Apeirogon
– Colum McCann – Feltrinelli – Pagg. 528 –
ISBN 9788807034084 – Euro 22,00
“Non
finirà finché non parliamo”
Tra
le emozioni della narrativa e le nozioni del saggio, senza forse
tralasciare nemmeno ricostruzioni riconducibili al genere della
biografia, il libro di Colum McCann si presenta al lettore, fin dalle
primissime pagine, come “un romanzo ibrido”. È lo
stesso autore, nato in Irlanda e residente da tempo negli Stati
Uniti, a sottolinearne la natura al termine di questa sua lunga opera
che prende pian piano la forma di un poligono dal numero
infinitamente numerabile di lati. “Apeirogon”, appunto,
curioso, laconico, perfetto titolo preso in prestito dalla
geometria.
Apparso
in lingua originale nel 2020, il volume è stato pubblicato in
Italia da Feltrinelli lo scorso mese di marzo. La nota introduttiva
di McCann non lascia dubbi su quanta realtà vi sia nel
contenuto delle sue oltre cinquecento pagine che – non è
da escludere – avrebbero potuto continuare ancora a oltranza il
loro racconto, proseguire seguendo una miriade di strade che si
intersecano fra loro, anche perché il tema affrontato è
senz’altro ricco di vicende e sfaccettature diverse. La
“fiction”, dunque, si riduce a ben poca cosa attorno ai
due protagonisti che si muovono sullo sfondo della purtroppo
incancrenita questione israelo-palestinese, ormai da più di
sette insanguinati decenni al centro delle cronache internazionali e
all’attenzione, non sempre in verità così
attenta, delle diplomazie occidentali che, a ben vedere, nulla hanno
risolto. Bassam Aramin e Rami Elhanan, arabo palestinese il primo ed
ebreo israeliano il secondo, si ritrovano accomunati dal dolore e
dalla perdita: le rispettive figlie, Abir e Smadar, seppur a distanza
di due lustri, sono cadute vittima della violenza e dell’odio
più assurdi che generano lutti da ambo le parti. Era il 2007
quando Abir, all’età di soli dieci anni, dopo aver
acquistato un braccialetto di caramelle del valore di due shekel (“le
caramelle più costose del mondo”), in prossimità
della scuola venne colpita alla testa da un proiettile di gomma
sparato dal fucile di un giovane soldato israeliano a bordo di una
jeep; Smadar, invece, era quasi quattordicenne allorché, nel
1997, un attentato suicida a opera di tre palestinesi in Ben Yehuda
Street a Gerusalemme aveva reciso la sua giovane vita.
La
penna di McCann si sofferma in modo particolare su questi drammatici
fatti, ritornandoci a più riprese in tutto il corso della
narrazione, quasi sezionandoli con estrema cura nel tentativo di
estrarne tutti i dettagli, persino quelli più macabri, come il
recupero delle parti dei cadaveri disseminate nell’area
dell’attentato, addirittura di un bulbo oculare posatosi sulla
tenda di un caffè. Ogni singolo elemento, dal giubbotto degli
attentatori alle rotte migratorie degli uccelli, dallo zaghareet a
“Le mille e una notte” o al Casinò di Gerico, solo
per fare pochissimi e assai differenti esempi, viene sviscerato per
dare subito il via a rivoli di associazioni e relative annotazioni,
andando spesso a cogliere curiosità e fatti vicini o molto
lontani nel tempo, anche riportando alla luce storie singolari come
quella del funambolo francese Philippe Petit. Tutto questo sempre
ruotando attorno alla morte delle due ragazze e alla vita dei loro
padri, uniti, oltre che dalla tragedia, pure dal convincimento che un
altro modus vivendi sia possibile e che il dialogo e l’accettazione
dell’altro, in quanto essere umano, possano essere la sola via
d’uscita dalla spirale di morte e vendetta che avvelena la
Terra Santa. La trascrizione delle parole di Rami e Bassam, tratta da
alcune interviste e riportata nelle pagine centrali del libro, induce
a riflettere come non mai e, specie nel caso del primo, costituiscono
un vero pugno nello stomaco per lo stato ebraico che dal 1948, come
riconoscono anche tanti attivisti israeliani tacciati immancabilmente
di tradimento, attua una vera e propria occupazione ai danni di un
popolo, quello palestinese, privato della propria dignità.
«Mi
chiamo Rami Elhanan. Sono il padre di Smadar. Sono un graphic
designer di sessantasette anni, un israeliano, un ebreo, un
gerosolomitano di settima generazione. […] Quando qualcuno
uccide tua figlia vuoi mettere le cose in pari. Vuoi uscire e
uccidere un arabo, qualsiasi arabo […] Poi dopo un po’
cominci a farti delle domande […] E ti chiedi, Uccidere
qualcuno mi restituirà mia figlia? […] Non tornerà,
la tua Smadari. E a questa nuova realtà ti ci devi abituare.
