Ce
ne ricorderemo, di questo pianeta
di
Renzo Montagnoli
Il
20 novembre 1989 moriva Leonardo Sciascia, a causa di un male
incurabile, e i relativi funerali furono religiosi, al fine di non
destare troppo scandalo attorno alla famiglia a Racalmuto, come aveva
chiesto lui. Forse lo scandalo ci sarebbe stato se le sue spoglie non
fossero state traslate secondo i riti cristiani, perché in
fondo Sciascia non era certamente ateo, e nemmeno agnostico, secondo
una confessione che ebbe a scrivere “mi
guidano la ragione, l'illuministico sentire dell'intelligenza,
l'umano e cristiano sentimento della vita, la ricerca della verità
e la lotta alle ingiustizie, alle imposture e alle mistificazioni”.
E
in questo miscuglio di ferrea logica e di aspirazione verso
l’Assoluto sta tutta l’essenza di uno dei più
grandi scrittori del Novecento, un uomo capace di incidere
chirurgicamente sulle apparenze per mettere a nudo le verità,
ma anche dotato di un cuore che gli faceva comprendere la natura
degli altri, che gli impediva di assurgere
a giudice di tutto e di tutti, ma sempre e solo di se stesso. Nelle
sue ultime volontà volle che sulla lapide fosse riportato
questo epitaffio “Ce
ne ricorderemo, di questo pianeta
“,
una frase dello scrittore francese Auguste de Villiers de
L’Isle-Adam, una frase che ha dato luogo ai commenti più
disparati e che nei più ha visto una sorta di completa tardiva
conversione, ma abbiamo una spiegazione autentica dello stesso
Sciascia che dice:”Ho
deciso di farmi scrivere sulla tomba qualcosa di meno personale e di
più ameno, e precisamente questa frase di Villiers de
l’Isle-Adam “Ce ne ricorderemo, di questo pianeta".
E così partecipo alla scommessa di Pascal e avverto che
una certa attenzione questa terra, questa vita, la meritano”.
E quindi il nostro maestro siciliano si era posto, chissà
quante volte, il problema dell’esistenza di Dio e forse aveva
dato la sua soluzione alla domanda, constatando che questo mondo di
cui temporaneamente siamo parte, questa effimera vita meritevole di
essere vissuta non possono che essere la prova di qualcosa di tanto
più grande di noi, talmente grande che può essere
capito solo con un atto di fede.
Leonardo
Sciascia era nato a Racalmuto l’8 gennaio 1921, figlio di un
impiegato di una locale miniera di zolfo ed ebbe nel complesso una
vita tranquilla, riuscendo al termine degli studi a prendere il
diploma di maestro. La sua non fu mai una esistenza
avventurosa, ma ebbe come riflesso la straordinaria capacità
di leggere oltre le righe, di cercare sempre, ovunque e contro
chiunque la verità. Sposatosi nel 1944 con la maestra Maria
Andronico, da cui avrà due figlie, nel 1948 ci fu un evento
che incise profondamente sulla sua esistenza, e cioè il
suicidio del fratello Giuseppe.
E’
nel 1950 che comincia a pubblicare con le “Favole
della dittatura”,
recensito da Pasolini e che è costituito da 27 brevi testi
poetici, delle favole esopiche, a cui nel 1952 segue la raccolta di
liriche La
Sicilia, il suo cuore.
Si tratta di un campo, quello poetico, in cui forse Sascia non
eccelle, ma che presenta l’evoluzione artistica e filosofica
dell’autore, uno
Sciascia in embrione, sprazzi di ciò che sarà.
Occorrerà
arrivare al 1956 con Le
parrocchie di Regalpetra,
una autobiografia della sua esperienza di insegnante per comprendere
che Sciascia si sta avvicinando a grandi passi alla letteratura con
la elle maiuscola.
Non siamo ancora all’apoteosi, che verrà solo con i
romanzi, ma intanto ci si può accontentare – si fa per
dire – dei racconti della raccolta Gli
zii di Sicilia,
che vide la luce nel 1958. E così nel 1961 esce Il
giorno della civetta,
una precisa e circostanziata denuncia della mafia e che gli procurò
non pochi grattacapi, perché per la prima volta
l’organizzazione malavitosa siciliana non vi era rappresentata
apologeticamente, ma come una piovra, un cancro ramificato che
cozzava chiaramente con chi ne negava l’esistenza o ne forniva
una visione folcloristica. Segue nel 1963 Il
consiglio d’Egitto,
ambientato nel ‘700 a Palermo con la figura di un abile
falsario, l’abate Giuseppe Vella, che arriva a inventare un
antico codice arabo in grado di togliere ogni legittimità ai
baroni. E del 1967 è il saggio Morte
dell’Inquisitore,
di ambientazione secentesca che parla dell’eretico siculo fra’
Diego La Matina, una vittima della Santa inquisizione siciliana e che
uccide l’inquisitore Juan Lopez De Cisneros.
