La
gloria della lingua. Sulla sorte
dei poeti e della poesia – Daniele Piccini –
Morcelliana – Pagg. 128 – ISBN 9788828400493
– Euro 12,50
“…non
è il mondan romore altro ch’un fiato
di
vento, ch’or vien quinci e or vien quindi/ e muta nome perché
muta lato…”
Quanto
mai opportuno questo bel saggio per chi come me s’interroga
spesso sulla sorte dei poeti e della poesia.
Frequentando
per anni blog e siti di poesia, è facile rendersi conto che a
cimentarci con la scrittura poetica siamo in migliaia di migliaia.
Ogni anche modesta località italiana (ma se diamo un’occhiata
in rete pure del mondo intero) ha il suo bel gruppo di aspiranti
poeti, a volte isolati a volte riuniti intorno ad Associazioni e/o
riviste culturali. Poeti? Chi può dire chi è poeta e
chi non lo è? Meglio dire che siamo tutti apprendisti, perché
tutti stiamo “cercando di imparare” a fare poesia; arte
che richiede entusiasmo, dedizione, ricerca continua, studio,
conoscenza, confronto ed anche riflessione sulle sue essenza,
funzione, collocazione nel mondo dell’uomo.
Nonostante
questa gran fioritura di pensieri poetici però viviamo in
un’epoca d’immersione totale nella tecnica e perciò
poco incline alla poesia. Di fatto oggi moltissimi scrivono e
pochissimi leggono. Viene allora da chiederci se la poesia non
sia morta; ma la poesia, ben lo sentiamo nel nostro intimo, non
morirà finché ci sarà un’umanità
senziente, che soffre e cerca la felicità, che si stupisce
della bellezza e non sa accettare supinamente la morte. La poesia e
il poeta vanno soltanto ricollocati in una nuova dimensione: quale?
“Oggi
la poesia è costretta a ripensarsi continuamente, a dare
ragione di sé e a progettarsi anche in considerazione dei suoi
negatori – Premette Daniele Piccini nel suo saggio La gloria
della lingua - L’assenza di uditorio vasto e diffuso la
porta a farsi dialogo intimo. La fine della gloria letteraria
la sospinge verso territori insospettati, incogniti..” perciò
il Critico si pone l’obiettivo di indagare su cosa significhi
essere poeta in un’epoca non incline alla poesia.
Per
farlo sceglie un percorso originale, fatto di “passi”
lunghi su alcuni fatti letterari essenziali allo sviluppo della sua
tesi, che partendo da Dante e Leopardi attraversano buona parte della
poesia italiana del Novecento e giungono a Luzi.
E’
chiara la scelta di campo: il libro, che potrebbe essere intitolato
anche da Dante a Luzi, persegue un’idea molto alta della
poesia, vista come “poema sacro che, se in Dante è un
tutt’uno integro, nei secoli va frantumandosi ma non perdendo
la sua connotazione di sacralità per cui la poesia resta,
che abbia molti lettori o non li abbia, lingua sacra con la quale
l’uomo tenta di dire l’indicibile, il divino che lo
abita”.
I
sette capitoli che compongono l’opera, data la ricchezza di
notizie e la profondità delle esegesi, possono essere letti e
considerati come saggi a sé stanti, ma tutti insieme
costituiscono i mattoni che vanno a formare la casa del poeta
contemporaneo.
A
costo di risultare noiosa, per evidenziare la profondità
dell’indagine scelgo di tratteggiare gli argomenti principali
di ognuno.
Nel
primo capitolo, troviamo Dante che fa dire a Oderisi da Gubbio la
vanità di ogni gloria terrena e di ogni ricerca di fama e
nominanza, facendoci così riflettere sull’antinomia
vissuta dall’artista tra la tensione all’eccellenza e la
definitiva nullità di ogni conquista di fronte all’eternità.
Ne scaturisce la necessità di conquistare la dimensione
dell’umiltà nella consapevolezza che i linguaggi
artistici mutano, la gloria passa di mano in mano al mutare della
maniera, ma che ognuno concorre a costruire la tradizione sulla
quale il poeta “novo” edifica la propria
visione.
IL
secondo capitolo presenta come tema il “tu” della
poesia e ci meraviglia, per la sua grande attualità, con
l’osservazione di Leopardi ( Zibaldone il 5 febbraio 1828)
“Oramai si può dire con verità massime in
Italia, che sono più di numero gli scrittori che i lettori
(giacché gran parte degli scrittori non legge, o legge men che
scrive). Quindi ancora si vegga che gloria si possa oggi sperare in
letteratura. In Italia si può dir che chi legge, non legge che
per iscrivere, quindi non pensa che a sé, etc.”
In
questo atteggiamento egotico e auto-promozionale degli scrittori
interessati soltanto a sé – commenta l’autore -
Leopardi sembra additare il frantumarsi dello spazio della poesia in
una miriade di operazioni finalizzate all’interesse
individuale, che infrange il sogno umanistico di una parola che valga
per tutti. Per Leopardi è finita la gloria della lingua. Con
essa finisce anche il colloquio/dialogo con i lettori, la parola non
viene più raccolta, sembra cadere nel vuoto. Con chi può
parlare ora il poeta per definire il senso di sé, delle cose,
del mondo?
Con
“Silvia” Leopardi inaugura il “tu”
(l’alterità) che è definito e indefinito, un
ricevente immaginario, proiezione e fantasma che viene
dall’interiorità del poeta e permette il superamento
della solitudine e del mutismo nella la finzione di un dialogo
potenziale.
Dopo
di lui molti poeti del Novecento hanno seguito le sue orme: Amelia
Rosselli, Andrea Zanzotto, Vittorio Sereni, Giorgio Caproni. Eugenio
Montale è uno dei più complessi artefici del “tu”.
