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  Letteratura  »  La gloria della lingua, di Daniele Piccini, edito da Morcelliana e recensito da Franca Canapini 29/01/2022
 
La gloria della lingua. Sulla sorte dei poeti e della poesia – Daniele Piccini – Morcelliana – Pagg. 128 – ISBN 9788828400493 – Euro 12,50


“…non è il mondan romore altro ch’un fiato

di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi/ e muta nome perché muta lato…”



Quanto mai opportuno questo bel saggio per chi come me s’interroga spesso sulla sorte dei poeti e della poesia.

Frequentando per anni blog e siti di poesia, è facile rendersi conto che a cimentarci con la scrittura poetica siamo in migliaia di migliaia. Ogni anche modesta località italiana (ma se diamo un’occhiata in rete pure del mondo intero) ha il suo bel gruppo di aspiranti poeti, a volte isolati a volte riuniti intorno ad Associazioni e/o riviste culturali. Poeti? Chi può dire chi è poeta e chi non lo è? Meglio dire che siamo tutti apprendisti, perché tutti stiamo “cercando di imparare” a fare poesia; arte che richiede entusiasmo, dedizione, ricerca continua, studio, conoscenza, confronto ed anche riflessione sulle sue essenza, funzione, collocazione nel mondo dell’uomo.

Nonostante questa gran fioritura di pensieri poetici però viviamo in un’epoca d’immersione totale nella tecnica e perciò poco incline alla poesia. Di fatto oggi moltissimi scrivono e pochissimi leggono. Viene allora da chiederci se la poesia non sia morta; ma la poesia, ben lo sentiamo nel nostro intimo, non morirà finché ci sarà un’umanità senziente, che soffre e cerca la felicità, che si stupisce della bellezza e non sa accettare supinamente la morte. La poesia e il poeta vanno soltanto ricollocati in una nuova dimensione: quale?


Oggi la poesia è costretta a ripensarsi continuamente, a dare ragione di sé e a progettarsi anche in considerazione dei suoi negatori – Premette Daniele Piccini nel suo saggio La gloria della lingua - L’assenza di uditorio vasto e diffuso la porta a farsi dialogo intimo. La fine della gloria letteraria la sospinge verso territori insospettati, incogniti..” perciò il Critico si pone l’obiettivo di indagare su cosa significhi essere poeta in un’epoca non incline alla poesia.

Per farlo sceglie un percorso originale, fatto di “passi” lunghi su alcuni fatti letterari essenziali allo sviluppo della sua tesi, che partendo da Dante e Leopardi attraversano buona parte della poesia italiana del Novecento e giungono a Luzi.

E’ chiara la scelta di campo: il libro, che potrebbe essere intitolato anche da Dante a Luzi, persegue un’idea molto alta della poesia, vista come “poema sacro che, se in Dante è un tutt’uno integro, nei secoli va frantumandosi ma non perdendo la sua connotazione di sacralità per cui la poesia resta, che abbia molti lettori o non li abbia, lingua sacra con la quale l’uomo tenta di dire l’indicibile, il divino che lo abita”.


I sette capitoli che compongono l’opera, data la ricchezza di notizie e la profondità delle esegesi, possono essere letti e considerati come saggi a sé stanti, ma tutti insieme costituiscono i mattoni che vanno a formare la casa del poeta contemporaneo.

A costo di risultare noiosa, per evidenziare la profondità dell’indagine scelgo di tratteggiare gli argomenti principali di ognuno.

Nel primo capitolo, troviamo Dante che fa dire a Oderisi da Gubbio la vanità di ogni gloria terrena e di ogni ricerca di fama e nominanza, facendoci così riflettere sull’antinomia vissuta dall’artista tra la tensione all’eccellenza e la definitiva nullità di ogni conquista di fronte all’eternità. Ne scaturisce la necessità di conquistare la dimensione dell’umiltà nella consapevolezza che i linguaggi artistici mutano, la gloria passa di mano in mano al mutare della maniera, ma che ognuno concorre a costruire la tradizione sulla quale il poeta “novo” edifica la propria visione.


IL secondo capitolo presenta come tema il “tu” della poesia e ci meraviglia, per la sua grande attualità, con l’osservazione di Leopardi ( Zibaldone il 5 febbraio 1828) “Oramai si può dire con verità massime in Italia, che sono più di numero gli scrittori che i lettori (giacché gran parte degli scrittori non legge, o legge men che scrive). Quindi ancora si vegga che gloria si possa oggi sperare in letteratura. In Italia si può dir che chi legge, non legge che per iscrivere, quindi non pensa che a sé, etc.”

In questo atteggiamento egotico e auto-promozionale degli scrittori interessati soltanto a sé – commenta l’autore - Leopardi sembra additare il frantumarsi dello spazio della poesia in una miriade di operazioni finalizzate all’interesse individuale, che infrange il sogno umanistico di una parola che valga per tutti. Per Leopardi è finita la gloria della lingua. Con essa finisce anche il colloquio/dialogo con i lettori, la parola non viene più raccolta, sembra cadere nel vuoto. Con chi può parlare ora il poeta per definire il senso di sé, delle cose, del mondo?

Con “Silvia” Leopardi inaugura il “tu” (l’alterità) che è definito e indefinito, un ricevente immaginario, proiezione e fantasma che viene dall’interiorità del poeta e permette il superamento della solitudine e del mutismo nella la finzione di un dialogo potenziale.

Dopo di lui molti poeti del Novecento hanno seguito le sue orme: Amelia Rosselli, Andrea Zanzotto, Vittorio Sereni, Giorgio Caproni. Eugenio Montale è uno dei più complessi artefici del “tu”.

