J. L. Borges: lo scrittore nel suo
labirinto
di Carlo Bordoni
La lettura di Borges mi ha sempre affascinato. È uno dei pochissimi
scrittori che riescano a sorprendermi, a darmi motivo
di lunghe riflessioni solo dopo aver letto una o due frasi ricche di pregnante
significato, asciutte nei rimandi colti, colme di riferimenti lontani. La sua
essenzialità mi seduce e mi prostra, mi costringe a rileggere la stessa pagina
più volte, assaporando ogni singola parola, ricercando ogni raro aggettivo per
scoprire un indizio generoso in quella scrittura così essenziale da risultare
talvolta persino arida.
È un modo particolarmente aristocratico quello di Borges
di porre la parola, di darsi con distaccato ritegno, di centellinare significati
che ne nascondono altri. Se si leggono i suoi racconti (perché non ha scritto
romanzi), il cui insieme può essere raccolto in un volume non grande, si ha la
netta impressione che Borges sia riuscito a
sintetizzare tutta la letteratura in poche pagine. Sia stato capace (e audace)
al punto da riassumere tutti i temi canonici, i luoghi comuni (in senso
positivo) della narrativa in un ambito ristretto, a misura d'uomo. Come se
avesse voluto regalarci gran parte delle sue possibilità narrative in un numero
contenuto di pagine, con vaghe finalità pedagogiche. Non per pigrizia o per
mancanza di tempo, ma perché consapevole che l'unico modo per riuscire a
comprendere tutto questo tesoro in una misura fruibile ad ogni essere umano,
era l'economia della parola. L'essenzialità dei contenuti; la rinuncia alla
digressione.
La sua capacità di seduzione è stata così intensa da avermi spinto,
per la seconda volta nella vita, a praticare un'operazione di palese mimesi,
ossia a scrivere qualcosa in seguito a un'ispirazione indotta dalla lettura.
Si scrive perché si legge: un motto che Borges stesso
potrebbe aver coniato, se altri, molto prima di lui, non l'avessero attestato.
La prima volta mi era capitato da ragazzo, in seguito alla lettura compulsiva di romanzi di fantascienza. Non c'era un autore
particolare che avessi preferito, ma riuscivo a
macinare una quantità tanto sorprendente di “pulp fiction”, stampata in fascicoli
a poco prezzo e di dubbia traduzione, da trascorrere settimane avvolto in una
specie di alone fantasmagorico e allucinato. Ne sortì, come in una forma di
partenogenesi, un romanzo adolescenziale che rifletteva pedissequamente il
ritmo accidentato e le strabilianti avventure che avevo introitato dai vari Asimov, Anderson, Bradbury, Heinlein, Van Vogt e da tutta una serie di
autori americani che poi sono diventati dei classici della fantascienza.
In maniera meno allucinata, ma non meno sorprendente, l'effetto
perverso di una lettura seducente si è ripetuto di fronte a Borges,
in età più matura, quando mi sono imbattuto nella figura di Pierre
Menard.
Sono bastate poche pagine per creare un'ossessione che non mi dava
pace, se non nella scrittura creativa di un'opera dove, finalmente, poter
sfogare la curiosità e la spinta propulsiva (creativa?) che mi aveva instillato
quel breve racconto. La storia di Menard (Pierre Menard, autore
del Chisciotte, 1939, in Finzioni) è legata a uno di quei
paradossi temporali che fanno impazzire gli appassionati di fantascienza, e che
pure si basano su una logica adamantina e inconfutabile. Il vecchio Pierre Menard, che Borges situa nella città di Nîmes,
ai confini della Camargue, attorno alla metà degli anni Trenta, è un signore
introverso che ama i libri e agogna la fama letteraria, come già molti prima e
dopo di lui.