Il
terzo “passo” ha come espressione chiave “scrivere
sull’acqua” e prende spunto da John Keats che,
presentendo la fine di ogni gloria poetica e del sogno umanistico di
rimanere eterni, fece scrivere sulla sua tomba “Qui giace uno
il cui nome era scritto sull’acqua”.
L’autore
si domanda se questa sensazione di “scrivere sull’acqua”
cioè di consegnarsi al flusso che passa e scompare, sia da
considerarsi solo negativa o non abbia invece in sé qualcosa
di buono e si risponde positivamente. Positivo è il fatto che
scrivere sull’acqua, può voler dire scrivere su una
sostanza essenziale e pura, sul codice vitale della realtà che
non è destinato alla stasi e all’immobilità.
La
parola chiave del quarto capitolo è “povertà”.
In
un tempo di privazione (della gloria?) il poeta è disponibile
ad accettare una condizione spoglia, autentica, essenziale, di
povertà. Condizione inverata dai Crepuscolari, i quali
ripetono molto spesso nelle loro opere la parola “povero”e
insistono volutamente sulla deminutio, abbassando di tono e di
registro.
Il
tema della povertà lo ritroviamo anche nei limoni di Montale
dove l’antiretorica crepuscolare diviene nuovo sistema di
valori, personificato dallo splendore umile, ma tenace e odoroso dei
limoni. E con diverse e significative sfumature in Saba, Sandro
Penna e Dario Bellezza, Aldo Capitini, Mario Luzi, Davide Maria
Turoldo, Pierluigi Cappello.
Argomento
del quinto capitolo è il rapporto tra storia e poesia.
Piccini analizza gli atteggiamenti di alcuni poeti del secondo
Novecento a proposito dei condizionamenti ideologici e riflette come
ciascuno a suo modo abbia “sentito” che la poesia non può
essere soggetta a costrizione. In particolare ci parla del carteggio
tra Luzi e Sereni sulle prerogative della parola poetica in un
momento culturale che chiedeva ad entrambi di parteggiare per un’idea
storico-politica, dell’atteggiamento di Pasolini nei confronti
di Luzi e dei rapporti tra Fortini, Sereni e Luzi. Più decisa
di quella degli altri è la presa di posizione di Mario Luzi:
la poesia è un linguaggio che rifiuta di identificarsi con
con le parole d’ordine di un’epoca. E’ il punto
di intersezione tra tempo e oltre-tempo, tra storia ed eterno.
Nel
sesto “passo” il focus si riaccende sull’assenza
di un pubblico che ascolti le parole del poeta e sulla
conseguente autoreferenzialità dei poeti, evidenziata da
Alfonso Belardinelli e Franco Cordelli. Varie nel tempo le reazioni
dei poeti al problema dell’autoreferenzialità. Per
Sereni manca la comunanza, la facoltà di raccogliersi
con gli altri intorno a qualcosa.
Perciò al poeta
necessita un “uditorio possibile” che può
anche essere immaginario.
Giovanni
Raboni sente la solitudine del poeta di fronte a un pubblico che non
comprende e non ascolta e decide di rendersi riconoscibile tramite
forme poetiche più tradizionali quali il sonetto. Anche Mario
Luzi confessa il proprio parziale scacco: l’accordo tra
la parola poetica e la verità divina è dilaniato e
franto. Si tratta di patire insieme alla propria opera nel suo
farsi.
E
siamo giunti all’ultimo “passo” quello della
risposta alla domanda se, alla luce di quanto scandagliato, la poesia
sia ancora possibile.
In
queste pagine l’autore ci parla del “martirio” di
Pier Paolo Pasolini e di Alda Merini.
Considera
che Pasolini ci consegna una letteratura viva grazie al proprio
sangue, un soffio al di sopra delle contraddizioni e lacerazioni che
la postulerebbero finita e Merini, come un mistico, continua a
parlare a un “tu” amoroso, dal fondo di una passione che
coinvolge tutto il mondo. Con Pasolini e Merini il poeta ha perso del
tutto la corona ed è un derelitto per il quale la poesia è
una forma di martirio.
Questa
è la dimensione possibile del poeta contemporaneo:
lasciare
che la propria parola scorra sull’acqua della vita di cui è
testimone- martire; con la consapevolezza che non è
vana. Espressa o sottaciuta, come tenuta fuori dal corso degli
eventi, la parola è un seme, che potrà granire, dare
il suo frutto, forse ignorato dallo stesso poeta.
Daniele
Piccini sviluppa il suo discorso con grande competenza letteraria
usando un linguaggio ricco e sapiente perciò “glorioso”,
e nel costruire per noi un quadro letterario vivo, appassionato e
denso di suggestioni, ci propone delle risposte plausibili alle
nostre domande sulla sorte dei poeti e della poesia oggi, con le
quali confrontarci o nelle quali ritrovarci.
Consiglio
vivamente la lettura di La gloria della lingua.
Biografia
Daniele
Piccini insegna
Filologia della letteratura italiana all’Università per
Stranieri di Perugia. Si è occupato in particolare di testi
poetici trecenteschi, con edizioni critiche e commentate, e di poesia
del Novecento. Tra i suoi libri saggistici si possono ricordare
l’antologia La poesia italiana dal 1960 a oggi (bur Rizzoli
2005) e Letteratura come desiderio (Moretti e Vitali 2008). Ha
pubblicato cinque libri di poesia: Terra dei voti (Crocetti 2003);
Canzoniere scritto solo per amore (Jaca Book 2005); Altra stagione
(Aragno 2006); Inizio fine (Crocetti 2013) e Regni (Manni 2017).
Franca
Canapini
|