Il terzo “passo” ha come espressione chiave “scrivere sull’acqua” e prende spunto da John Keats che, presentendo la fine di ogni gloria poetica e del sogno umanistico di rimanere eterni, fece scrivere sulla sua tomba “Qui giace uno il cui nome era scritto sull’acqua”.

L’autore si domanda se questa sensazione di “scrivere sull’acqua” cioè di consegnarsi al flusso che passa e scompare, sia da considerarsi solo negativa o non abbia invece in sé qualcosa di buono e si risponde positivamente. Positivo è il fatto che scrivere sull’acqua, può voler dire scrivere su una sostanza essenziale e pura, sul codice vitale della realtà che non è destinato alla stasi e all’immobilità.

La parola chiave del quarto capitolo è “povertà”.

In un tempo di privazione (della gloria?) il poeta è disponibile ad accettare una condizione spoglia, autentica, essenziale, di povertà. Condizione inverata dai Crepuscolari, i quali ripetono molto spesso nelle loro opere la parola “povero”e insistono volutamente sulla deminutio, abbassando di tono e di registro.

Il tema della povertà lo ritroviamo anche nei limoni di Montale dove l’antiretorica crepuscolare diviene nuovo sistema di valori, personificato dallo splendore umile, ma tenace e odoroso dei limoni. E con diverse e significative sfumature in Saba, Sandro Penna e Dario Bellezza, Aldo Capitini, Mario Luzi, Davide Maria Turoldo, Pierluigi Cappello.

Argomento del quinto capitolo è il rapporto tra storia e poesia. Piccini analizza gli atteggiamenti di alcuni poeti del secondo Novecento a proposito dei condizionamenti ideologici e riflette come ciascuno a suo modo abbia “sentito” che la poesia non può essere soggetta a costrizione. In particolare ci parla del carteggio tra Luzi e Sereni sulle prerogative della parola poetica in un momento culturale che chiedeva ad entrambi di parteggiare per un’idea storico-politica, dell’atteggiamento di Pasolini nei confronti di Luzi e dei rapporti tra Fortini, Sereni e Luzi. Più decisa di quella degli altri è la presa di posizione di Mario Luzi: la poesia è un linguaggio che rifiuta di identificarsi con con le parole d’ordine di un’epoca. E’ il punto di intersezione tra tempo e oltre-tempo, tra storia ed eterno.


Nel sesto “passo” il focus si riaccende sull’assenza di un pubblico che ascolti le parole del poeta e sulla conseguente autoreferenzialità dei poeti, evidenziata da Alfonso Belardinelli e Franco Cordelli. Varie nel tempo le reazioni dei poeti al problema dell’autoreferenzialità. Per Sereni manca la comunanza, la facoltà di raccogliersi con gli altri intorno a qualcosa.
Perciò al poeta necessita un “uditorio possibile” che può anche essere immaginario.

Giovanni Raboni sente la solitudine del poeta di fronte a un pubblico che non comprende e non ascolta e decide di rendersi riconoscibile tramite forme poetiche più tradizionali quali il sonetto. Anche Mario Luzi confessa il proprio parziale scacco: l’accordo tra la parola poetica e la verità divina è dilaniato e franto. Si tratta di patire insieme alla propria opera nel suo farsi.


E siamo giunti all’ultimo “passo” quello della risposta alla domanda se, alla luce di quanto scandagliato, la poesia sia ancora possibile.

In queste pagine l’autore ci parla del “martirio” di Pier Paolo Pasolini e di Alda Merini.

Considera che Pasolini ci consegna una letteratura viva grazie al proprio sangue, un soffio al di sopra delle contraddizioni e lacerazioni che la postulerebbero finita e Merini, come un mistico, continua a parlare a un “tu” amoroso, dal fondo di una passione che coinvolge tutto il mondo. Con Pasolini e Merini il poeta ha perso del tutto la corona ed è un derelitto per il quale la poesia è una forma di martirio.

Questa è la dimensione possibile del poeta contemporaneo:

lasciare che la propria parola scorra sull’acqua della vita di cui è testimone- martire; con la consapevolezza che non è vana. Espressa o sottaciuta, come tenuta fuori dal corso degli eventi, la parola è un seme, che potrà granire, dare il suo frutto, forse ignorato dallo stesso poeta.


Daniele Piccini sviluppa il suo discorso con grande competenza letteraria usando un linguaggio ricco e sapiente perciò “glorioso”, e nel costruire per noi un quadro letterario vivo, appassionato e denso di suggestioni, ci propone delle risposte plausibili alle nostre domande sulla sorte dei poeti e della poesia oggi, con le quali confrontarci o nelle quali ritrovarci.

Consiglio vivamente la lettura di La gloria della lingua.



Biografia
Daniele Piccini insegna Filologia della letteratura italiana all’Università per Stranieri di Perugia. Si è occupato in particolare di testi poetici trecenteschi, con edizioni critiche e commentate, e di poesia del Novecento. Tra i suoi libri saggistici si possono ricordare l’antologia La poesia italiana dal 1960 a oggi (bur Rizzoli 2005) e Letteratura come desiderio (Moretti e Vitali 2008). Ha pubblicato cinque libri di poesia: Terra dei voti (Crocetti 2003); Canzoniere scritto solo per amore (Jaca Book 2005); Altra stagione (Aragno 2006); Inizio fine (Crocetti 2013) e Regni (Manni 2017).


Franca Canapini


 
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