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  Letteratura  »  Varie divagazioni di lettura sul mondo poetico del Leopardi sulla scorta dell’Infinito, di Giuseppe Piazza 23/02/2022
 
Varie divagazioni di lettura sul mondo poetico del Leopardi sulla scorta dell’Infinito

di Giuseppe Piazza



Credo che Ungaretti abbia letto in fretta l’Infinito e non sia riuscito a cogliere l’essenza completa di questo frammento, che non è in una sbrigativa “logica ironica”, nel testo e nel titolo, offrendo invece esso una meditata confessione-scoperta dell’infinito, che nasce come attuazione progressiva di un modo di sentire irreale ciò che è apparentemente reale, come evasione dal nostro io empirico in una sorta di contemplazione che ci accomuna all’asceta, che all’improvviso sente accendersi intorno e dilatarsi le grigie ristrette pareti della sua spelonca, e spaziare vuole come pensiero che da un altro pensiero è mosso, lì improvvisamente, senza ordine di tempo o di spazio, in una dimensione crescente che è tutta interiore, forse a lungo ricercata ed attesa, e perché è sentita inesprimibile la si paragona all’infinito, al silenzio, allo spazio di cui avvertiamo la presenza solo nel nostro io metafisico, come intuizione imparagonabile, più che per averne avuto esperienza. Non so proprio come Ungaretti abbia fatto a trovarvi dell’ironia, sia pure di quella che conoscono le anime dolenti, di quella che nasce dal sentimento del contrario, poiché la sua è una blandizia intellettuale piuttosto che una più cogente verità poetica, perché Ungaretti punta tutto il suo argomentare sull’uso di termini usuali, siepe, foglie, piante, come se per parlare di infinito si dovesse ricorrere al linguaggio straordinario dei surrealisti, degli ermetici, configurandolo in una situazione simbolica da poeta visionario. E’ così che mi pare che egli ragioni, e per altri versi mi sembra affrettato nel commento di tutto l’idillio non sforzandosi di intendere nel modo più intimamente poetico e storico la ragione di questi versi, proiettati tutti nel presente, financo nei tempi espressi al passato, come avviene per quel famigerato “mi fu”, che Ungaretti sente come passato remoto, per giustificare che “ a muovere gli affetti qui opera una reminiscenza”, laddove da tutto il contesto il “fu” risulta piuttosto al passato prossimo, “mi è stato”, poiché non avrebbe senso qui il passato remoto, dal momento che non c’è passato neppure nel mi sovvien, di più sotto, se ben si intende il valore profondo e la suggestione di questo verbo, che indica piuttosto attualizzazione di un sentimento, più che ricordo di una esperienza passata, che sarebbe allora veramente banale ed incomprensibile il senso dell’infinito che è intuizione che si muove oltre ogni ricucitura di memorie. Ma torniamo al “fu”. Ci pare enormemente errato pensare che il poeta potesse qui staccarsi dalle sue sensazioni presenti, intendendo il “fu” al passato remoto, mentre esse continuano a vivere anche in quel presente poetico in cui il Leopardi si desta come da un sogno di contemplazione interiore e mormori la beatificante scoperta dell’estasi che si fa suono della parola poetica: “sempre caro mi è stato” e continua ancora ad essere e non mi fu, che con la loro proiezione al passato raffredderebbe il calore umano che in esse ancora vive nel presente. Anche in Dante nel canto di Farinata si ha “ebbe” un passato remoto con la stessa pregnanza poetica temporale di “fu” al passato prossimo ad indicare una continuità nel presente di una situazione emotiva che si è iniziata nel passato ma che perdura come attualità e non come ricordo e reminiscenza. Del resto tutti gli altri verbi del testo sono al presente, specie quel “fingo” e i gerundi semplici e il “sovvien”. L’Infinito non nasce da rimembranze come