di un uomo che ha cercato di conoscere l’animo degli altri esseri umani, in una continua sfida che lo ha portato alla pienezza della vita. Sì, è proprio vero: Ce ne ricorderemo, di questo pianeta.

 
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