La
lunga vita di Marianna Ucria – Dacia Maraini –
Rizzoli – Pagg. 265 – ISBN 9788817061841
-Euro 12,00
Polvere
pirica bagnata
Premio
Campiello del 1990, “La lunga vita di Marianna Ucrìa”
è un romanzo storico che ruota intorno a due protagoniste:
Marianna Ucrìa e Palermo con l’appendice della vallata
di Bagheria che nel Settecento vide l’edificazione di maestose
dimore in stile barocco. Fra queste, la villa Valguarnera ultimata a
fine secolo dalla protagonista di questo romanzo, Marianna Alliata
Valguarnera. Una principessa, nella realtà storica, costretta
al matrimonio con lo zio che aveva abusato di lei bambina, il
fratello del padre, l’uomo ideale per non disperdere, dopo la
prematura scomparsa del principe, il patrimonio familiare, in assenza
di figli maschi.
Dacia
Maraini, è una discendente, per parte di madre, di questa
sfortunata donna caratterizzata da una sordità testimoniata
anche da un misterioso ritratto, ora introvabile, descritto in
“Bagheria” che vede la nobildonna ritratta con dei fogli
in mano, utili per gli scambi comunicativi tra lei e gli altri.
La
Marianna del romanzo nasce quindi sulla falsariga di questa storia
familiare ed è il mezzo per poter rappresentare il mondo
siciliano ancora caratterizzato da feudalesimo e Inquisizione mentre
i lumi del secolo paiono appena sfiorarla. Lei sarà, nel pieno
della sua maturità di donna, il simbolo, con le sue scelte, di
un nuovo riscatto ispirato alla piena espressione di sé in
quanto donna, libera ormai dei subdoli legami che la tradizione
culturale le aveva imposto. Lei lettrice avida di Pascal, Hume,
Voltaire, Montesquieu.
La
conosciamo però ancora bambina, molto legata al padre e con
una mamma indolente, mentre assiste alla pubblica impiccagione di un
ragazzino nella piazza antistante al palazzo Steri. Avendolo
recentemente visitato e avendo ancora impressi i graffiti degli
orrori presenti nelle diverse sale usate per anni dall’Inquisizione,
sono stata incantata da tutta questa primissima parte come da tutto
il reticolato geografico della città che emerge di volta in
volta nel corso della narrazione. Immagino che per un lettore
palermitano ciò aggiunga ulteriore valore all’opera che,
ricordiamolo, è appunto un romanzo storico.
Marianna
è stata portata ad assistere al macabro spettacolo che è
festa di piazza irrorata di zammù e arricchita da ‘pani
câ meusa’ nel vano tentativo di procurarle uno spavento
tale da poterle restituire la parola. Lei è infatti ‘mutola’
ma non dalla nascita, c’è stato qualcosa nella sua
infanzia, uno spavento più grosso, che l’ha resa tale,
il padre a questo deve rimediare, come se fosse una colpa sua. Tutta
la narrazione è filtrata dai pensieri di Marianna che legge la
realtà circostante acuendo i sensi a sua disposizione e,
inverosimilmente, riuscendo alcune volte a leggere i pensieri altrui.
Questa a me è parsa una forzatura sul piano della
verosimiglianza ma devo riconoscere che permette comunque di
impreziosire la narrazione inserendo altri punti di vista. Ho trovato
improbabile anche che un mutismo selettivo sia stato clinicamente
accostato alla sordità, le due condizioni non sono affatto
interdipendenti, insomma se la bambina è diventata muta per
uno spavento non necessariamente avrebbe dovuto perdere l’udito.
Ben
presto, a soli tredici anni, Marianna, ancora ‘mutola’ è
costretta al matrimonio con il fratello del padre e a una vita
matrimoniale caratterizzata dal sopruso sessuale, dai ripetuti parti
in cerca dell’erede maschio, dai canonici lutti causati dalle
pessime condizioni sanitarie che, con i vari intervalli
epidemiologici, rendono fragile l’esistenza soprattutto della
figliolanza. Unica possibilità di vita arriva dalla lettura,
dalla conoscenza e dal saper lentamente applicare i principi
egualitari nella sua piccola dimensione familiare. Una svolta
narrativa, in termini di crescita personale, si registra in
concomitanza con lo stato di vedovanza ( a proposito, molte belle le
pagine dedicate alle catacombe dei Cappuccini, purtroppo ancora
chiuse ai visitatori in questo aprile, dove viene mummificato il
corpo del consorte - zio ) e la scoperta della propria identità
sessuale: ancora una volta però lo stile della Maraini nella
rappresentazione dell’intimità non mi piace, come già
era accaduto in “L’età del malessere”,
troppo esplicita, cruda e desolante.
Per
concludere una lettura gradevole nonostante una narrazione troppo
dilungata e un pathos che dovrebbe naturalmente scaturire dalle
rivelazioni finali smorzato invece da una scelta stilistica sbagliata
(inverosimiglianza scaturita dalla lettura del pensiero) la quale
determina l’effetto della polvere pirica bagnata dentro un
fuoco d’artificio.
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