detto ma è un modo d’essere presenti a sé stessi in una contemplazione interiore come rare volte suole accadere e comporsi in una astrazione sognante di poesia. Ungaretti ancora scrive: Penetra nelle ricordanze il poeta condotto dal suo orecchio vigile….. “e mi sovvien l’eterno”. Anche l’eterno è un ricordo, un passato. Assurdo.! Ungaretti legge in fretta e si sofferma troppo in superficie con un’analisi scolastica. Dico che in “mi sovvien” non c’è affatto ricordo di un passato ma l’atmosfera spazio temporale che il verbo suggerisce è, semmai, scoperta di una presenza psicologia interiore e non sua proiezione temporale, perché l’eterno, come detto, non si può ricordare se non è esperienza reale della mente, esso solo a livello d’anima è percepibile, scoperta durevole come condizione di una finzione interiore. E veniamo al punto centrale, se è vero che Ungaretti crede che in esso si celi dell’ironia, sia pure, a suo pro, quella che nasce dalle dissonanze della lirica moderna. Egli scrive: e quando si pensa che una siepe è stata a muovere tutto questo, e sono state foglie mosse da un alituccio di vento-si pensa che sono state piccole cose, fatti insignificanti: erano foglie vento le cose, cose che di solito raffigurano la caducità, la fugacità. Vedete bene l’ironia investe non un vocabolo qua e là ma l’ispirazione”. Credo che l’abbaglio nasca proprio da una forzatura linguistica, ché non pare possibile ad Ungaretti che un tema così arduo, così amabilmente moderno, si possa conseguire con un linguaggio corrente e ad un tempo puntuale e concreto, oserei perfino dire. Se gli effetti di ciò che non è commensurabile, di ciò che non è usuale, dico l’infinito, sono conseguiti con mezzi quotidiani, semplici parole, è perché l’ispirazione ha saputo liberarli in una dimensione trasposta, dissonante tra l’effetto conseguito, l’infinito, e il loro correlativo di paragone, umile , che è il presente, la siepe, il vento, il colle; inoltre è da considerare, ( e questo sembra quasi tacere o non intuire o non dire Ungaretti, che a me pare nascondersi nella sua meraviglia di poeta moderno, scaltrito di poetica simbolista, che si sorprende di vedere conseguito un effetto così moderno in un poeta che rispetta ancora la trama del linguaggio poetico), che con il Leopardi ancora non è avvenuto lo sfrenamento di tutti i sensi, e che la parola poetica non è stata smozzicata, come avverrà nei simbolisti ed epigoni, ma c’è invece ancora visibile e pienamente risonante, pur nell’estrema modernità di una sua parabola essenziale e quasi pura, liberata da ogni intellettualismo retorico, l’uso accurato della parola significante, più che della parola evocazione, che suggerisce senza riferimento, e che vive solo per sé ,mentre qui, in Leopardi, la parola pur nel significare la rarità, cioè l’infinito, è calata in una trama di sensazioni conseguite con termini comprensibili ed immediati, laddove più tardi le parole saranno scorporate in una trama di sensazioni volanti, e più che armonia si avrà dissonanza, inquietudine più che dolce naufragio. Se ironia c’è, e nel testo e nell’ispirazione, essa non è incompatibile né col testo né con l’ispirazione, ma con i parametri distorti di chi applica in modo frettoloso categorie di giudizio da far combaciare, ad ogni costo, con la propria forma mentis più che con gli aspetti e le intenzioni che intimamente non ci sono nei testi poetici. Ho cercato con questa lettura dell’Infinito di esprimere un mio punto di vista, guardingo e rarefatto, sulla scorta di Ungaretti, ma non per farne una postillatura scolastica, poco adatta a cogliere le ragioni e le intime suggestioni di questo frammento lirico, bensì per tentare di scoprire l’ispirazione e la ragione nascosta, umana e storica, che ne determinano l’intuizione.

