Due
vite – Emanuele Trevi – Neri Pozza –
Pagg. 128 – ISBN 9788854522633
– Euro 15,00
Emanuele
Trevi in Due vite narra le memorie di due carissimi amici.
Trevi
lo si immagina immerso tra fogli e fotografie, riuscendo a
tratteggiare la personalità dei due attraverso la rievocazione
di vita comune fino alla prematura scomparsa.
“Perché
noi viviamo due vite, entrambe destinate a finire: la prima è
la vita fisica, fatta di sangue e respiro, la seconda è quella
che si svolge nella mente di chi ci ha voluto bene. “
Trevi
propone al grande pubblico due autori: Pia Pera e Rocco Carbone,
morti prematuramente senza affermarsi completamente, e la bravura di
Trevi è stata proprio quella di farmi conoscere non solo la
loro produzione letteraria, ma, soprattutto l’essenza del loro
essere, Trevi li ricorda nei momenti passati tutti e tre insieme, li
presenta in tutta la loro intimità.
Una
ricerca minuziosa di particolari che hanno caratterizzato l’amicizia
intima se pur lontana di Pia Pera e Rocco un’analisi che porta
lo stesso autore a porsi delle domande sull’esistenza
stessa.
Sinceramente
non è una lettura facile, per me ancora più difficile
visto che ho ascoltato il libro su Audible; spesso ho dovuto
riascoltare dei capitoli interi per carpirne l’essenza,
difficoltà accentuata dal non conoscere, nemmeno per sentito
dire i due autori: sono rimasta particolarmente incuriosita da Rocco
Carbone e dalle sue opere visto gli argomenti da lui trattati, quale
la sua stessa malattia mentale.
Nonostante
le mie difficoltà nel proseguire l’ascolto di “Due
vite” trovo che la scrittura di Trevi sia elegante e riesce a
immergere il lettore nelle emozioni più segrete lasciando il
sapore di buono.
Citazioni
tratte da: Due
vite
Quanto
ad esser felici, questo è
il terribilmente difficile,
estenuante.
Come portare in bilico
sulla testa una preziosa
pagoda,
tutta di vetro soffiato, adorna di campanelli
e di
fragili fiamme accese;
e continuare a compiere ora per ora i
mille
oscuri e pesanti movimenti della giornata
senza che
un lumicino si spenga, che
un campanello dia una nota turbata.
Cristina
Campo
[da
una lettera a Gianfranco Draghi, febbraio 1959]
Le
fantasie dei romanzi e gli aspetti della realtà possono
diventare, in certi paraggi delle vecchie città,
indistinguibili e reciprocamente generati.
Inspiegabilmente,
alla fotografia si associa l’idea dell’«immortalare»,
ma è un modo di dire sbagliato, non c’è nulla che
più della fotografia, in un modo o nell’altro sempre
vincolata all’attimo e al presente, ci ricordi la nostra
transitorietà e futilità.
(…)
D’altra
parte, quell’attimo che la fotografia ritaglia nella durata può
rendere visibile un’essenza, un aspetto permanente del
carattere.
(…)
E quel gesto protettivo catturato
dalla foto le è così connaturato che assomiglia più
al respiro e al battito del cuore che alle decisioni consapevoli.
Solo così, vorrei aggiungere, quando fare il bene è una
cosa che letteralmente ti scappa, mentre nemmeno ci pensi, la mano
arriva al momento giusto e scongiura il peggio. Paragonato a questo
istinto morale, il bene volontario produce sempre il suono di una
moneta fasulla.
… le
persone non sono stati d’animo, certi tratti fondamentali li
vedono tutti.
Come
è possibile che conteniamo in noi tante cose così
disarmoniche e spaiate, manco fossimo vecchi cassetti dove le cose si
accumulano alla rinfusa, senza un criterio?
…quasi
tentati di dire che le difficoltà della vita rendano le
persone migliori e più forti. Io non ci credo, non ammetterò
mai che un dolore o una malattia servano a qualcosa, è solo
una consolazione moralistica, e comunque rinuncerei volentieri a
questi famosi frutti della sofferenza. Non siamo nati per diventare
saggi, ma per resistere, scampare, rubare un po’ di piacere a
un mondo che non è stato fatto per noi.
La
memoria si sfarina in una serie di immagini simili a un mucchio di
fotografie rovesciate sul tavolo da un cassetto…
Un
singolo ricordo può essere perfettamente lieto e spensierato,
come una margherita che sboccia tra due gelate.
«C’è
sempre qualcosa di assente che mi tormenta» diceva Camille
Claudel, l’allieva di Rodin, malata cronica di nervi. Quelque
chose d’absent. Chiamiamolo così. Forse queste cose
fanno parte della vita di ognuno, e c’è chi ci fa più
caso, e chi meno. In una certa misura, se questo è vero, la
felicità dovrebbe consistere in una sempre minore attenzione a
se stessi. Altro che la cura di sé! Meno sai chi sei e cosa
vuoi, meglio stai.
«La
luce ha invaso tutti gli angoli, cancella le ombre e rende ogni cosa
di un colore uniforme».
Del
resto, nella vita umana non esiste nessun vero appagamento, e basta
immaginare dei motivi di frustrazione per trovarli belli e pronti
nella realtà.
