Varie
divagazioni di lettura sul mondo poetico del Leopardi sulla scorta
dell’Infinito
di
Giuseppe Piazza
Credo
che Ungaretti abbia letto in fretta l’Infinito e non sia
riuscito a cogliere l’essenza completa di questo frammento, che
non è in una sbrigativa “logica ironica”, nel
testo e nel titolo, offrendo invece esso una meditata
confessione-scoperta dell’infinito, che nasce come attuazione
progressiva di un modo di sentire irreale ciò che è
apparentemente reale, come evasione dal nostro io empirico in una
sorta di contemplazione che ci accomuna all’asceta, che
all’improvviso sente accendersi intorno e dilatarsi le grigie
ristrette pareti della sua spelonca, e spaziare vuole come pensiero
che da un altro pensiero è mosso, lì improvvisamente,
senza ordine di tempo o di spazio, in una dimensione crescente che è
tutta interiore, forse a lungo ricercata ed attesa, e perché è
sentita inesprimibile la si paragona all’infinito, al silenzio,
allo spazio di cui avvertiamo la presenza solo nel nostro io
metafisico, come intuizione imparagonabile, più che per averne
avuto esperienza. Non so proprio come Ungaretti abbia fatto a
trovarvi dell’ironia, sia pure di quella che conoscono le anime
dolenti, di quella che nasce dal sentimento del contrario, poiché
la sua è una blandizia intellettuale piuttosto che una più
cogente verità poetica, perché Ungaretti punta tutto il
suo argomentare sull’uso di termini usuali, siepe, foglie,
piante, come se per parlare di infinito si dovesse ricorrere al
linguaggio straordinario dei surrealisti, degli ermetici,
configurandolo in una situazione simbolica da poeta visionario. E’
così che mi pare che egli ragioni, e per altri versi mi sembra
affrettato nel commento di tutto l’idillio non sforzandosi di
intendere nel modo più intimamente poetico e storico la
ragione di questi versi, proiettati tutti nel presente, financo nei
tempi espressi al passato, come avviene per quel famigerato “mi
fu”, che Ungaretti sente come passato remoto, per giustificare
che “ a muovere gli affetti qui opera una reminiscenza”,
laddove da tutto il contesto il “fu” risulta piuttosto al
passato prossimo, “mi è stato”, poiché non
avrebbe senso qui il passato remoto, dal momento che non c’è
passato neppure nel mi sovvien, di più sotto, se ben si
intende il valore profondo e la suggestione di questo verbo, che
indica piuttosto attualizzazione di un sentimento, più che
ricordo di una esperienza passata, che sarebbe allora veramente
banale ed incomprensibile il senso dell’infinito che è
intuizione che si muove oltre ogni ricucitura di memorie. Ma torniamo
al “fu”. Ci pare enormemente errato pensare che il poeta
potesse qui staccarsi dalle sue sensazioni presenti, intendendo il
“fu” al passato remoto, mentre esse continuano a vivere
anche in quel presente poetico in cui il Leopardi si desta come da un
sogno di contemplazione interiore e mormori la beatificante scoperta
dell’estasi che si fa suono della parola poetica: “sempre
caro mi è stato” e continua ancora ad essere e non mi
fu, che con la loro proiezione al passato raffredderebbe il calore
umano che in esse ancora vive nel presente. Anche in Dante nel canto
di Farinata si ha “ebbe” un passato remoto con la stessa
pregnanza poetica temporale di “fu” al passato prossimo
ad indicare una continuità nel presente di una situazione
emotiva che si è iniziata nel passato ma che perdura come
attualità e non come ricordo e reminiscenza. Del resto tutti
gli altri verbi del testo sono al presente, specie quel “fingo”
e i gerundi semplici e il “sovvien”. L’Infinito non
nasce da rimembranze come detto ma è un modo d’essere
presenti a sé stessi in una contemplazione interiore come rare
volte suole accadere e comporsi in una astrazione sognante di poesia.
Ungaretti ancora scrive: Penetra nelle ricordanze il poeta condotto
dal suo orecchio vigile….. “e mi sovvien l’eterno”.
Anche l’eterno è un ricordo, un passato. Assurdo.!
