Le
stanze del cielo – Paolo Ruffilli –
Marsilio – Pagg. 89 – ISBN 9788831794237
– Euro 12,00
In
copertina le mura squadrate, grigie e sbilenche di un carcere, il cui
tetto d’improvviso si apre come sotto l’onda di un
terremoto e tutto vola e si inonda di azzurro e colore: mare e ali in
volo, acqua che sgorga sorgiva e chiara, simbolo di libertà,
di contro al nero vortice che l’ha attirata come un mostro. La
libertà persa e agognata: questo il tema del nuovo libro di
poesie di Paolo Ruffilli, Le
stanze del cielo,
edito da Marsilio, con una intensa prefazione di Alfredo Giuliani,
dal significativo titolo Pensiero
e immaginazione:
un volume – cosa non frequente per una silloge poetica –
giunto in pochi mesi alla seconda edizione.
Sorta
di poema narrato in prima persona, il libro si concentra su due
aspetti poco descritti finora dai poeti, eppure dolorosamente
presenti nella nostra società: il carcere, con i suoi spazi
angusti, i suoi ritmi monotoni e assillanti, e la tossicodipendenza,
con i suoi ingannevoli baratri, da cui si evade ancor più
difficilmente che dalle sbarre di una vera prigione. Ruffilli, da
sempre poeta antilirico e capace di mettere a fuoco un tessuto di
vita, quasi raccontandolo in tono ora sommesso ora sdegnato, in
variazioni continue, prosegue con quest’opera il suo cammino di
indagine e denuncia attraverso il mondo della sofferenza, fedele –
secondo la citazione di Mori i Po posta a inizio della raccolta «agli
uomini nella disgrazia». Dopo il dramma dell’aids,
magistralmente colto e messo in scena come una tragedia greca in La
gioia e il lutto (Marsilio, 2001), il poeta si sofferma ora
su quello, altrettanto disperato e bloccato, di «quanti hanno
perduto per colpa propria o altrui la luce della loro libertà
», e ad essi è rivolta la dedica di questo suo impegno
letterario.
Scorrere
le pagine e leggere i versi delle Stanze del cielo è
come scendere in un girone dantesco dove personaggi senza nome o
volto parlano al lettore che idealmente viaggia nel loro spazio fatto
di «grate e cancelli da ogni | parte, intorno, tetri cortili |
dalle altissime mura» (Ordine, p. 20), dove «oltre
la porta | sul lungo corridoio | illuminato da piccole | finestre
tutte inferriate | un’altra porta, poi, | e chiavi rigirate |
aperte e chiuse in coda | davanti e dietro | ad ogni singolo
passaggio» (Fortezze, p. 22). Luoghi dove la luce –
parola chiave del libro – arriva filtrata, arredati da
suppellettili minime, letti «affiancati,... sovrapposti,...
accatastati» (Letti, p. 28), invasi da suoni stridenti o
silenzi a cui aggrapparsi per tener desto il pensiero o il sogno di
un’evasione, di un ritorno in quell’altro mondo che ci ha
numerati, esclusi, gestiti come «rifiuti dell’umanità»
per i quali «si fa il possibile» (Tutto il possibile,
p. 19), eppure questi «non hanno il minimo | rispetto: proteste
| ricorsi e lamentele» (La stessa storia, p. 21).
Lo
sguardo del poeta dà voce al tormento, ai rimorsi, ai
rimpianti, al senso doloroso di abbandono e solitudine che quasi
cancella la cognizione del tempo o la amplifica, sentendone la
straziante perdita: «il terrore del tempo | ti consuma i nervi
| così come il pensiero | che fuori qualcosa sta accadendo e
ti è sottratto, certo rubato per tua colpa» (Il
tempo, p. 49). I ricordi dolci e amari, l’alienazione
dai cari, dallo stesso mondo naturale – «quel pesco in
fiore e il suo tornante rifiorire che non avevo mai considerato
(Evasione, p. 29) – l’arroganza degli stessi
carcerieri, ultimo anello di una catena di poliziotti, avvocati,
giudici che applicano la lex e sentenziano verdetti
senza porsi molti scrupoli (come fa invece per un attimo il giudice
Ivan Dmitric di Anton Cechov, premesso dall’autore ai suoi
versi): è anche questo il peso che grava e corrode i giorni e
le notti del carcerato, ne riduce allo stremo le risorse interiori,
gli fa cercare rimedi artificiali, fino a che – come
stigmatizza l’ultimo verso di questa sezione – «sa
distruggersi da sé | l’io delinquente» (Autonomia,
p. 66).