06- 11-1983


Nell’analisi linguistica che dell’Infinito prevalentemente si fa, e con molta dottrina, ci si dimentica tuttavia che esso è stato scritto da un uomo e che, come in ogni opera d’arte, vi è dietro e dentro una storia, un sentimento, una vicenda, un bisogno. L’analisi strutturale ha freddo, lascia freddi e non consente di penetrare le emozioni, le intenzioni, non ci fa chiedere perché Leopardi l’abbia scritto così, e con quei richiami geografici, con quelle figurazioni spaziali e quelle scansioni logiche e verbali che hanno il compito di portare avanti il suo pensiero in una linea di sviluppo continua e crescente, per concludere il loro pellegrinaggio mentale in un naufragio di silenzio, e che per tale percorso ancora ci chiediamo che cosa egli abbia voluto ricordare, quale fatto ci sia alle spalle, quale esperienza interiore l’ abbia determinato ed espresso così. Queste cose l’analisi strutturale non ce le dice e tratta l’opera come una forma conclusa da sezionare, un’architettura di cui ammiriamo le disposizioni singole, le modanature, le volute che formano l’insieme ma non ci dice del materiale usato e del suo reperimento anteriore, la cava di provenienza e la scelta estetica, perché si tratta sempre di scelte estetiche da assemblare, che il poeta ha operato per obbedire a certe sollecitazioni esterne con cui formare certe esperienze interiori. Ogni opera è il risultato di eventi esterni, che sono le correnti culturali, filosofiche, le idee diffuse nella società sulla morale, sulla scienza, e quelle interne e personali, le quali vengono sollecitate, secondo il proprio sentire, ad aderirvi per divenire parte storica e culturale di un’idea in cui calare un’esperienza privata, un sogno o una delusione, sicché allora la fredda architettura si apre e ci consente di entrare dentro il pensiero dell’artefice, per respirarne le emozioni, le esitazioni, che si andavano proponendo e realizzando psicologicamente, a mano a mano che egli costruiva quel particolare edificio poetico in cui trovavano forma e vita e le idee esterne, che offrivano sollecitazioni emotive di canto, e i casi interni, propri, quotidiani, umani che in essa armonicamente si giustificavano, sicché l’opera, quell’opera particolare, che alla fine si compiva, a ragione poteva dirsi l’avventura sentimentale di un avvenimento personale, interiore e biografico. La critica, in generale, non si è interessata di questa enunciazione del poeta, che ci chiarisce che l’Infinito e gli altri piccoli idilli, massimamente sono da considerarsi avventure, emozioni, esperienze storiche, cioè non letterarie non passatempi arcadici ma espressioni di emozioni realmente vissute e sofferte dall’autore. L’Infinito è l’idillio più ammirato ma anche il più incompreso del Leopardi. Si è scritto su di esso, del suo materiale esterno dei suoi passaggi spaziali e fonetici graduali e graduati ma non ci si è mai chiesti a quale avventura storica, a quale esperienza morale egli intendesse alludere. A questo punto, poiché il testo ci dice poco della sua preistoria, ci deve soccorrere il tempo cronologico della sua composizione, il momento autobiografico, che è anche il momento culturale ed emozionale dell’idillio. L’anno deve essere quello della fuga fallita da Recanati, come si può argomentare da certe allusioni iniziali, specie dal modo dolente e ironico dell’aggettivo “caro”, che amaramente ed umanamente sancisce la fine di quei sogni che spaziavano oltre l’orizzonte, e il “colle”, che si fa “ermo”, privo di quei sogni che si pensava di iniziare a vivere di là. E in questo modo l’infinito poetico si allarga, cessa di essere pura rappresentazione linguistica e mentale, e si dispone ad accogliere la vita più sentimentale, più impalpabile del poeta, i suoi sogni, le sue delusioni in una proiezione spaziale che supera il puro dato espressivo. E dietro quella profondissima quiete, quegli spazi interminati, vedremmo sorgere, come controcanto, delle ironiche presenze deluse, delle pulsioni compresse e umiliate dallo scarto di estensione tra l’immaginarle e l’amara realtà dell’ermo colle, specchio crudele della desolazione e della delusione biografica di una fuga, quella del 1819. E questo frammento, che per la sua singolarità di purezza e castità di enunciati resta esperienza unica nella poesia del Leopardi, si fa pure espressione di quel suo particolare modo di vivere le proprie avventure sentimentali in una sfera non lamentata, non patetica ma di pura e assoluta ironia mascherata dalla valenza di quei due aggettivi, l’iniziale “caro” dell’ermo colle, di cui solo un pazzo o un masochista potrebbe compiacersi, chiamando caro il luogo del suo supplizio, e il conclusivo “dolce” del naufragio in cui tutto si sommerge in un abissale silenzio ulissiaco, da cui più nulla traspare o giunge alla vista o all’udito, neppure il metaforico “bianco fianco” di una sirena sparente tra i flutti, la cui assenza ci dice che pure c’era stata in Mallarmé la simbolica presenza di un ricordo affettivo a cui sperare di tendere. Se il Sensismo induceva a fuggire il dolore per conseguire il piacere, fisico o intellettuale, qui manca il dolore, a meno che esso non sia da scorgere psicologicamente e storicamente nel limite conoscitivo eretto dalla siepe, cosa da poter anche escludere perché il luogo e la siepe sono sentiti come frequenze che suscitano diletto, “sempre caro mi fu”, per cui mi è sorto il sospetto che L’Infinito sia stato un resoconto ironico, e in questo concordo con Ungaretti, un pianto contenuto, una disperazione repressa dopo il tentativo, fallito, di fuga da Recanati. Rivedersi e ritrovarsi in quei medesimi luoghi da cui aveva progettato di fuggire fa sgorgare una meditazione ironica di canto sommesso al proprio esilio, alla propria prigionia, e quindi alla propria estraneità ad ogni vicenda storica del proprio tempo. La lirica non contiene nessun cenno di contrapposizione o di rinnegamento della propria condizione esistenziale, che spesso si accompagnano nel suo meditare. A parte il suo alto valore poetico, l’Infinito potrebbe essere letterariamente un biglietto pasquale per rassicurare i genitori sulla sua nuova posizione in famiglia: tornava quieto a riprendere la sua vita di recluso e sottomesso, anzi trovava anche dei luoghi piacevoli per evadere almeno con la fantasia e il colle Tabor era uno di questi, per fingere anche un naufragio che si appaga di sé in un sensismo astratto. Il fascino dell’Infinito, il suo eccezionale segreto poetico sta anche in questa mancanza di identità filosofica e culturale per farsi movimento di sensazioni più che di concetti.