Ungaretti legge in fretta e si sofferma troppo in superficie con
un’analisi scolastica. Dico che in “mi sovvien” non
c’è affatto ricordo di un passato ma l’atmosfera
spazio temporale che il verbo suggerisce è, semmai, scoperta
di una presenza psicologia interiore e non sua proiezione
temporale, perché l’eterno, come detto, non si può
ricordare se non è esperienza reale della mente, esso solo a
livello d’anima è percepibile, scoperta durevole come
condizione di una finzione interiore. E veniamo al punto centrale, se
è vero che Ungaretti crede che in esso si celi dell’ironia,
sia pure, a suo pro, quella che nasce dalle dissonanze della lirica
moderna. Egli scrive: e quando si pensa che una siepe è stata
a muovere tutto questo, e sono state foglie mosse da un alituccio di
vento-si pensa che sono state piccole cose, fatti insignificanti:
erano foglie vento le cose, cose che di solito raffigurano la
caducità, la fugacità. Vedete bene l’ironia
investe non un vocabolo qua e là ma l’ispirazione”.
Credo che l’abbaglio nasca proprio da una forzatura
linguistica, ché non pare possibile ad Ungaretti che un tema
così arduo, così amabilmente moderno, si possa
conseguire con un linguaggio corrente e ad un tempo puntuale e
concreto, oserei perfino dire. Se gli effetti di ciò che non è
commensurabile, di ciò che non è usuale, dico
l’infinito, sono conseguiti con mezzi quotidiani, semplici
parole, è perché l’ispirazione ha saputo
liberarli in una dimensione trasposta, dissonante tra l’effetto
conseguito, l’infinito, e il loro correlativo di paragone,
umile , che è il presente, la siepe, il vento, il colle;
inoltre è da considerare, ( e questo sembra quasi tacere o non
intuire o non dire Ungaretti, che a me pare nascondersi nella sua
meraviglia di poeta moderno, scaltrito di poetica simbolista, che si
sorprende di vedere conseguito un effetto così moderno in un
poeta che rispetta ancora la trama del linguaggio poetico), che con
il Leopardi ancora non è avvenuto lo sfrenamento di tutti i
sensi, e che la parola poetica non è stata smozzicata, come
avverrà nei simbolisti ed epigoni, ma c’è invece
ancora visibile e pienamente risonante, pur nell’estrema
modernità di una sua parabola essenziale e quasi pura,
liberata da ogni intellettualismo retorico, l’uso accurato
della parola significante, più che della parola evocazione,
che suggerisce senza riferimento, e che vive solo per sé
,mentre qui, in Leopardi, la parola pur nel significare la rarità,
cioè l’infinito, è calata in una trama di
sensazioni conseguite con termini comprensibili ed immediati,
laddove più tardi le parole saranno scorporate in una trama di
sensazioni volanti, e più che armonia si avrà
dissonanza, inquietudine più che dolce naufragio. Se ironia
c’è, e nel testo e nell’ispirazione, essa non è
incompatibile né col testo né con l’ispirazione,
ma con i parametri distorti di chi applica in modo frettoloso
categorie di giudizio da far combaciare, ad ogni costo, con la
propria forma mentis più che con gli aspetti e le intenzioni
che intimamente non ci sono nei testi poetici. Ho cercato con
questa lettura dell’Infinito di esprimere un mio punto di
vista, guardingo e rarefatto, sulla scorta di Ungaretti, ma non per
farne una postillatura scolastica, poco adatta a cogliere le ragioni
e le intime suggestioni di questo frammento lirico, bensì per
tentare di scoprire l’ispirazione e la ragione nascosta, umana
e storica, che ne determinano l’intuizione.
06-
11-1983
Nell’analisi
linguistica che dell’Infinito prevalentemente si fa, e con
molta dottrina, ci si dimentica tuttavia che esso è stato
scritto da un uomo e che, come in ogni opera d’arte, vi è
dietro e dentro una storia, un sentimento, una vicenda, un bisogno.
L’analisi strutturale ha freddo, lascia freddi e non consente
di penetrare le emozioni, le intenzioni, non ci fa chiedere perché
Leopardi l’abbia scritto così, e con quei richiami
geografici, con quelle figurazioni spaziali e quelle scansioni
logiche e verbali che hanno il compito di portare avanti il suo
pensiero in una linea di sviluppo continua e crescente, per
concludere il loro pellegrinaggio mentale in un naufragio di
silenzio, e che per tale percorso ancora ci chiediamo che cosa egli
abbia voluto ricordare, quale fatto ci sia alle spalle, quale
esperienza interiore l’ abbia determinato ed espresso così.
Queste cose l’analisi strutturale non ce le dice e tratta
l’opera come una forma conclusa da sezionare, un’architettura
di cui ammiriamo le disposizioni singole, le modanature, le volute
che formano l’insieme ma non ci dice del materiale usato e del
suo reperimento anteriore, la cava di provenienza e la scelta
estetica, perché si tratta sempre di scelte estetiche da
assemblare, che il poeta ha operato per obbedire a certe
sollecitazioni esterne con cui formare certe esperienze interiori.
