Sparse
impressioni di lettura su Pascoli
di
Giuseppe Piazza
Nella
nota bibliografica alla sesta edizione di Myricae il poeta facendo la
storia delle prime liriche, umanamente, ci dice che dopo Romagna, che
è del 1880, o giù di lì, seguì un
considerevole intervallo, perché “stretto dalle
necessità della vita, il canto non usciva dalla gola serrata”,
testimonianza questa che più ci avvicina alla conoscenza umana
e poetica della sua straordinaria personalità e serietà
di sentire nel profondo l’autenticità della propria
creazione artistica, laboriosa e fertile nelle sue intuizioni e
creazioni che sanno felicemente trasportarci dal mondo classico verso
dimensioni umili di fraterna solidarietà nell’
accettazione di una esistenza raccolta e intima, che si assapora
anche al soffiare delle raffiche di vento rabbioso, stando raccolti
davanti ad un focolare scoppiettante, che per suggestione di
atmosfere campagnole classiche porta il pensiero verso l’esemplare
poemetto in latino “Il vecchio di Corico” e la sua mensa
carica di vivande non comprate. Ma l’orizzonte della sua
sensibilità poetica, indagatrice di suoni ed echi
impercepibili può anche portarci ad incontrare nella loro
essenza più evanescente e misterica temi crepuscolari e
romantici dal sapore medievale, come avviene ne “Il maniero”
in cui è possibile notare la differenza del suo medioevo da
quello del Carducci, specie del Comune rustico, variato ed animato
questo da presenze umane palpitanti, mentre quello figurato dal
Nostro appare popolato più di ombre e rumori invisibili,
propri di un romanzo o di una ballata gotica. Si pensi per tali
sospensioni di fascino e mistero a “Il Libro” che, aperto
sopra il leggio nell’altana ,sfogliato da una presenza
invisibile ed inquieta , veglia e scruta il silenzio per raccontarci
le ansie della mente che si illude di trovare e sentire l’indicibile
altrove della vita, che si connota decadentisticamente al di là
di ogni intenzione romantica per farsi simbolo figurale del volto
invisibile del mistero, del senso occulto delle cose che il poeta per
intermittenti e fugaci illuminazioni avverte nel suo animo e svela
per e con la voce palpitante di un fanciullino che vive, ride e
piange dentro di sé ingenuamente e che porta il poeta a
meditare su una umanità affrancata dall’odio e a
considerare tutti gli uomini come fratelli e soprattutto buoni e
contenti di poco, “anche se ciò che più piace è
il molto”, che però ingombra e stordisce. Il fanciullino
per la sua innocenza primitiva e solidale porta conseguentemente
all’ideologia socialista come dottrina politica umanitaria e la
poesia per tanto non poteva essere che l’espressione di
sentimenti buoni e fraterni che ci richiamano il mito vichiano
dell’umanità gentile e ridente, vista ora attraverso gli
occhi di un fanciullino, che ancora non ha sperimentato la ferocia
delle passioni e dei contrasti sociali, che da lì a poco
avrebbero travolto la Belle Epoque e il sogno illimitato del trionfo
del Progresso. Per tale ragione viene meno ogni positiva spiegazione
della Storia che governa il mondo, dominato da oppressione e morte
che sgomentano la sensibilità solidaristica del poeta, così
da spingerlo a racchiudersi e bloccarsi in un suo nido protettivo,
che lo porta ad idoleggiare la serenità della sua infanzia,
nella calda protezione della famiglia e della casa, specie quando su
di essa si abbatterà la violenza dell’assassinio del
padre e delle morti frequenti e precoci dei suoi familiari, che
disperdono ogni idillio campagnolo e domestico soffocato anche e
soprattutto da un meditare cosmico sulla vita di questo mondo, che
perde ogni attrattiva umanamente romantica per divenire “un
atomo opaco del male”, in cui angosciosamente il male, al pari
di quello cosmico leopardiano e di quello più intimo e palese
di Montale, suscita delle domande inquietanti e senza risposte
logicamente plausibili, anche perché stilisticamente, come è
stato notato, il poeta porta all’estremo quel processo di
rarefazione dell’elemento logico-narrativo, come avviene , per
esempio, ne” Il gelsomino notturno”, in cui la vita più
segreta e indecifrabile della natura umana, intuibile solo per arcane
corrispondenze, pare esprimersi in reticenti allusioni erotiche,
“dentro un’urna molle e segreta”, dove si prepara a
formarsi una nuova creatura, per gli sposi novelli, amici del Poeta,
ai quali la lirica è dedicata per il loro giorno di nozze. E