Giarre 10 /08/1996


Se Leopardi è poeta della memoria, anche l’Infinito è legato ad un ricordo, “sempre caro mi fu “che dentro la sua levità autobiografica nasconde una delusione, un rimpianto, un fallimento. La sproporzione tra le ristrettezze e le angustie domestiche e paesane, che opprimono le illusioni della sua ancora giovane età, e il luogo poetico dell’infinito, come attrattiva seducente di libertà e spazialità esistenziale, testimoniano che Leopardi ha tuttavia trovato nella dimensione letteraria la compensazione rasserenante:”naufragare m’è dolce”, al progetto della fallita fuga da Recanati. E’ l’Infinito, tuttavia, un Idillio costruito a freddo, e per questo non vi incontriamo la malinconia, né i rimpianti che pure ricorrono negli altri Idilli. Paradossalmente il poeta nell’Infinito ci dà un esempio di quella poesia sentimentale pura, che avrebbe potuto scrivere se fosse stato felice sentimentalmente e socialmente. Preziosa fattura stilistica con vaghezze di sospiri contenuti, e con architetture compositive a sbalzi, proprie della natura aristocratica degli idilli settecenteschi. E, in margine, si potrebbe anche aggiungere che l’unico luogo storico ed esistenziale che gli resta per privilegiare il suo pensiero poetico è il non umano, è il non temporale, è il silenzio nudo che insieme generano il mare dell’Infinito, il luogo disumano dove potrà trovare in finzione quella dolcezza che sognava di vivere tra la paesana gioventù vestita a festa.

02/05/1990


Perché, in ultimo, la qualità della poesia del Leopardi è anche determinata dal suo autobiografismo ambientale e quotidiano di isolato. Certi “allunghi” paesaggistici, certe affettuosità liriche di particolari di paese non sarebbero giustificabili se essi non avessero profondamente segnato spiritualmente la sua esperienza come il risultato sentimentale di una dolente contrapposizione di odio - amore al mondo che lo circondava. Solo chi, appunto, si è sentito prigioniero, fuori o dietro le sbarre di una reale o immaginata prigione, e penso al Cervantes, può concepire l’aerea chiarezza di spazi che si aprono fascinosi in una lontananza, e costruire dentro di sé una psicologia dei rumori e delle voci che popolano il silenzio della propria reclusione, fisica e spirituale, con effetti individuati nella vita da vivere. E’ il silenzio la plaga che cinge e fertilizza la meditazione del Leopardi, in cui i suoni e le voci, notturne o crepuscolari, così come anche gli oggetti lontani ed indistinguibili, hanno sempre costituito il tramite fantastico e meditativo, per legarsi psicologicamente anche al nudo silenzio. Ed altro rifugio, più suo proprio, del silenzio e della solitudine, non poteva esserci per chi si scopriva relegato da ogni partecipazione alla vita, che tutt’intorno gli pareva lietamente svolgersi. Non è quindi, come sosteneva Asor Rosa una scelta poetica il silenzio, ma una circostanza realistica divenuta categoria spirituale ed intellettuale della sua particolare situazione esistenziale, e in questo caso forma poetica con la quale il Leopardi poteva intimamente ancora legarsi alla vita umana del suo borgo, e dare un senso con essa anche alla propria. Senza questa consapevolezza culturale e psicologica non sarebbero nati, in modo specifico ed esemplare né il Canto notturno, né Le Ricordanze, così come neanche quegli Idilli e quelle Operette morali in cui la vita appare avvolta da un silenzio silenico.