Ogni opera è il risultato di eventi esterni, che sono le
correnti culturali, filosofiche, le idee diffuse nella società
sulla morale, sulla scienza, e quelle interne e personali, le quali
vengono sollecitate, secondo il proprio sentire, ad aderirvi per
divenire parte storica e culturale di un’idea in cui calare
un’esperienza privata, un sogno o una delusione, sicché
allora la fredda architettura si apre e ci consente di entrare
dentro il pensiero dell’artefice, per respirarne le emozioni,
le esitazioni, che si andavano proponendo e realizzando
psicologicamente, a mano a mano che egli costruiva quel particolare
edificio poetico in cui trovavano forma e vita e le idee esterne,
che offrivano sollecitazioni emotive di canto, e i casi interni,
propri, quotidiani, umani che in essa armonicamente si
giustificavano, sicché l’opera, quell’opera
particolare, che alla fine si compiva, a ragione poteva dirsi
l’avventura sentimentale di un avvenimento personale, interiore
e biografico. La critica, in generale, non si è interessata di
questa enunciazione del poeta, che ci chiarisce che l’Infinito
e gli altri piccoli idilli, massimamente sono da considerarsi
avventure, emozioni, esperienze storiche, cioè non letterarie
non passatempi arcadici ma espressioni di emozioni realmente vissute
e sofferte dall’autore. L’Infinito è l’idillio
più ammirato ma anche il più incompreso del Leopardi.
Si è scritto su di esso, del suo materiale esterno dei suoi
passaggi spaziali e fonetici graduali e graduati ma non ci si è
mai chiesti a quale avventura storica, a quale esperienza morale egli
intendesse alludere. A questo punto, poiché il testo ci dice
poco della sua preistoria, ci deve soccorrere il tempo cronologico
della sua composizione, il momento autobiografico, che è anche
il momento culturale ed emozionale dell’idillio. L’anno
deve essere quello della fuga fallita da Recanati, come si può
argomentare da certe allusioni iniziali, specie dal modo dolente e
ironico dell’aggettivo “caro”, che amaramente ed
umanamente sancisce la fine di quei sogni che spaziavano oltre
l’orizzonte, e il “colle”, che si fa “ermo”,
privo di quei sogni che si pensava di iniziare a vivere di là.
E in questo modo l’infinito poetico si allarga, cessa di essere
pura rappresentazione linguistica e mentale, e si dispone ad
accogliere la vita più sentimentale, più impalpabile
del poeta, i suoi sogni, le sue delusioni in una proiezione spaziale
che supera il puro dato espressivo. E dietro quella profondissima
quiete, quegli spazi interminati, vedremmo sorgere, come controcanto,
delle ironiche presenze deluse, delle pulsioni compresse e umiliate
dallo scarto di estensione tra l’immaginarle e l’amara
realtà dell’ermo colle, specchio crudele della
desolazione e della delusione biografica di una fuga, quella del
1819. E questo frammento, che per la sua singolarità di
purezza e castità di enunciati resta esperienza unica nella
poesia del Leopardi, si fa pure espressione di quel suo particolare
modo di vivere le proprie avventure sentimentali in una sfera non
lamentata, non patetica ma di pura e assoluta ironia mascherata dalla
valenza di quei due aggettivi, l’iniziale “caro”
dell’ermo colle, di cui solo un pazzo o un masochista potrebbe
compiacersi, chiamando caro il luogo del suo supplizio, e il
conclusivo “dolce” del naufragio in cui tutto si sommerge
in un abissale silenzio ulissiaco, da cui più nulla traspare o
giunge alla vista o all’udito, neppure il metaforico “bianco
fianco” di una sirena sparente tra i flutti, la cui assenza ci
dice che pure c’era stata in Mallarmé la simbolica
presenza di un ricordo affettivo a cui sperare di tendere. Se il
Sensismo induceva a fuggire il dolore per conseguire il piacere,
fisico o intellettuale, qui manca il dolore, a meno che esso non sia
da scorgere psicologicamente e storicamente nel limite conoscitivo
eretto dalla siepe, cosa da poter anche escludere perché il
luogo e la siepe sono sentiti come frequenze che suscitano diletto,
“sempre caro mi fu”, per cui mi è sorto il
sospetto che L’Infinito sia stato un resoconto ironico, e in
questo concordo con Ungaretti, un pianto contenuto, una disperazione
repressa dopo il tentativo, fallito, di fuga da Recanati. Rivedersi e
ritrovarsi in quei medesimi luoghi da cui aveva progettato di fuggire
fa sgorgare una meditazione ironica di canto sommesso al proprio
esilio, alla propria prigionia, e quindi alla propria estraneità
ad ogni vicenda storica del proprio tempo. La lirica non contiene
nessun cenno di contrapposizione o di rinnegamento della propria
condizione esistenziale, che spesso si accompagnano nel suo meditare.