Nella
seconda e più breve sezione del libro, intitolata La
sete, il desiderio, prende forma in dodici componimenti il tema
della «vita tagliata», secondo il titolo e l’ultimo
verso della prima poesia. In una sorta anche qui di monologo rivolto
al lettore, emerge il dramma di un ‘io’ che ha scelto la
fuga dal mondo «con una lucida spada | che ti attraversi | e ti
trafigga, | che tagli il filo | portandoti via da tutto | ma da me
stesso mai» (Sul mondo, p. 73).
Le
poesie di Ruffilli chiariscono il tormento del tossicodipendente che
all’inizio vive la sua scelta come un atto quasi titanico
rispetto «agli altri esseri mortali», con l’illusione
di «planare volante sul tappeto | perdutamente solo | tu
gigante del cielo (Sul mondo, p. 73), ma poi si ritrova «un
vuoto più profondo | di tutto il pieno | vomitato giù
fuori dal mondo» e invece che libero, si scopre schiavo,
precipitato nel buio, nei lacci di un’amante insaziabile:
«Senza di lei | la sete, il desiderio… È solo lei
che conta | da quando | ti si ficca dentro il corpo | …mettendoci
radici | che non riesci più ad estirpare» (Senza di
lei, p. 76). I versi si addentrano nell’anima e nel corpo
devastato di questo essere umano, ne colgono «la corsa del
cuore», i sudori, «l’onda che sale | su dallo
stomaco», l’annullarsi lento dei riflessi, del pensiero,
pur nella coscienza dolorosa dell’errore commesso cadendo nelle
spire di un «male ingordo | che proprio per sfamarti | ti
divora» e ti incatena «da dentro all’infinito»
(Amante, p. 78).
A
quest’essere fragile, dantescamente smarrito, ammutolito nel
dolore e nella «solitudine infinita», Paolo Ruffilli
presta il suo ascolto, dà volto e spessore, cala un filo nel
baratro del mistero da cui vorrebbe «scappare», ma –
come recita l’ultimo, disperato verso non riesce «a
smettere da solo» (Scappare, p. 83).
Tutto
questo universo Ruffilli lo esprime in cinquantotto componimenti,
scritti in versi scanditi e al tempo stesso dimessi, fluenti come una
prosa, ma che da essa si distinguono per il sapiente uso
di enjambements, di rime interne o ricorrenti, di
assonanze, anafore, antitesi, accostamenti lessicali arditi o
metafore inconsuete, secondo un dettato asciutto, chiaro, incisivo,
che punta tutto sulla forza della parola, sul dialogo immaginario con
il «tu» interiore o con il «voi» esterno, a
volte in tono quasi impersonale ricorrendo al verbo all’infinito,
fino a cedere in alcune poesie all’‘io’ che si
svela fino in fondo, si confessa e chiede aiuto.
Un
libro coraggioso, di forte impatto emotivo, di grande valenza civile
e comunicativa, un libro che, affondando la penna nella realtà
più dura e nascosta con spietata tenerezza e lucidità,
dimostra come, oggi più che mai, la poesia ha senso solo se
riesce a farsi voce di tutti, ad essere lo specchio impietoso della
vitalità e del dolore, della contraddizione in cui –
ungarettianamente – viviamo, coscienza della colpa e anche del
possibile riscatto, senza giudicare nessuno a priori,
anzi facendosi sguardo a latere, pila accesa nella notte
incivile che spesso nemmeno ammettiamo, parapetto verbale ed etico
contro il precipitare nel vuoto interiore.
Patrizia
Fazzi
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