22/06/1991


L’Infinito di Leopardi è il suo Sublime romantico, è lo sgomento descrittivo e sensistico che si fa piacere intellettuale senza perdersi nella voragine dell’universo pascaliano. E’ il luogo lucreziano del sapiente che ha scoperto la sua superiorità morale nella contemplazione mistica, guidata dalla ragione e dall’armonia delle passioni. Ma compositivamente si potrebbe anche dire che l’Infinito è troppo calibrato nella narrazione per gradi sensoriali convergenti, per crederlo un puro capolavoro dell’intuizione lirica. E’ un episodio dei sensi guidati dall’intelletto letterario, dalla perizia stilistica e tecnica, un vero compiacimento da erudito.

15/11/08


Leopardi lega la poesia ad un valore di natura perenne, che è appunto la psicologia dell’uomo che si rivede sempre in una circolarità di riflessioni esistenziali che lo soffocano fino negli estremi palpiti di un requiem che intona: A sé stesso.


20/11/08

Poesia di auto commiserazione esistenziale sapientemente trasfigurata in simboli l’Infinito del Leopardi. Dietro di esso, nella sua genesi psicologica e storica, c’è tutto un fermento umano e culturale di libertà bloccata da un fallimento di fuga reale dal natio borgo selvaggio. Ed infine, a livello poetico è una rivincita del pensiero spazioso per dare dignità sostanziale al patimento di un’involontaria inettitudine, disperatamente contrastata da lunghe segrete lacrime trattenute.

26/05/1991

L’origine e l’archetipo della poesia e della vita interiore e speculativa di Leopardi sono principalmente il silenzio e il cielo e il paesaggio di Recanati con le sue viuzze, le sue voci quotidiane vicine e lontane, e le stelle, e la luna. Il pastore primitivo, non doveva Leopardi trovarlo fuori di sé, errante nelle steppe dell’Asia in un lamento di nenie, poiché egli già se l’educava e portava dentro con tutte quelle sensazioni ed inquietudini sentimentali che il silenzio del deserto e dell’orizzonte invalicabile sanno creare ed illuminare in uno spirito poetico che vuole popolare di piacevoli emozioni quei nudi silenzi e superare la delusione esistenziale che fatalmente giunge a fiaccare la prospettiva inguaribile del viaggio dell’anima.