Lo intuiamo soltanto, perché Borges non lo
dice esplicitamente. Tuttavia il suo rapido accenno e la breve bibliografia,
dettata fra le righe, sono sufficienti a farci pensare a un
novello Foscolo, che subito si tramuta sotto i nostri occhi nelle più
modeste vesti di Bouvard e Pécuchet,
la coppia di patetici amanuensi creata da Flaubert,
quando scopriamo che il povero Menard, esperita invano
ogni possibilità concreta di raggiungere le vette della poesia o di imporsi con
le armi della critica più raffinata, decide di ricorrere al plagio deliberato.
Come ultima ratio.
Una scelta difficile, certo non operata a cuor leggero, né con la
maliziosa intenzione di appropriarsi segretamente di meriti altrui. Non certo
come quel César Paladión
(che Borges annovera tra gli stravaganti artisti
immaginari), che ebbe la sfrontataggine di pubblicare, a proprie spese, certi
classici latini e persino La Capanna
dello zio Tom, semplicemente apponendo il proprio
nome sulla copertina.
Menard è più raffinato e
accorto. In qualità di intellettuale colto e, a suo modo, corretto, è anche
uomo del suo tempo e sa come vanno le cose nel XX secolo. Gioca sulla
razionalità e sul paradosso, puntando tutto sul
carattere sociale della letteratura. Intanto sceglie il suo testo con studiata
oculatezza e comincia a ricopiarlo con la sua minuta calligrafia: non un testo
qualsiasi, né tantomeno un'opera minore o poco
conosciuta, bensì uno dei massimi capolavori della letteratura universale, il Don Chisciotte.
Lo copia parola per parola ed ha la geniale intuizione di sostenere
(chi potrebbe contraddirlo?) che il suo Don
Chisciotte assume un diverso significato nel XX
secolo. Quelle stesse parole, usate da Miguel de Cervantes trecento anni prima, non possono trasmettere lo
stesso messaggio, se scritte al giorno d'oggi: presumono
una cultura diversa, riferimenti storici diversi, ironia e complicità diverse.
Insomma, sono un'altra cosa da “quel” Don
Chisciotte, pur mantenendo pedissequamente lo
stesso contenuto testuale.
Menard può, a buon
diritto, definirsi l'autore del Chisciotte del XX secolo, dato che ogni opera è diversa (viene compresa diversamente) e produce “senso” a seconda
del momento in cui viene letta. È l'assioma irrefutabile su cui fa leva il
paradosso di Menard, da cui è nata tutta una serie
di anacronismi letterari, di cui è lecito domandarci gli effetti: che cosa
sarebbe di noi (della nostra cultura) se l'Eneide
fosse stata scritta prima dell'Odissea?
Oppure I Promessi sposi dopo Madame Bovary; Il nome della rosa prima del Mastino
di Baskerville?
L'anacronismo, come
il gusto per il paradosso, il mistero, i problemi logici fanno parte del
bagaglio culturale di uno scrittore che si è formato sulla filosofia greca,
imparando l'apparente legittimità del paradosso di Zenone dalla scacchiera del
padre. Corre più velocemente Achille o la Tartaruga? Il paradosso vuole che
Achille non riesca a raggiungerla, malgrado ogni sforzo, poiché essa sarà
sempre più avanti del suo inseguitore, anche solo di una frazione
infinitesimale.
Il fascino di Borges deriva in buona misura dall'attenzione speciale che
riserva al fantastico, quel luogo immaginario che si nutre di paradossi, dove
le leggi della natura sono messe in discussione, il tempo è una variabile e la
logica è portata alle estreme conseguenze. In questa dimensione tutta
intellettuale Borges trascina il suo lettore,
mostrandogli le meraviglie del possibile, creando un alone di mistero che
avvolge la sua opera, così densa di esoterismi.
