Il
kamikaze cristiano – Angelo
Tondini Quarenghi – Bietti – Pagg. 448 – ISBN
9788882482053
– Euro 20,00
Il
kamikaze cristiano,
un titolo originale scelto da Angelo Tondini Quarenghi per il suo
primo romanzo: titolo ossimorico, giocato sull’antitesi tra il
nome – kamikaze – di origine nipponica ma ormai
assimilato al fanatismo islamico e l’aggettivo –
cristiano – che riporta ad un altro universo religioso e
culturale. In questa antitesi si gioca e impernia la vicenda e il
messaggio di fondo del libro: oriente e occidente fusi in un
personaggio e al tempo stesso messi a confronto, analizzati con
lucidità fotografica, ripercorsi con l’occhio vigile del
giornalista disincantato, ma non rassegnato, pronto a cogliere fino
all’ultimo ‘clic’ pregi e difetti, bellezza e
contraddizioni del nostro tempo, ormai lacerato da diversità
culturali che invece sarebbe opportuno riuscire a ricomporre.
Il
libro è così ricco di spunti di riflessione, così
ampio e complesso che tante sono le considerazioni che ne
scaturiscono. Innanzitutto l’originalità della vicenda
del sessantenne giornalista ‘freelance’ Paolo Vida, che,
deluso da un fallimento esistenziale, progetta una personale vendetta
contro l’Islam, reo di aver attuato l’attacco terribile
alla torri gemelle, tra le cui vittime c’e Cristina, suo primo
amore. Procuratosi clandestinamente l’esplosivo, in una Palermo
descritta nei suoi aspetti più foschi, Paolo parte in un aereo
militare, un Hercules C130 rumoroso e privo di ogni minimo comfort,
per il suo “viaggio della morte”, ultima sponda dove
intende riscattare sé e l’occidente con una fine da
‘eroe’, che porti il suo nome finalmente alla ribalta
della cronaca e suoni come avviso e terribile risposta alla parte
fondamentalista e aggressiva del mondo islamico.
Meta
del viaggio Kabul, la capitale afgana, anno 2002, città
devastata, come tuttora, da anni di guerra e distruzioni, con macerie
morali e materiali, reduce dal durissimo regime talebano che ha
infierito soprattutto sulla libertà personale delle donne,
private di ogni diritto, lapidate, frustate, costrette ad indossare
il burqa, abito che cancella il volto, il corpo, l’identità.
L’intento
distruttivo del piano segreto è più volte ribadito dal
narratore in prima persona, ma il personaggio di Vida non si
esaurisce in un puro aspetto di rivendicazione fanatica : in realtà
questo ‘protagonismo’ da uomo-bomba sembra piuttosto una
specie di ‘maschera, un abile espediente narrativo, mentre il
vero Paolo continua a esistere e a comportarsi fino all’ultimo
da giornalista e fotografo, curioso, attento, lucido nell’analizzare
e descrivere, conservando intatta la sua razionalità e
soprattutto ‘humanitas’. Così Angelo Tondini ci
regala, con gli occhi del personaggio Paolo – in simbiosi con
macchine fotografiche ed obiettivi vecchio modello, intento a
raccogliere appunti di viaggio e reportage fotografici per la stesura
di una guida di Kabul – uno splendido spaccato della città
afgana, con tutte le sue contraddizioni, quelle stesse in cui noi
tutti ci dibattiamo.
Nel
corso degli avvincenti capitoli, si susseguono descrizioni puntuali
di personaggi, vie, case, ospedali, mercati, di tutto ciò che
è anche ‘fotografabile’, al punto di non far
sentire mai la mancanza di una ‘picture’, anzi ci sono
immagini nitide che si snodano agli occhi di un lettore-spettatore.
Altrettanto efficace risulta la resa dell’essenza emotiva, il
pathos che emerge dai contesti visitati, senza mai eccessi o
patetismi. Ecco l’ospedale di chirurgia d’urgenza di
Emergency , la sezione di ortopedia e riabilitazione della Croce
Rossa, dove in condizioni difficili lavorano eroi veri, medici e
infermieri, e appaiono volti e corpi feriti ogni giorno. Di fronte ad
un bambino martoriato da una bomba antiuomo, il fotografo commenta
dentro di sé : “ottimo soggetto, drammatico,
commuovente, strappalacrime”, certo vendibilissimo... Ma poi si
rifiuta, si paralizza e scrive: “Non riesco a ritrarre il
dolore, è più forte di me. Durante tutta la mia vita ho
fotografato le bellezze di questo pianeta” e preferisce portare
dentro sé questa immagine, ma non sfruttarla a fini
commerciali. Certamente una bella lezione a tanti messaggi mediatici
che giocano sulla violenza e sull’impatto emotivo fino alla
morbosità e invadenza più irrispettosa del dolore
altrui, pur di fare ‘audience’ o vendere copie.