06/09/2000

Leopardi non conosce l’ossimoro ricreativo e felice del pensiero. È dommatico; è tutto di un pezzo, psicologicamente e concettualmente. Per questo è godibile dalla mente anche più comune, dalla mente che segue il senso comune della vita. La sua problematica esistenziale è fisiologica, e quindi segue il senso comune, le apparenze, anche quando fa della conoscenza un problema, come nel Canto notturno. È’ un romantico senza l’esperienza della città. È’ uno spiritualista che continua a leggere la vita arcadicamente. Forse i Canti più riusciti modernamente sono quelli del suicidio, oltre al Canto notturno e a La ginestra, di stampo volteriano questa, una visione cosmica dagli assunti biblici, da Ecclesiaste. L’uomo è inchiodato nel suo ricorrente disfacimento al pari di tutte le cose della natura, con in più la consapevolezza drammatica ed unica di scoprirsi e sentirsi il più infelice, e senza scampo perché circoscritto dalla sola forza naturale delle sue argomentazioni razionali. Procede, appunto, per conclusioni e presunzioni di stampo naturalistiche, anche quando esita. Non sfugge verso soluzioni alternative, che ne possano variare il contenuto possibile, quello che modernamente noi sentiamo verificarsi nelle parole impreviste. La forte razionalità non gli concede lo spazio per sostenersi psicologicamente nella suggestiva sospensione della creazione verbale ancora aperta. La sua conoscenza è una verità che non ha la gentile complicità del dubbio. Ogni incertezza, il forse, è sancito dall’affermazione perentoria negativa di sé, “a me la vita è male” o universale, “è funesto a chi nasce il dì natale”. Uscire dalle sue proprie conclusioni intellettuali non è facile così come non è facile abbandonare del tutto le suggestioni metafisiche, che pure si porta appresso, ma per intristirle, dato che non ne ha più bisogno per recuperare esitazioni e proporre rimedi e più quieti sotterfugi, per essere stati sfiorati dal senso indefinito di essi. L’uomo moderno tuttavia è approdato ad una soluzione nuova e senza compromessi. Ha trovato la propria responsabilità problematica nella fertilità del suo linguaggio. La sua parola, sia scavata sia sommessamente pargoleggiata, costituisce la nuova ciclicità culturale da cui partire per fondare rapporti esistenziali e conoscitivi meno esclusivi, meno drammatici. L’intellettuale del nostro tempo figlio anche dell’uomo del Leopardi, non vuole né può acquietarsi in una soluzione appena raggiunta, perché egli è un indagatore instancabile della propria cultura, della propria storicità. Il male di vivere, che pure il pensiero si porta serrato dentro di sé, è divenuto non un’essenza interessante e ferrea ma un problema transitorio che la mente nel suo instancabile procedere sempre più avanti ha relativizzato, ne ha fatto una pausa secondaria e necessaria nella virtuosa possibilità che venga smontato e superato da nuove organizzazioni concettuali, conoscitive e morali per il tramite del suo laborioso linguaggio. La sua parola, ora restaurata da responsabilità culturali e storiche più immediate, corre in aiuto dell’uomo più di ogni salvifica tradizione e di ogni avventura avanguardistica per creare una visione della vita non più abitata dai vecchi fascinosi pregiudizi né dalle vecchie certezze razionali, che alla prova della storia sono miseramente franate. L’uomo che noi prefiguriamo, il poeta che noi cerchiamo di elaborare e sentire è un sofferente portatore di certezze incespicanti che fiduciosamente tuttavia vogliono incontrare una mente dinamica e progressista sotto il segno fecondo del relativismo critico, come fiducia intellettuale nel crescere e variare della parola umanamente sentita nella Storia, e tale che da sé stessa possa resistere alle rigide classificazioni morali e culturali di parte.

16/08/1983


Perché in Leopardi la notte, il colloquio notturno, la visione della notte, non richiamano mai la morte, come invece avviene con i romantici nordici, o con lo stesso Foscolo? Il fascino del paesaggio notturno si popola sempre di presenze concrete di vita e rifugge sempre dalla gratuità di suggestioni poetiche alla moda. Forse perché la morte è un concetto così ovvio che a parlarne e ad assumerlo risulterebbe inefficace al confronto con il tedio, la noia sublime, il male e il senso concreto del dolore esistenziale dell’uomo storico. Aggravarlo con la morte, che è poi un elemento banale e certo della sua esistenza, sarebbe ozioso; Leopardi, invece, vuole educare l’uomo ad avere coscienza della sua umanità, come pensiero e come corpo, in questa accidentale avventura, dove nessun mito, nessuno appiglio può fermarlo dal correre verso il proprio continuo morire, e perdere la forza generosa delle illusioni, che pure non lo salvano dalla sua morte concreta. E per questo la morte non compare in sé, pur essendo sempre presente; e non è morte fisica ma scolorare del sembiante, perdersi e naufragare del pensiero nella vastità dell’universo, nella sua solitudine immaginativa, senza entrare più in contatto panico con l’esistente; neppure il tramutarsi in altro elemento, tuono o fulmine, assicurerebbe la coscienza del proprio dolore, che non è nella morte ma nella consapevolezza di avere scoperto il male di vivere, che è male assoluto, irreparabile.

10/09/1991


Poiché in Leopardi nessuno scritto, in versi o in prosa, appare fine a se stesso, ma sottende sempre ad una funzione morale, è da supporre che l’Infinito, che si presenta per la sua concezione come un unicum nella produzione del poeta,(fu forse suggerito da particolari suggestioni della sua Storia dell’astronomia? ), non finalizzato ad alcun progetto socialmente dimostrativo , potrebbe essere invece come la realizzazione intima della teoria sensistica del piacere, che si attua in quella particolare dimensione psicologica di spazio e tempo, che, pur nella loro dinamica inquietudine, si fondono e compensano nel pensiero, che non più serba niente della sottrazione continua di vita interiore, che assiduamente opera il fluire biologico nella mente, per cui tale piacere, goduto da un simile stato d’animo intellettuale, non più potendo dilatarsi né variare d’intensità, si autonarcotizza nella paralisi dei propri sensi, naufragando in quel suo particolare mare di dolcezze, che alla fine quietamente si compiacciono di se stesse. Ma di certo non era questa arcadica o sublime evasione che il poeta cercava per mascherare o appagare la tensione spirituale del suo “altrove” esistenziale, che qui in verità ha la maniera indolore di una pacifica conclusione dal sapore arcadicamente teatrale.