Ho sempre pensato
che lo scrittore sia un bambino cresciuto che ha
saputo mantenere intatta la capacità di giocare, immaginare, meravigliare, ma Borges eleva questa qualità fanciullesca all'ennesima
potenza, perché la porge al mondo con estrema semplicità e innocenza. Non ci
sono torbide passioni, non c'è trasporto emotivo nei suoi lavori; anche quando
descrive il più efferato omicidio (perché tra i temi preferiti c'è il
poliziesco, ovviamente), lo fa con sereno distacco, allo stesso modo di un
oggettivo osservatore. Ricordate l'assassinio di Albert
nel Giardino dei sentieri che si
biforcano? È un atto assolutamente neutro, fatto di una pura gestualità
occasionale, tale da non coinvolgere il lettore più di tanto, se non
sorprendendolo per quell'assenza di emozionalità.
A ben guardare non
si tratta di incapacità ad essere coinvolto emotivamente (o di coinvolgere), ma
di perfetto candore. Borges guarda con gli occhi di
bambino e con quegli stessi occhi fa guardare chi legge, sia che si tratti dei
fantastici mondi di Uqbar come dell'uccisione di un
gaucho; dell'amore conteso per una donna come di uno scrittore immaginario che
scrive un libro realmente esistente.
Sotto forma di
razionalità, perché Borges è uno scrittore razionalista,
malgrado le rappresentazioni fantastiche, che imposta
tutto il suo mondo sotto l'egida della ragione. Solo la ragione, si badi, può
apprezzare il paradosso, l'anacronismo, la contraddizione, il dubbio,
l'ambiguità, il distacco dalle cose terrene.
La razionalità è
anche l'elemento fondamentale per comprendere il suo amore smisurato per il
libro: il libro come memoria, come sapere, come comunicazione è per lui
qualcosa di più di un oggetto d'uso. È l'idea della sistematizzazione
della parola (segno rappresentativo di un'idea, di un concetto, di un'immagine)
all'interno di una costruzione significativa.
Il libro è insomma
la consacrazione della parola, il dono metafisico che l'uomo possiede da
sempre e la sua traduzione grafica in una forma stabile, perenne, probatoria. È
la vera macchina del tempo, perché consente di comunicare con gli uomini che
sono vissuti ieri, ma anche il messaggio nella bottiglia che l'uomo d'oggi
lancia nel mare del futuro. Qualcuno leggerà, qualcuno saprà ciò che è stato
(ciò che siamo stati), qualcuno comprenderà e risponderà a suo modo.
È il legame tra
tutti gli uomini, un legame forte che non può essere spezzato, malgrado le innovazioni tecnologiche, le rivoluzioni
tipografiche, i supporti digitali, virtuali o la multimedialità.
Borges, uomo cresciuto fra i libri, è
disposto a riconoscere al libro un'importanza vitale, a ritenerlo un frammento
della costruzione dell'universo. Un sistema talmente ricco e complesso da poter
essere paragonato a un labirinto, anzi è il labirinto stesso a rappresentare
simbolicamente il razionale.
Ma il labirinto è, a
sua volta, un paradosso. Spaziale, temporale, estetico, sonoro, logico,
matematico, linguistico.
Nella fantasia popolare il labirinto è un luogo di perdizione: si
entra e non si sa come uscirne. Una volta chiusi nel
labirinto non si è più visibili, si perde la coscienza del tempo e dello
spazio, la possibilità di relazione con gli altri. Luogo di reclusione o di sottrazione
al mondo e alla luce; luogo occulto e sepolto, che segue proprie regole logiche
che rasentano l'alienazione. Luogo smisurato, in cui l'uomo si perde, pure in
assenza di ostacoli, come nel brevissimo I
due re e i due labirinti (1952), dove al malcapitato sovrano di Babilonia
tocca di sperimentare il più terribile dei labirinti:
il deserto.
In un racconto analogo, Abenjacàn il Bojarì, ucciso nel suo labirinto (1952), è la scena di
un delitto misterioso che, per l'acutezza dell'intreccio, si dimostra un
piccolo capolavoro del genere poliziesco, alla Agatha
Christie. Costruzione astrusa di logiche perverse di
tipo architettonico o visivo, come nelle incisioni di Escher,
in cui viene messa a dura prova l'ingenua percezione
dell'occhio umano, abituato a seguire stereotipi formali.