Mentre
la vita delle singole persone, in quanto esseri mortali, è
difficile senza distinzioni e certi vantaggi stabiliti dalla sorte
possono rivelarsi degli ulteriori ostacoli, o risultare, a conti
fatti, del tutto irrilevanti.
Noi
pensiamo di essere infelici per qualche motivo, e non ci rendiamo
conto che è proprio l’infelicità a produrre
continuamente un suo teatro di cause che in realtà sono solo
le sue maschere, e buona parte della nostra vita – speriamo non
tutta! – trascorre alle prese con problemi apparenti:
sentimentali, creativi, economici..
Garboli,
nel suo grande saggio sulla vita di Antonio Delfini, ha scritto che
in ogni amicizia c’è un rimorso.
… passo
dopo passo, senza mai accennare a un conflitto, ci si può
allontanare moltissimo.
La
psichiatria, che è un modello di conoscenza che ha lo scopo di
formulare diagnosi e stabilire terapie, per essere efficace deve
astrarre, ridurre la molteplicità dei casi e dei sintomi a
delle costanti, creare delle definizioni: isteria, paranoia,
depressione, episodio maniacale… Al contrario, la letteratura
deriva la sua stessa ragion d’essere dal rifiuto di ogni
generalizzazione: è sempre la storia di quella persona, murata
nella sua unicità, artefice e prigioniera della sua
singolarità. E dunque la letteratura, se parla di una
malattia, non potrà che trasformarla in una malattia senza
nome, l’unica che si possa commisurare degnamente a
quell’irripetibile intreccio di destino e carattere,
contingenza e necessità che dà vita a un personaggio.
C’è
un tipo di saggezza che consiste nell’aspettare la verità
come un eremita nel deserto, murato tra le proprie abitudini,
insensibile alla mutevole varietà del mondo.
…perché
ogni perdita d’innocenza aumenta in noi il senso desolante
dell’estraneità di quel mondo che l’anima si
ostina a scambiare per la propria casa.
Capita
agli uomini di uscire all’improvviso dalle loro storie per una
momentanea, irrisoria distrazione, una minuscola sfiga. Qualcosa che
non c’entra nulla e prevale su tutto il resto. Da quel momento,
l’onda d’urto dell’assurdo procede a ritroso
investendo tutto il passato, fino al primo giorno.
Più
ripeti una parola, più diventa l’equivalente del suo
contrario. Come se la ripetizione svelasse il trucco, ricordandoci
che non esiste nessuna parola adeguata al casino indecifrabile della
vita umana, al suo perenne fallimento.
Perché
noi viviamo due vite, entrambe destinate a finire: la prima è
la vita fisica, fatta di sangue e respiro, la seconda è quella
che si svolge nella mente di chi ci ha voluto bene. E quando anche
l’ultima persona che ci ha conosciuto da vicino muore, ebbene,
allora davvero noi ci dissolviamo, evaporiamo, e inizia la grande e
interminabile festa del Nulla, dove gli aculei della mancanza non
possono più pungere nessuno.
Il
fatto è che nelle nostre vite il caso e il più
inflessibile concatenarsi degli eventi si assomigliano in modo da
diventare esattamente identici – e forse è proprio
questa opacità a permetterci di tollerare l’urto delle
cose, senza mai farcene una ragione ma finendo per accettarle.
Un
sospetto mi tormentava: uno di quei tormentoni che nel buio della
notte fonda si ingrandiscono a dismisura e che con la luce del giorno
riacquistano le loro vere dimensioni – tranne quelle volte in
cui la paranoia intercetta una verità fondata.
…le
vere rivoluzioni sono trasformazioni: di ciò che già
sappiamo, di ciò che abbiamo sempre avuto sotto gli occhi.
Perché è vero solo ciò che ci appartiene, ciò
da cui veniamo fuori.
anche
i ricordi di chi abbiamo conosciuto talmente bene che la consuetudine
è diventata quasi un riflesso condizionato, si staccano e
volano via con rapidità inconcepibile. Pensiamo di averne
accumulati tantissimi, così numerosi e vividi da ritenerli
inestinguibili – e invece in mano ci resta poco più di
uno sfarfallio di immagini incerte e fuggitive. Forme di memoria
talmente insignificanti e sbriciolate da equivalere alla
dimenticanza. Tutto l’onere della prova ricade sulle spalle di
chi resta.
Il
male del «motoneurone» va avanti come un condottiero che
invade una terra che non potrà mai opporgli una vera
resistenza – al massimo qualche rallentamento.
Emily
Dickinson, botanica di prim’ordine. «I haven’t told
my garden yet» dice la poetessa, non l’ho ancora detto al
giardino che mi tocca morire, penetrare nell’«Ignoto».
Presto, troppo presto! Come farà il giardino a capire perché
la giardiniera non viene più ad accudirlo? Meglio nascondergli
la verità, meglio nasconderla anche all’ape che ronza
tra i cespugli, alle foreste e alle praterie dove Emily ha tanto
amato camminare.
Anche
nel giardino erano circolati dei serpenti. Perché le età
della vita non si succedono, si accavallano.
Katia
Ciarrocchi
www.liberolibro.it
|