12/12/1991



E’ l’Infinito ,questo del Leopardi, fatto di pause contemplative su un paesaggio suggestivo e sorprendente dove la mente intuita la sua spaziosità esita, non vi si avventura in uno slancio irrazionale, che annullerebbe ogni concreta possibilità di visitarla e dominarla, ma il pensiero pur elevandosi vi penetra e vi cresce e si espande per successive e nuove esperienze temporali, così da concretizzare e descrivere quel suo particolare infinito in una summa totalizzante di sensazioni sperimentabili nella dimensione del divenire umano dell’anima e dell’intelligenza, che consentono al pensiero del poeta di lasciare l’inconsistenza di pure idee e pure parole per ricondursi in terra, da dove la sua visione non si solleva come in Baudelaire “con ala inebriante a nuotare nell’etra”, se è vero che il suo Infinito è costruito e vissuto a frammenti, a sbalzi aggiunti a sbalzi che pure sanno condurre la sua anima a sentire e a godere il fascino sovrumano dell’eterno, fuori da ogni astrattezza o estraneità della mente, in cui tutto ciò che essa percepisce diventa infinito; le morti stagioni diventano anch’esse eco e senso dell’infinito e l’attuarsi della stagione presente, sentita come scorrimento e battito perduto, che la voce del vento evocando materializza nell’unica forma concepibile dalla mente, come ricordo, come passato, come memoria appunto. Si direbbe che l’Infinito sia sostanzialmente coevo alla mente umana, ne sia una categoria spirituale ineliminabile, che preesiste per materializzarsi negli atti evocativi del puro pensiero. A partire da “e come il vento” la poesia e la mente si innalzano e crescono in una concitazione di musicalità cosmiche. Dopo un incipit quasi guardingo in cui prevale un atteggiamento geografico, fortemente spiritualizzato dall’avverbio temporale, che pare già concludere più che iniziare l’operazione mentale verso l’Infinito, anche l’insistere sulla precisione verbale denotativa, “questa siepe, quest’ermo colle”, che ritorna in “queste piante” e in “quell’infinito silenzio e in questa voce e in questa immensità” serve a circoscrivere il primo sbocciare dell’idea dell’infinito come un supporto necessario da cui logicamente l’interiorità del poeta estende il suo sguardo verso l’altrove, anche perché il Leopardi classicamente non si perde in vaghezze metafisiche o simboliste, se è vero che tale viaggio della mente può farci pensare anche alla resistenza psicologica che può incontrare il pensiero nell’incorporare la prima idea dell’infinito nella forma essenziale della parola che può esprimerlo, e pertanto muoversi verso regioni che gli si addicono di immaginare oltre i limiti terrestri e attingere lo spavento incommensurabile dell’eterno. A Dante che si trasuma solo nella visione di sé stesso, incapace di sentire il divino fuori dalle dimensioni umane, il poeta recanatese invece divinizza il suo pensiero nella totale estraneità d’ogni contatto con la forma racchiusa e circoscritta del proprio essere. Così in lui l‘immateriale, la pura sensazione acquista dimensione conoscitiva e poetabile caricandosi di valori catartici, e “il naufragar m’è dolce in questo mare” sensibilmente ed umanamente caratterizzato. Siamo più che alle soglie in piena poesia pura, assoluta, anche se non ancora problematica e storicizzata come quella. Il poeta moderno non cede, non interrompe la sua estasi, che dura e l’accompagna in piena e totale coscienza fino all’appagamento, che si genera in lui per forza propria più che per costruzione simbolica mossa e finalizzata dall’Ente, giacché la sua divinità non è fissa in un punto paradisiaco, non aspetta che vi si salga attraverso lucori e candelabri e spazi di luci sfavillanti, essa è invece figlia dei contrasti, delle visioni della mente interrotte a cui sempre tendere e virtuosamente ripetersi con nuovi propositi conoscitivi, che si generano e spaziano di vita imprevista. Il suo orizzonte dell’essere è grazia che sollecita possessi tanto più fascinosi quanto più oscuri e nebulosi presentano gli approcci. E’ proprio da questa diversa impostazione che l’infinito del l’intellettuale moderno esce più totale e si assolutizza in lui nella privazione di una meta o di un fine morale per divenire come avventura possibile del suo pensiero aperto ed indomabile, nella cui tensione pare riscattarsi e rivivere la santità di ogni presunto oltraggio alla conoscenza