A parte il suo alto valore poetico, l’Infinito potrebbe essere
letterariamente un biglietto pasquale per rassicurare i genitori
sulla sua nuova posizione in famiglia: tornava quieto a riprendere la
sua vita di recluso e sottomesso, anzi trovava anche dei luoghi
piacevoli per evadere almeno con la fantasia e il colle Tabor era uno
di questi, per fingere anche un naufragio che si appaga di sé
in un sensismo astratto. Il fascino dell’Infinito, il suo
eccezionale segreto poetico sta anche in questa mancanza di identità
filosofica e culturale per farsi movimento di sensazioni più
che di concetti.
Giarre
10 /08/1996
Se
Leopardi è poeta della memoria, anche l’Infinito è
legato ad un ricordo, “sempre caro mi fu “che dentro la
sua levità autobiografica nasconde una delusione, un
rimpianto, un fallimento. La sproporzione tra le ristrettezze e le
angustie domestiche e paesane, che opprimono le illusioni della sua
ancora giovane età, e il luogo poetico dell’infinito,
come attrattiva seducente di libertà e spazialità
esistenziale, testimoniano che Leopardi ha tuttavia trovato nella
dimensione letteraria la compensazione rasserenante:”naufragare
m’è dolce”, al progetto della fallita fuga da
Recanati. E’ l’Infinito, tuttavia, un Idillio costruito a
freddo, e per questo non vi incontriamo la malinconia, né i
rimpianti che pure ricorrono negli altri Idilli. Paradossalmente il
poeta nell’Infinito ci dà un esempio di quella poesia
sentimentale pura, che avrebbe potuto scrivere se fosse stato felice
sentimentalmente e socialmente. Preziosa fattura stilistica con
vaghezze di sospiri contenuti, e con architetture compositive a
sbalzi, proprie della natura aristocratica degli idilli
settecenteschi. E, in margine, si potrebbe anche aggiungere che
l’unico luogo storico ed esistenziale che gli resta per
privilegiare il suo pensiero poetico è il non umano, è
il non temporale, è il silenzio nudo che insieme generano il
mare dell’Infinito, il luogo disumano dove potrà trovare
in finzione quella dolcezza che sognava di vivere tra la paesana
gioventù vestita a festa.
02/05/1990
Perché,
in ultimo, la qualità della poesia del Leopardi è anche
determinata dal suo autobiografismo ambientale e quotidiano di
isolato. Certi “allunghi” paesaggistici, certe
affettuosità liriche di particolari di paese non sarebbero
giustificabili se essi non avessero profondamente segnato
spiritualmente la sua esperienza come il risultato sentimentale di
una dolente contrapposizione di odio - amore al mondo che lo
circondava. Solo chi, appunto, si è sentito prigioniero, fuori
o dietro le sbarre di una reale o immaginata prigione, e penso al
Cervantes, può concepire l’aerea chiarezza di spazi che
si aprono fascinosi in una lontananza, e costruire dentro di sé
una psicologia dei rumori e delle voci che popolano il silenzio della
propria reclusione, fisica e spirituale, con effetti individuati
nella vita da vivere. E’ il silenzio la plaga che cinge e
fertilizza la meditazione del Leopardi, in cui i suoni e le voci,
notturne o crepuscolari, così come anche gli oggetti lontani
ed indistinguibili, hanno sempre costituito il tramite fantastico e
meditativo, per legarsi psicologicamente anche al nudo silenzio. Ed
altro rifugio, più suo proprio, del silenzio e della
solitudine, non poteva esserci per chi si scopriva relegato da ogni
partecipazione alla vita, che tutt’intorno gli pareva
lietamente svolgersi. Non è quindi, come sosteneva Asor Rosa
una scelta poetica il silenzio, ma una circostanza realistica
divenuta categoria spirituale ed intellettuale della sua particolare
situazione esistenziale, e in questo caso forma poetica con la quale
il Leopardi poteva intimamente ancora legarsi alla vita umana del suo
borgo, e dare un senso con essa anche alla propria. Senza questa
consapevolezza culturale e psicologica non sarebbero nati, in modo
specifico ed esemplare né il Canto notturno, né Le
Ricordanze, così come neanche quegli Idilli e quelle Operette
morali in cui la vita appare avvolta da un silenzio silenico.
