Sulla
riva del mare – Abdulrazak Gurnah – La nave
di Teseo – Pagg. 384 – ISBN 9788834609682
- Euro 20,00
Voci
da isole d’Africa
“[…]
L’uomo da cui ebbi l’oud-al-qamari era un mercante
persiano del Bahrain che era venuto nella nostra regione con i musim,
i venti monsonici, lui e centinaia di altri mercanti dall’Arabia,
dal Golfo, dall’India e dal Sind, e dal Corno d’Africa.
Lo facevano ogni anno da almeno mille anni. […] Essi portavano
con sé i loro beni e il loro Dio e il loro modo di vedere il
mondo, i loro racconti e le loro canzoni e le loro preghiere […]”.
È
una sorta di fine e antica poesia quella di cui appare intrisa gran
parte della narrazione racchiusa tra le pagine del romanzo “Sulla
riva del mare” dello scrittore africano naturalizzato
britannico Abdulrazak Gurnah, ripubblicato in Italia sul finire dello
scorso anno da La nave di Teseo.
Nativo
del lontano arcipelago di Zanzibar, nell’Oceano Indiano di
fronte alle coste della Tanzania, Gurnah, classe 1948, è
pressoché fresco di Premio Nobel. È la quinta volta
che, per la Letteratura, il prestigioso riconoscimento dell’Accademia
di Svezia approda in terra d’Africa e soltanto la seconda che
lo si assegna a un autore africano dalla pelle nera (il primo fu il
nigeriano Wole Soyinka negli anni Ottanta); una rappresentanza
indubbiamente ancora troppo esigua rispetto a quella di altri
continenti, che si spera possa però divenire più
consistente poiché da lungo tempo il mondo letterario africano
è ricco di interessanti e straordinarie voci meritevoli
d’attenzione.
Questo
libro ne testimonia appieno la vitalità e il valore,
consacrando il continente nero come scrigno di storie affascinanti
che attendono solo di essere ascoltate al di là del
Mediterraneo e degli oceani. Un romanzo dai toni delicati e i
contenuti grevi, denso di vicende che si intrecciano
inconsapevolmente tra loro sullo sfondo di una Storia troppo spesso
traditrice, ingiusta, spietata. L’ultrasessantenne mercante di
mobili, che fa sua un’altra identità per poter partire
in cerca di asilo, non immagina di ritrovare all’estero un più
giovane conterraneo, non certo sconosciuto, con il quale condividere
la medesima condizione di rifugiato. La casualità
dell’incontro permette il confronto e l’incastro dei
tasselli di un puzzle infelice e drammatico, mentre a poco a poco
emerge ed esplode tutta l’amarezza di chi vive la realtà
dell’emigrazione e, nel contempo, tutto ciò che
l’esilio, volontario o meno, comporta.
Gurnah
ci conduce pertanto nella sua Zanzibar, da cui lui stesso in passato,
al pari delle due voci narranti, si vide costretto ad andare via. La
sua si rivela fin da subito una prosa fluida e pacata, ben capace di
conquistare il lettore trasportandolo di colpo dalla riva del mare di
una piccola città inglese a quella “di un caldo oceano
verde” battuto dai venti monsonici, i musim, che portano da
secoli uomini e merci. Ed ecco, dunque, che l’abile penna
dell’autore consente di leggere tra le righe anche la storia
profumata di spezie di quell’angolo d’Africa della costa
orientale, dove elementi arabi e persiani si mescolarono con il
sostrato originario locale dando vita a una cultura molto
particolare, quella swahili, che evoca antichi e duraturi rapporti
con l’Oman e rotte persino al di là della zona del
Golfo; e, naturalmente, essa non tralascia di fare i conti col
colonialismo che, se da un lato concedeva istruzione e a scuola
esaltava la resistenza alla tirannide, dall’altro non esitava a
incarcerare “gli autori dei pamphlet a favore
dell’indipendenza”. A tal riguardo, riflessioni molto
significative pesano come macigni sulla coscienza sporca
dell’Occidente, la cui partenza nei decenni scorsi fece posto
al dispotismo e alla corruzione dei governi postcoloniali.
Un
gran bella pubblicazione che sussurra, dice e urla moltissimo a chi
abbia cuore per ascoltare. Nell’ultima parte, forse, si
accavallano troppe vicende secondarie che, a tratti, sembrano
confondere e discostarsi da quella principale, rischiando di far
perdere alla narrazione tutta la bellezza precedente, sebbene
risultino anch’esse infine funzionali alla comprensione dello
svolgimento dei fatti. Di pregio i colti riferimenti letterari, a
partire da quello all’indimenticabile scrivano di Melville,
assurto a simbolo di una umanità sconfitta, ma che ancora
conserva dignità, coraggio e forza per esclamare, dinanzi al
male dell’esistenza, “I would prefer not to”.
Laura
Vargiu
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