I
romanzi, tuttavia, sembra siano i più graditi ai lettori ed
ecco allora che nel 1966 esce A
ciascuno il suo,
in cui il tema dominante è la diffusa omertà. Del 1971
è Il
contesto,
una tormentata vicenda di omicidi di giudici. Dal giallo, frutto di
creatività, agli episodi di cronaca nera, aggiustati allo
scopo di mostrare una realtà che si vuole disconoscere, il
passo è breve ed ecco allora Atti
relativi alla morte di Raymond Roussel
del 1971, I
pugnalatori del
1976 e L’affaire
Moro del
1978, quest’ultimo sul sequestro, il processo e l'omicidio
nella cosiddetta "prigione del popolo" di Aldo
Moro organizzato
dalle Brigate Rosse, frutto anche dei lavori della relativa
commissione d’inchiesta di cui farà parte come
parlamentare. Anche in questo caso cercherà la verità,
senza tuttavia raggiungerla, ma lasciando delle tracce logiche in
grado di dare interpretazioni e di arrivare anche a risultati qualora
la politica lo avesse voluto, ma si sa che non volle. Del 1974 è
Todo
modo,
sul bizantinismo dei politici democristiani e della loro innata
coerenza nelle connessioni con il malaffare, da cui sarà
tratto un noto film, come nel caso di altri romanzi di Sciascia. Per
me, però, il miglior Sciascia è quello che cerca la
verità nell’uomo, pone in evidenza le nature degli
esseri viventi, i loro grandi e piccoli drammi, ed ecco allora La
scomparsa di Majorana
del 1975 e Candido,
ovvero un sogno fatto in Sicilia,
dell’anno successivo.
Forse
l’aspetto meno chiaro e contraddittorio della sua vita è
stato quello politico e la sua polemica con l’antimafia, in
particolare con Paolo Borsellino, con il suo sospetto di una casta,
un sodalizio di magistrari dediti al carrierismo. Si trattò di
una voce fuori dal coro e forse ancor più stridente alla luce
della sua denuncia di anni prima del fenomeno mafioso. Secondo me
avrebbe dovuto restare fuori dal mondo politico, in considerazione
anche della sua ondivaga opinione, che lo pone fra gli eletti come
indipendente di sinistra al consiglio comunale di Palermo e, nelle
liste radicali, anche quale deputato europeo (incarico a cui
rinunciò) nonché a membro della Camera italiana,
incarico che preferì. Nulla da dire sul suo impegno in
funzione della carica, ma credo che abbia finito con il trovarsi come
un pesce fuor d’acqua, in un ambiente irto di trabocchetti e
caratterizzato da insincerità. Praticò anche il
giornalismo, con il Corriere della Sera e la Stampa, un’attività
che sembrava confacergli, con quella passione di reagire alle
storture quotidiane, denunciandole a chiare lettere.
Io,
però, allo Sciascia politico e giornalista preferisco il
letterato, forse il più grande che ha avuto la Sicilia, ancor
più grande di Luigi Pirandello, e senz’altro uno dei
maggiori a livello mondiale, una presenza tanto più grande ora
che anno dopo anno si acuisce la sua assenza.
Non
si può senz’altro disconoscere l’acume dei suoi
scritti, quella tenacia con la quale poco a poco riesce a squarciare
il velo di un’omertà che non è solo siciliana, ma
è propria anche di chi, per quieto vivere, preferisce volgere
gli occhi altrove; è uno stile, il suo, in cui la sottigliezza
delle riflessioni, nel far sorgere dubbi, conduce per mano alla
verità, in un crescendo a tratti rossiniano, una capacità
che ha quasi del prodigioso, perché la passione è
opportunamente frenata dalla ferrea logica di un uomo che ha cercato
di conoscere l’animo degli altri esseri umani, in una continua
sfida che lo ha portato alla pienezza della vita. Sì, è
proprio vero: Ce
ne ricorderemo, di questo pianeta.
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