22/06/1991
L’Infinito
di Leopardi è il suo Sublime romantico, è lo sgomento
descrittivo e sensistico che si fa piacere intellettuale senza
perdersi nella voragine dell’universo pascaliano. E’ il
luogo lucreziano del sapiente che ha scoperto la sua superiorità
morale nella contemplazione mistica, guidata dalla ragione e
dall’armonia delle passioni. Ma compositivamente si potrebbe
anche dire che l’Infinito è troppo calibrato nella
narrazione per gradi sensoriali convergenti, per crederlo un puro
capolavoro dell’intuizione lirica. E’ un episodio dei
sensi guidati dall’intelletto letterario, dalla perizia
stilistica e tecnica, un vero compiacimento da erudito.
15/11/08
Leopardi
lega la poesia ad un valore di natura perenne, che è appunto
la psicologia dell’uomo che si rivede sempre in una circolarità
di riflessioni esistenziali che lo soffocano fino negli estremi
palpiti di un requiem che intona: A sé stesso.
20/11/08
Poesia
di auto commiserazione esistenziale sapientemente trasfigurata in
simboli l’Infinito del Leopardi. Dietro di esso, nella sua
genesi psicologica e storica, c’è tutto un fermento
umano e culturale di libertà bloccata da un fallimento di fuga
reale dal natio borgo selvaggio. Ed infine, a livello poetico è
una rivincita del pensiero spazioso per dare dignità
sostanziale al patimento di un’involontaria inettitudine,
disperatamente contrastata da lunghe segrete lacrime trattenute.
26/05/1991
L’origine
e l’archetipo della poesia e della vita interiore e speculativa
di Leopardi sono principalmente il silenzio e il cielo e il paesaggio
di Recanati con le sue viuzze, le sue voci quotidiane vicine e
lontane, e le stelle, e la luna. Il pastore primitivo, non doveva
Leopardi trovarlo fuori di sé, errante nelle steppe dell’Asia
in un lamento di nenie, poiché egli già se l’educava
e portava dentro con tutte quelle sensazioni ed inquietudini
sentimentali che il silenzio del deserto e dell’orizzonte
invalicabile sanno creare ed illuminare in uno spirito poetico che
vuole popolare di piacevoli emozioni quei nudi silenzi e superare la
delusione esistenziale che fatalmente giunge a fiaccare la
prospettiva inguaribile del viaggio dell’anima.
06/09/2000
Leopardi
non conosce l’ossimoro ricreativo e felice del pensiero. È
dommatico; è tutto di un pezzo, psicologicamente e
concettualmente. Per questo è godibile dalla mente anche più
comune, dalla mente che segue il senso comune della vita. La sua
problematica esistenziale è fisiologica, e quindi segue il
senso comune, le apparenze, anche quando fa della conoscenza un
problema, come nel Canto notturno. È’ un romantico senza
l’esperienza della città. È’ uno
spiritualista che continua a leggere la vita arcadicamente. Forse i
Canti più riusciti modernamente sono quelli del suicidio,
oltre al Canto notturno e a La ginestra, di stampo volteriano questa,
una visione cosmica dagli assunti biblici, da Ecclesiaste. L’uomo
è inchiodato nel suo ricorrente disfacimento al pari di tutte
le cose della natura, con in più la consapevolezza drammatica
ed unica di scoprirsi e sentirsi il più infelice, e senza
scampo perché circoscritto dalla sola forza naturale delle sue
argomentazioni razionali. Procede, appunto, per conclusioni e
presunzioni di stampo naturalistiche, anche quando esita. Non sfugge
verso soluzioni alternative, che ne possano variare il contenuto
possibile, quello che modernamente noi sentiamo verificarsi nelle
parole impreviste. La forte razionalità non gli concede lo
spazio per sostenersi psicologicamente nella suggestiva sospensione
della creazione verbale ancora aperta. La sua conoscenza è una
verità che non ha la gentile complicità del dubbio.