Nel
suo aggirarsi per la capitale afgana Paolo Vida si ritrova nella sede
del contingente militare internazionale, nella Galleria Nazionale,
nell’orfanotrofio e ancora nel cuore commerciale di Kabul, dove
venditori e artigiani, merci e prodotti di ogni genere e provenienza
si materializzano grazie a una tecnica mutuata dalla fotografia,
alternando la profondità di campo (depth of field) con quella
mediamente ridotta, meno a fuoco, fino ai primi piani nitidi di volti
e abiti. Il giornalista addirittura, sotto gli occhi stupiti del suo
autista, non esita ad indossare un burqa, rischiando di essere
scoperto e arrestato, pur di immortalare la realtà come la
vivono e vedono le donne afgane dalla loro prigione di stoffa
all’altezza del viso.
Ma
il proscenio della narrazione è dominato dall’elemento
femminile: la giornalista spagnola Monica, le lavoratrici del forno
di pane, la segretaria del Museo di pittura, le studentesse afgane,
le maestre delle scuola coranica, la parrucchiera Shabana, le
redattrici della rivista “Roz”, tutte artefici e seme del
lento e difficile ritorno alla normalità dopo il duro periodo
talebano. Non è sfuggito all’autore l’importanza
della componemte femminile nello sviluppo e ricostruzione: donne come
vessillifere di libertà in un paese dove per anni esse, pur
tenute quasi in schiavitù, perché fortemente temute da
una cultura patriarcale e maschilista, sono ben consapevoli del ruolo
naturale e sociale del mondo femminile.
In
questa prospettiva la figura chiave è Kokla, complementare e
antitetica a Paolo: afgana vissuta in Svizzera, giovane, bella,
colta, ha mantenuto il meglio della cultura islamica, la fede in un
Allah non temibile e misericordioso (“Allah è grande”,
ripete fino in fondo…) e ha assorbito i valori positivi di
quella occidentale, la tolleranza, il dialogo, la speranza.
L’incontro con Kokla, connubio felice tra occidente e islam, è
in qualche modo con una “salvatrice”, non a caso donna,
come spesso in altre storie sia orientali – la Sherazade di “Le
mille e una notte” – che occidentali – la Beatrice
dantesca . E’ Kokla che, con il suo fascino e le lunghe e acute
conversazioni, mette in forse il progetto di Paolo, pur ignorandolo,
fino al sorprendente finale…
Oltre
alla vicenda, colpisce lo stile di scrittura: chiaro, incisivo,
essenziale, con frasi parattattiche alternate a riflessioni personali
ad alta voce, monologhi vibranti sulla nostra società, sulla
storia, ma sempre tenuti sotto il controllo razionale, spesso con il
filo sdrammatizzante dell’ironia o autoironia, con un lessico
curato e mai debordante, anche quando arricchito da vocaboli più
di registro basso, mai inseriti con volgarità o ad effetto.
Rimarchevoli le chiuse di ogni paragrafo in cui si suddivide ogni
capitolo: frasi brevi, antitetiche, lapidarie. La struttura del libro
è ampia, ma ben impostata, quasi una presceneggiatura per un
ipotizzabile e auspicabile trasposizione filmica.
Infine
il messaggio dell’opera, che ognuno può leggere e
interpretare come vuole, ma risulta innegabile e apprezzabile
l’analisi della civiltà occidentale e orientale che
Tondini porta avanti con coraggio e profondità, per bocca del
suo personaggio o altri osservatori stranieri, come i giornalisti che
abitano con lui e ai quali organizza una cena semplice con vivande
portate in valigia dall’Italia. Il libro affronta più
volte tematiche riguardanti il terrorismo, il ruolo degli stati Uniti
o delle grandi religioni, la decadenza sul piano dei valori della
società occidentale, sprezzante verso chi non persegue il
profitto immediato, invasa e a volte succube della tecnologia, a cui
il nostro fotografo si sottrae utilizzando apparecchiature quasi
anacronistiche. Soprattutto si coglie una visione globale dell’Islam,
del suo antico patrimonio intellettuale e morale, e quasi un continuo
accorato appello al mondo islamico perché si fermi a
riflettere sul suo rapporto con l’umanità e quindi anche
a tutti noi.
Vita
e morte, regresso e progresso, integralismo e tolleranza, ritualità
e tecnologia si incrociano e scontrano ed ogni aspetto è
passato al vaglio di una mente aperta, coltissima, navigata nel mare
delle esperienze, dei contatti con gente diversa. Un libro che
avvince, accende riflessioni, una finestra su realtà umane
ormai imprescindibili, un’opera consigliabile a tutti, specie
alle giovani generazioni, un romanzo-saggio apprezzabile più
di tanti saggi-reportage scritti da giornalisti ben pagati,
assicurati, acclamati e premiati più di chi come Paolo Vida –
e forse anche l’autore – ha scelto la libertà con
tutti i rischi e le mancate remunerazioni che comporta. Terminata
la lettura del libro, si potrà provare un sottile dispiacere
per la fine di questo affascinante viaggio, ma accorgersi, proprio
dalle battute finali dell’opera, che il ‘vero’
protagonista è rimasto nascosto tutto il tempo e il narratore,
da bravo fotografo, con un’abile profondità di campo,
l’ha tenuto sullo sfondo per tutto il tempo senza nominarlo:
l’Amore, “l’Amor che muove il mondo e l’altre
stelle”. Un grazie anche per questo ad Angelo Tondini.
Patrizia
Fazzi