18/07/1986


Come se avesse voluto esorcizzare il fallito tentativo di fuga del 1819 creandosi un risarcimento spirituale nell’unico modo che gli era congeniale, cioè “creando”; anzi si potrebbe dire che nell’Infinito il Leopardi si sia ritagliato un topos edonistico totale ed appagante, irripetibile e che compensa quello storico, geografico e sociale che sperava di sperimentare con la fuga. Qui pare, specie per il determinarsi e precisarsi dell’ambiente, che si possa individuare la prima intuizione della materia biografica e memoriale per il tramite del paesaggio che ritornerà in alcuni grandi idilli. Il sempre caro iniziale vorrebbe essere anche una dichiarazione di fede? Ma non potrebbe essere stato una finzione, un’amara dichiarazione della propria rassegnazione e della propria sconfitta? Oppure un voler prendersi una rivincita sul padre dimostrandogli che dopo tutto egli sapeva, per virtù di arte, essere felice anche lì, ribadendo quel tale concetto proprio con quel “Sempre caro mi fu”, e che come in passato anche nella presente situazione, pur dopo l’amarezza, ritrovava la forza morale di riabituarsi a sentire in quei suoi selvaggi luoghi il paesaggio adatto a procurargli appagamento e dolcezza interiore. Perché Leopardi non dice “mi è” ora, ma mi “fu” a sottolineare una continuità psicologica ed anche una assuefazione esistenziale che proietta il passato, sperimentato emotivamente invariabile, nel presente, il passato che si ripete nel presente per virtù della forza conclusiva del verbo “fu”, perché esso nella sua perentorietà temporale e concettuale non indica solo un avvenimento del passato, colto nel passato, ma conferma anche una situazione sentita nel presente, estensibile nel presente, che viene catturato dal rigore espressivo del verbo al passato remoto; perché se avesse voluto indicare che l’azione sentimentale tornava nel presente e non invece che durava anche nel presente senza soluzione di continuità, avrebbe adoperato l’imperfetto, mentre l’uso del passato remoto, come proiezione del suo passato e sua continuità nel presente trova quel luogo ancora attuale se vi si può riconoscere e sedervi per ritornare alle usate meditazioni e interiori contemplazioni, mosse queste ultime dal paesaggio esterno, che è appunto come l’occasione sodale di quelle. Ma per ritornare ancora al sospetto che il Leopardi avesse voluto ironicamente comunicare al padre soprattutto, o forse anche a sé stesso, quasi a porre un sigillo definitivo ai suoi sogni di evasione, con quel “sempre caro mi fu”, che pare appunto una contraddizione con la sua ricerca di socializzazione e di contatti con il mondo esterno. E l’ironia è tutta dissimulata nel linguaggio: egli che aspirava a sperimentarsi concretamente con il mondo di fuori, dice ora di avere sempre avuto caro quell’ermo colle, estraneità e solitudine, che pur sono le cifre spirituali di ogni poesia e di ogni suo meditare, qui si rivestono di ambiguità e di vinto sarcasmo. A me l’Infinito pare, per quelle sottili cesure di tensione e di composizione che a volte vi intuisco, per quel crescere a singhiozzo di sensazioni, il canto di una sublime sconfitta; il testamento di chi ha per sempre vista preclusa la possibilità di evasione. E’ la dichiarazione estrema di chi si sente inesorabilmente prigioniero; è l’abiura alle proprie tensioni dell’altrove, se ora professa davanti ad una ideale corte di giudizio, il colle e l’infinito, la propria professione di fede e di fedeltà ad un luogo dell’odioso Recanati, come a voler dire che fuori di esso non potrebbe provare le stesse emozioni edonistiche, il proprio appagamento spirituale, che metaforicamente si materializza in un mare che, appunto, per la sua vastità, fisica, concettuale e psicologica comprende ogni altro luogo di fuori, lo circonda e sovrasta ed ingloba, e quindi esclude la necessità di ogni altra evasione e ricerca, perché tutto in quel mare è sentimentalmente compreso, anche la stessa sognata fuga.

07/02/1993






















 
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