Ogni incertezza, il forse, è sancito dall’affermazione
perentoria negativa di sé, “a me la vita è male”
o universale, “è funesto a chi nasce il dì
natale”. Uscire dalle sue proprie conclusioni intellettuali non
è facile così come non è facile abbandonare del
tutto le suggestioni metafisiche, che pure si porta appresso, ma per
intristirle, dato che non ne ha più bisogno per recuperare
esitazioni e proporre rimedi e più quieti sotterfugi, per
essere stati sfiorati dal senso indefinito di essi. L’uomo
moderno tuttavia è approdato ad una soluzione nuova e senza
compromessi. Ha trovato la propria responsabilità problematica
nella fertilità del suo linguaggio. La sua parola, sia scavata
sia sommessamente pargoleggiata, costituisce la nuova ciclicità
culturale da cui partire per fondare rapporti esistenziali e
conoscitivi meno esclusivi, meno drammatici. L’intellettuale
del nostro tempo figlio anche dell’uomo del Leopardi, non vuole
né può acquietarsi in una soluzione appena raggiunta,
perché egli è un indagatore instancabile della propria
cultura, della propria storicità. Il male di vivere, che pure
il pensiero si porta serrato dentro di sé, è divenuto
non un’essenza interessante e ferrea ma un problema transitorio
che la mente nel suo instancabile procedere sempre più avanti
ha relativizzato, ne ha fatto una pausa secondaria e necessaria nella
virtuosa possibilità che venga smontato e superato da nuove
organizzazioni concettuali, conoscitive e morali per il tramite del
suo laborioso linguaggio. La sua parola, ora restaurata da
responsabilità culturali e storiche più immediate,
corre in aiuto dell’uomo più di ogni salvifica
tradizione e di ogni avventura avanguardistica per creare una visione
della vita non più abitata dai vecchi fascinosi pregiudizi né
dalle vecchie certezze razionali, che alla prova della storia sono
miseramente franate. L’uomo che noi prefiguriamo, il poeta che
noi cerchiamo di elaborare e sentire è un sofferente portatore
di certezze incespicanti che fiduciosamente tuttavia vogliono
incontrare una mente dinamica e progressista sotto il segno fecondo
del relativismo critico, come fiducia intellettuale nel crescere e
variare della parola umanamente sentita nella Storia, e tale che da
sé stessa possa resistere alle rigide classificazioni morali e
culturali di parte.
16/08/1983
Perché
in Leopardi la notte, il colloquio notturno, la visione della notte,
non richiamano mai la morte, come invece avviene con i romantici
nordici, o con lo stesso Foscolo? Il fascino del paesaggio notturno
si popola sempre di presenze concrete di vita e rifugge sempre dalla
gratuità di suggestioni poetiche alla moda. Forse perché
la morte è un concetto così ovvio che a parlarne e ad
assumerlo risulterebbe inefficace al confronto con il tedio, la noia
sublime, il male e il senso concreto del dolore esistenziale
dell’uomo storico. Aggravarlo con la morte, che è poi un
elemento banale e certo della sua esistenza, sarebbe ozioso;
Leopardi, invece, vuole educare l’uomo ad avere coscienza della
sua umanità, come pensiero e come corpo, in questa accidentale
avventura, dove nessun mito, nessuno appiglio può fermarlo dal
correre verso il proprio continuo morire, e perdere la forza generosa
delle illusioni, che pure non lo salvano dalla sua morte concreta. E
per questo la morte non compare in sé, pur essendo sempre
presente; e non è morte fisica ma scolorare del sembiante,
perdersi e naufragare del pensiero nella vastità
dell’universo, nella sua solitudine immaginativa, senza entrare
più in contatto panico con l’esistente; neppure il
tramutarsi in altro elemento, tuono o fulmine, assicurerebbe la
coscienza del proprio dolore, che non è nella morte ma nella
consapevolezza di avere scoperto il male di vivere, che è male
assoluto, irreparabile.
10/09/1991
Poiché
in Leopardi nessuno scritto, in versi o in prosa, appare fine a se
stesso, ma sottende sempre ad una funzione morale, è da
supporre che l’Infinito, che si presenta per la sua concezione
come un unicum nella produzione del poeta,(fu forse suggerito da
particolari suggestioni della sua Storia dell’astronomia? ),
non finalizzato ad alcun progetto socialmente dimostrativo , potrebbe
essere invece come la realizzazione intima della teoria sensistica
del piacere, che si attua in quella particolare dimensione
psicologica di spazio e tempo, che, pur nella loro dinamica
inquietudine, si fondono e compensano nel pensiero, che non più
serba niente della sottrazione continua di vita interiore, che
assiduamente opera il fluire biologico nella mente, per cui tale
piacere, goduto da un simile stato d’animo intellettuale, non
più potendo dilatarsi né variare d’intensità,
si autonarcotizza nella paralisi dei propri sensi, naufragando in
quel suo particolare mare di dolcezze, che alla fine quietamente si
compiacciono di se stesse. Ma di certo non era questa arcadica o
sublime evasione che il poeta cercava per mascherare o appagare la
tensione spirituale del suo “altrove” esistenziale, che
qui in verità ha la maniera indolore di una pacifica
conclusione dal sapore arcadicamente teatrale.