trascorrendo le nostre brevi considerazioni in questo labile e
fraterno omaggio al Pascoli incontriamo l’inobliabile figura
della madre morta che pare materializzarsi nei ricordi più
stranianti e pietosi per farsi consolatrice e consolazione dei
triboli e delle ansie che sopraggiungono nel nel sentire l’incubo
della malattia e della morte da cui si guarisce morendo, come
liminarmente appare nel sogno sempre più carico di simboli e
valori che tendono a prefigurare inviti umani a non prevaricare e a
non uscire fuori dal proprio cerchio economico ed esistenziale, quasi
sulla stessa risonanza dell’ostrica del Verga, anche se con
meno drammaticità sociale. E’ questo, come apprendiamo
anche dagli scritti in prosa, un progetto culturale ed umano tinto di
socialismo utopistico, che pur senza le forti motivazioni morali, per
esempio di un Manzoni, sembra proprio completare l’ideologia
pascoliana. L’accontentarsi di poco, come amava ripetere, che
in sé ci pare una visione da bohemienne, sta agli antipodi del
vitalismo aristocratico del suo celebre fratello, Maggiore e minore,
come amava definire il divino Gabriele, cultore di un sensualismo
decadente legato al mondo letterario europeo, da cui il Pascoli non
sembra sfiorato nel suo sentire le intime vicissitudini spirituali e
psicologiche del Decadentismo, in cui la sua poesia per forma e
contenuti si eleva magistralmente, offrendosi altresì come
moderno serbatoio linguistico di primissimo piano, al cui seme molti
attingeranno per il suo grande afflato umano e sentimentale che lo
portano ad assimilare religiosamente il mondo classico visto nei temi
più umili e toccanti di umana pietà, come avviene nei
celebrati e premiati poemetti latini, dove il poeta ama alzare gli
occhi da quei suoi libri fascinosi per guardare ed incontrare quelli
della vita, intesa questa come infinita e fertile scoperta delle
possibilità emozionali e reali della parola poetica, che sa
divenire impressione pittorica in un palinsesto di nature agresti e
simboliche, percorse da suoni marginali come avviene nei versi di”
Patria” o in quelli di “ Mezzanotte”, per
privilegiare impressionisticamente il tono soffuso di una notte
magica, dove nella città notturna, come canta Laforgue in
Apoteosi veglia un folle, che qui non è un parigino o un
mistico o un romantico, ma un solitario che cerca il Vero, cioè
è un positivista, un filosofo che si affatica ad aprire una
conchiglia nell’immenso mare dell’Essere, che ci richiama
la visione dello sconosciuto che sfoglia e risfoglia senza tregua il
libro del mistero. E per limitare questo breve e saltuario
vagabondare nell’inesauribile mondo poetico del Pascoli, ci
piace indugiare su quel quadretto familiare evocato ne “Il
rosicchiolo”, che ci apre il mondo umile e povero di un tugurio
di contadini, dove ai bambini si dava al posto del gommoso succhietto
dei nostri giorni un tocco di pane duro da rosicchiare, il cui sapore
emblematicamente faceva scoprire anzitempo al bambino la sua reale
futura appartenenza sociale di umile .Ed infine si deve ricordare ad
onore e vanto della sua poliedrica sensibilità artistica ed
umana il poemetto Italy in cui l’attenzione del lettore viene
subito catturata dalla significativa epigrafe che vi premise - sacro
all’Italia raminga -. “La vicenda cantata è quella
di una famiglia di contadini, emigrati da anni in America e del loro
ritorno in patria, al focolare antico, al paese d’origine”
ciò che fondamentalmente colpisce è la descrizione che
l’emigrazione comporta la solitudine e l’estraneità
dell’emigrato condannato a correre “per terre ignote”,
e l’auspicio che l’Italia un giorno possa richiamare i
suoi figli dispersi. A questo punto bisogna segnalare lo
stravolgimento politico ed umanitario che tali parole avranno in
seguito nelle prospettive nazionalistiche, più che
socialistiche del Pascoli, quando in occasione della guerra alla
Turchia per la conquista della Libia del 1912, scriverà il
famoso discorso “ La grande proletaria si è mossa”
che ci dice come il Pascoli, pur essendo per natura e formazione
legato a motivi umanistici e ai temi del “nido”, abbia
subito il fascino aberrante delle ideologie nazionalistiche del suo
tempo che gli facevano assumere il ruolo di poeta vate civile,
riconoscendo un valore sociale ed umano alla guerra per creare un
luogo protettivo agli erranti Italiani, per virtù di una
colonia gestita dalla madre patria.
Giarre
13 -03-2022
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