Martin
Eden – Jack London – Einaudi – Pagg.
396 – ISBN 9788806239794
– Euro 13,50
I
limiti della conoscenza
Letteratura
americana, pura. Ve lo ricordate “America “ di Kafka
(1911-1914)? Quanto mi sono tornate in mente le claustrofobiche
esperienze di Karl Rossmann e le atmosfere vessanti di un mondo
disumanizzante. O ancora ricordate il Poe di “Le avventure di
Gordon Pym” e il suo allucinante finale che inghiotte tutto? O
perché no, la ancor più famosa linea d’ombra di
Conrad ( 1915-1916) che porta il protagonista a chiedersi “”Cosa
m’aspettassi, non so. Null’altro che una particolare
intensità dell’esistenza, forse, ciò che è
il succo delle aspirazioni giovanili.”
Martin
Eden ( 1908-1909) ha fatto in me confluire queste semplici
suggestioni letterarie: è come se la letteratura avesse deciso
di fondersi in questo romanzo per parlarmi e riaccendere quelle
vibrazioni che letture precedenti hanno lasciato in me. Eppure a meno
di cinquanta pagine dalla fine, il contenuto lento e ripetitivo, la
catarsi infinite volte rimandata, un dilatamento eccessivo della
trama, stavano generando solo un sentimento di noia e di distacco
incolmabile. L’epilogo, tra i più belli della
letteratura, ha poi riscattato l’intero scritto e quelli che mi
erano sembrati limiti si sono trasformati in necessari tasselli,
utili a raggiungere la perfezione e la maestria: non si può
non riconoscerla.
La
vicenda narrata ricalca la biografia di London, in particolare i suoi
esordi da scrittore e i trascorsi da lavoratore a cottimo, oltre che
la sua primissima esperienza amorosa: Martin è infatti un
giovane marinaio addestrato dalla vita, incline all’alcool, dai
modi rozzi e dalla conoscenza nulla; venuto a contatto con la middle
class californiana, ne resta affascinato anche per la frequentazione
e l’amore che nascerà con un suo bel frutto, la giovane
Ruth. La fascinazione lo porta in prima istanza a una sorta di
omologazione e al miraggio di poter far parte di quel mondo che lo
rifiuta con tutto il suo classismo; mentre insegue imperterrito il
suo sogno, tutto utilitaristico, di sbarcare il lunario in modo
agevole, evitando dunque la fatica fisica e sfruttando le doti
intellettuali che, proprio in virtù di quel primo tentativo di
livellamento sociale, lo induce ad acculturarsi, si accorge che la
borghesia americana basa la sua superiorità sul potere del
denaro e non su quello della conoscenza, nutrendosi solo di ipocrisia
per celare la propria mediocrità intellettuale. Il disincanto
è misto a rabbia quando sperimenta la fatica della
sopravvivenza, un continuo alternarsi di debiti, di pegni e di
riscatti, diventa ferita profonda e purulenta quando tutto si ribalta
e il successo inizia ad arridergli. Sistemate alcune questioni
pratiche, tutte di natura filantropica, archiviata ormai la storia
d’amore con Ruth, diventato certamente ricco, capisce di essere
privo di una identità sociale, non sarà mai borghese e
non tornerà più a essere un diseredato: la cultura lo
ha allontanato da tutti, è ormai un essere asociale; gli ha
dato però la socratica certezza di sapere di non sapere. Buona
lettura.
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