12/12/1991
E’
l’Infinito ,questo del Leopardi, fatto di pause contemplative
su un paesaggio suggestivo e sorprendente dove la mente intuita la
sua spaziosità esita, non vi si avventura in uno slancio
irrazionale, che annullerebbe ogni concreta possibilità di
visitarla e dominarla, ma il pensiero pur elevandosi vi penetra e vi
cresce e si espande per successive e nuove esperienze temporali, così
da concretizzare e descrivere quel suo particolare infinito in una
summa totalizzante di sensazioni sperimentabili nella dimensione del
divenire umano dell’anima e dell’intelligenza, che
consentono al pensiero del poeta di lasciare l’inconsistenza di
pure idee e pure parole per ricondursi in terra, da dove la sua
visione non si solleva come in Baudelaire “con ala inebriante a
nuotare nell’etra”, se è vero che il suo Infinito
è costruito e vissuto a frammenti, a sbalzi aggiunti a sbalzi
che pure sanno condurre la sua anima a sentire e a godere il fascino
sovrumano dell’eterno, fuori da ogni astrattezza o estraneità
della mente, in cui tutto ciò che essa percepisce diventa
infinito; le morti stagioni diventano anch’esse eco e senso
dell’infinito e l’attuarsi della stagione presente,
sentita come scorrimento e battito perduto, che la voce del vento
evocando materializza nell’unica forma concepibile dalla mente,
come ricordo, come passato, come memoria appunto. Si direbbe che
l’Infinito sia sostanzialmente coevo alla mente umana, ne sia
una categoria spirituale ineliminabile, che preesiste per
materializzarsi negli atti evocativi del puro pensiero. A partire da
“e come il vento” la poesia e la mente si innalzano e
crescono in una concitazione di musicalità cosmiche. Dopo un
incipit quasi guardingo in cui prevale un atteggiamento geografico,
fortemente spiritualizzato dall’avverbio temporale, che pare
già concludere più che iniziare l’operazione
mentale verso l’Infinito, anche l’insistere sulla
precisione verbale denotativa, “questa siepe, quest’ermo
colle”, che ritorna in “queste piante” e in
“quell’infinito silenzio e in questa voce e in questa
immensità” serve a circoscrivere il primo sbocciare
dell’idea dell’infinito come un supporto necessario da
cui logicamente l’interiorità del poeta estende il suo
sguardo verso l’altrove, anche perché il Leopardi
classicamente non si perde in vaghezze metafisiche o simboliste, se è
vero che tale viaggio della mente può farci pensare anche alla
resistenza psicologica che può incontrare il pensiero
nell’incorporare la prima idea dell’infinito nella forma
essenziale della parola che può esprimerlo, e pertanto
muoversi verso regioni che gli si addicono di immaginare oltre i
limiti terrestri e attingere lo spavento incommensurabile
dell’eterno. A Dante che si trasuma solo nella visione di sé
stesso, incapace di sentire il divino fuori dalle dimensioni umane,
il poeta recanatese invece divinizza il suo pensiero nella totale
estraneità d’ogni contatto con la forma racchiusa e
circoscritta del proprio essere. Così in lui l‘immateriale,
la pura sensazione acquista dimensione conoscitiva e poetabile
caricandosi di valori catartici, e “il naufragar m’è
dolce in questo mare” sensibilmente ed umanamente
caratterizzato. Siamo più che alle soglie in piena poesia
pura, assoluta, anche se non ancora problematica e storicizzata come
quella. Il poeta moderno non cede, non interrompe la sua estasi, che
dura e l’accompagna in piena e totale coscienza fino
all’appagamento, che si genera in lui per forza propria più
che per costruzione simbolica mossa e finalizzata dall’Ente,
giacché la sua divinità non è fissa in un punto
paradisiaco, non aspetta che vi si salga attraverso lucori e
candelabri e spazi di luci sfavillanti, essa è invece figlia
dei contrasti, delle visioni della mente interrotte a cui sempre
tendere e virtuosamente ripetersi con nuovi propositi conoscitivi,
che si generano e spaziano di vita imprevista. Il suo orizzonte
dell’essere è grazia che sollecita possessi tanto più
fascinosi quanto più oscuri e nebulosi presentano gli
approcci. E’ proprio da questa diversa impostazione che
l’infinito del l’intellettuale moderno esce più
totale e si assolutizza in lui nella privazione di una meta o di un