Pertanto, in un lento passaggio graduale e complesso, ti sposti
dall’altra parte: cominci a chiederti, cosa le è
successo, e perché? È difficile, è terribile, è
estenuante. Come è potuta succedere una cosa simile? Cosa
potrebbe portare qualcuno a essere tanto arrabbiato, folle, spietato,
disperato, e così stupido e patetico, da essere disposto a
farsi esplodere accanto a una ragazzina di nemmeno quattordici anni?
Come fai a capire un simile istinto? Dilaniare il tuo stesso corpo?
[…] Che cosa lo ha spinto? […] Chi gli ha insegnato una
cosa simile? Gliel’ho forse insegnata io? Gliel’ha
insegnata il suo governo? O il mio governo? […] Certe persone
hanno interesse nel mantenere il silenzio. Altre hanno interesse nel
seminare odio basato sulla paura. La paura produce denaro, produce
leggi, prende la terra, costruisce insediamenti […] Ai nostri
politici piace spaventarci. A noi piace spaventarci l’un
l’altro. Usiamo la parola sicurezza per tappare la bocca al
prossimo. Ma non si tratta di sicurezza, si tratta di occupare la
vita di qualcun altro. […] L’Occupazione non è né
giusta né sostenibile. Ed essere contro l’Occupazione
non è in alcun modo una forma di antisemitismo. […]»
«Mi
chiamo Bassam Aramin, sono il padre di Abir. Sono un palestinese, un
musulmano, un arabo. Ho quarantotto anni. […] Da bambino
pensavo che essere palestinese, musulmano, arabo, fosse una punizione
divina. E me la portavo dietro come un grosso peso intorno al collo.
Da bambino non fai che chiedere perché, ma da adulto, di
chiedere perché te lo sei ormai dimenticato. Accetti e basta.
Hanno distrutto le nostre case. Accetti. Ci hanno ammassato
attraverso i checkpoint. Accetti. […] Ma in prigione cominciai
a riflettere sulle nostre esistenze, sulla nostra identità, in
quanto arabi, e questo mi portò a riflettere anche sugli
ebrei. E a quel punto compresi che l’Olocausto era reale, era
successo per davvero. […] Ci sarà sicurezza per tutti
quando avremo giustizia per tutti. Come ho sempre detto, è un
disastro scoprire l’umanità del tuo nemico, la sua
nobiltà, perché a quel punto non è più
tuo nemico, non può proprio esserlo. […] Abbiamo
bisogno di imparare a condividere questa terra, altrimenti la dovremo
condividere nelle nostre tombe. […]»
Parole
che i due genitori, stretti da vera e sincera amicizia, nonché
membri di movimenti e associazioni che riuniscono famiglie
appartenenti a entrambi i lati della “barricata”
(“Parents Circle” e “Combattenti per la Pace”),
hanno iniziato a ripetere all’infinito, portandole in viaggio
ovunque, anche all’estero. Perché parlare e raccontarsi
significa infine condividere il proprio dolore, che coincide con
quello altrui, e contribuire così a una “lotta”
non violenta a dispetto di quanto invece esigono le rispettive
leadership. “Non finirà finché non parliamo”
recita la scritta in ebraico sul paraurti della motocicletta di Rami,
ed è vero.
“Apeirogon”
non è un libro semplice, la sua lettura risulta alquanto
impegnativa e lo stile adottato qui dall’autore potrebbe
cogliere impreparati, ma ha il grande merito di puntare il dito
anzitutto contro l’occupazione, raccontata con franchezza nella
propria brutale quotidianità fatta di check points, incursioni
delle jeep militari, perquisizioni e umiliazioni di vario tipo (e chi
ha messo piede in Cisgiordania almeno una volta, anche per poco
tempo, sa bene che queste non sono fantasie da scrittori). Trattare
un simile argomento equivale a camminare su un terreno minato per
tanti motivi; tuttavia, penso che Colum McCann, nonostante alcune
polemiche dopo l’uscita del volume, lo abbia affrontato con
onestà; il risultato è un’opera coinvolgente e di
assai ampio respiro che può dare il proprio valido contributo
alla conoscenza di quanto realmente avviene in Palestina e smuovere,
di conseguenza, la coscienza dell’opinione pubblica in
generale. Affinché nessun bambino sia più l’inerme
bersaglio del fucile di un soldato, al pari di una cisterna piena
d’acqua, e nessuno debba più saltare in aria per mano di
quella premeditata follia suicida che non potrà mai essere la
soluzione all’ingiustizia e all’oppressione. Perché
anche il soldato che preme il grilletto e i kamikaze imbottiti
d’esplosivo, come sottolineano gli stessi Bassam e Rami, sono
vittime dell’intero sistema di guerra perenne. Una lettura
decisamente consigliata!
Laura
Vargiu
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