fine morale per divenire come avventura possibile del suo pensiero
aperto ed indomabile, nella cui tensione pare riscattarsi e rivivere
la santità di ogni presunto oltraggio alla conoscenza
18/07/1986
Come
se avesse voluto esorcizzare il fallito tentativo di fuga del 1819
creandosi un risarcimento spirituale nell’unico modo che gli
era congeniale, cioè “creando”; anzi si potrebbe
dire che nell’Infinito il Leopardi si sia ritagliato un topos
edonistico totale ed appagante, irripetibile e che compensa quello
storico, geografico e sociale che sperava di sperimentare con la
fuga. Qui pare, specie per il determinarsi e precisarsi
dell’ambiente, che si possa individuare la prima intuizione
della materia biografica e memoriale per il tramite del paesaggio che
ritornerà in alcuni grandi idilli. Il sempre caro iniziale
vorrebbe essere anche una dichiarazione di fede? Ma non potrebbe
essere stato una finzione, un’amara dichiarazione della propria
rassegnazione e della propria sconfitta? Oppure un voler prendersi
una rivincita sul padre dimostrandogli che dopo tutto egli sapeva,
per virtù di arte, essere felice anche lì, ribadendo
quel tale concetto proprio con quel “Sempre caro mi fu”,
e che come in passato anche nella presente situazione, pur dopo
l’amarezza, ritrovava la forza morale di riabituarsi a sentire
in quei suoi selvaggi luoghi il paesaggio adatto a procurargli
appagamento e dolcezza interiore. Perché Leopardi non dice “mi
è” ora, ma mi “fu” a sottolineare una
continuità psicologica ed anche una assuefazione esistenziale
che proietta il passato, sperimentato emotivamente invariabile, nel
presente, il passato che si ripete nel presente per virtù
della forza conclusiva del verbo “fu”, perché esso
nella sua perentorietà temporale e concettuale non indica solo
un avvenimento del passato, colto nel passato, ma conferma anche una
situazione sentita nel presente, estensibile nel presente, che viene
catturato dal rigore espressivo del verbo al passato remoto; perché
se avesse voluto indicare che l’azione sentimentale tornava nel
presente e non invece che durava anche nel presente senza soluzione
di continuità, avrebbe adoperato l’imperfetto, mentre
l’uso del passato remoto, come proiezione del suo passato e sua
continuità nel presente trova quel luogo ancora attuale se vi
si può riconoscere e sedervi per ritornare alle usate
meditazioni e interiori contemplazioni, mosse queste ultime dal
paesaggio esterno, che è appunto come l’occasione sodale
di quelle. Ma per ritornare ancora al sospetto che il Leopardi avesse
voluto ironicamente comunicare al padre soprattutto, o forse anche a
sé stesso, quasi a porre un sigillo definitivo ai suoi sogni
di evasione, con quel “sempre caro mi fu”, che pare
appunto una contraddizione con la sua ricerca di socializzazione e di
contatti con il mondo esterno. E l’ironia è tutta
dissimulata nel linguaggio: egli che aspirava a sperimentarsi
concretamente con il mondo di fuori, dice ora di avere sempre avuto
caro quell’ermo colle, estraneità e solitudine, che pur
sono le cifre spirituali di ogni poesia e di ogni suo meditare, qui
si rivestono di ambiguità e di vinto sarcasmo. A me l’Infinito
pare, per quelle sottili cesure di tensione e di composizione che a
volte vi intuisco, per quel crescere a singhiozzo di sensazioni, il
canto di una sublime sconfitta; il testamento di chi ha per sempre
vista preclusa la possibilità di evasione. E’ la
dichiarazione estrema di chi si sente inesorabilmente prigioniero; è
l’abiura alle proprie tensioni dell’altrove, se ora
professa davanti ad una ideale corte di giudizio, il colle e
l’infinito, la propria professione di fede e di fedeltà
ad un luogo dell’odioso Recanati, come a voler dire che fuori
di esso non potrebbe provare le stesse emozioni edonistiche, il
proprio appagamento spirituale, che metaforicamente si materializza
in un mare che, appunto, per la sua vastità, fisica,
concettuale e psicologica comprende ogni altro luogo di fuori, lo
circonda e sovrasta ed ingloba, e quindi esclude la necessità
di ogni altra evasione e ricerca, perché tutto in quel mare è
sentimentalmente compreso, anche la stessa sognata fuga.
07/02/1993
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