Può essere la prigione di un mostro ributtante, come il Minotauro della mitologia greca, o locus amoenus in cui rifugiarsi, al sicuro
dalla curiosità degli altri, come un castello o un sotterraneo, una caverna o
un palazzo. In un altro racconto, There are more things (1975), dedicato alla memoria di H. P. Lovecraft, Borges sembra richiamarsi esplicitamente a
L'orrore di Dunwich (1928) e alle atmosfere
rarefatte del Maestro di Providence. Il protagonista
cerca di scoprire il mistero della casa dell'infanzia, trasformata all'interno
per accogliere il corpo di un ospite mostruoso che è dato solo intuire.
Quella notte non dormii. Verso
l'alba sognai un'incisione alla maniera di Piranesi,
che non avevo mai visto o che avevo visto e dimenticato, e che rappresentava
il labirinto. Era un anfiteatro di pietra, circondato da
cipressi e più alto delle chiome dei cipressi. Non c'erano porte né
finestre, ma c'era invece una fila infinita di feritoie verticali e strette.
Con una lente di ingrandimento io cercavo di vedere il Minotauro. Finalmente
lo scorsi. Era il mostro di un mostro; era meno toro che bisonte e, con il suo
corpo umano disteso sulla terra, sembrava
dormire e sognare. Sognare che o chi? (There are more things, in: Tutte le opere, Mondadori, 2000, pp. 599-600).
Il labirinto può essere anche un luogo virtuale, come prefigurato da Borges in Il giardino
dei sentieri che si biforcano (1941),
dove è annidato in un romanzo dalle molteplici e compresenti alternative
possibili. L'indecifrabile romanzo del cinese Ts'ui Pên è composto di infinite
alternative, tutte contemporaneamente presenti nel testo. Impossibile leggerle
in successione, si perderebbe il senso della narrazione. Come in un labirinto,
è necessario scegliere per quale strada proseguire di fronte ai sentieri
testuali che si biforcano incessantemente, tenendo presente che ogni scelta
produrrà e modificherà le scelte successive. Come non pensare all'ipertestualità concessa dai sistemi informatici, dalla
complessità dei giochi di ruolo, veri labirinti da cui non è possibile
procedere a ritroso.
L'idea di Borges, che torna spesso come un'ossessione, è evidentemente
quella del libro come contenitore privilegiato, capace di con-prendere
il senso (tutti i sensi) del mondo. Ma se il libro è già di per sé un sistema
complesso, figuriamoci che cosa deve essere una biblioteca, ossia un'organica
e sistematica raccolta di libri. La biblioteca diventa il labirinto dei
labirinti, dove davvero l'uomo può perdersi, più facilmente che nel labirinto
fisico. Se non c'è un mostro a celarsi nel suo centro, c'è tuttavia la minaccia
palpabile dell'alienazione mentale.
Nel racconto più famoso, La
Biblioteca di Babele (1941), il labirinto borgesiano per antonomasia è una biblioteca immensa, fatta
di tutti i libri possibili (comprese le varianti), scritti in tutte le lingue
del mondo e che comprende tutte le possibili declinazioni permesse dai
venticinque simboli ortografici (spazi compresi). La sua maestosa costruzione
coincide con l'universo stesso:
L'Universo (che altri chiama la
Biblioteca) si compone di un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie
esagonali, con vasti pozzi di ventilazione nel mezzo, bordati di basse
ringhiere. Da qualsiasi esagono si vedono i piani superiori e inferiori,
interminabilmente. … La Biblioteca è una sfera il cui centro esatto è qualsiasi
esagono, e la cui circonferenza è inaccessibile. (pp. 74-75).
Affascinato
dall'ipotesi di Borges, anche Umberto Eco colloca una
biblioteca al culmine del suo romanzo neo-gotico: il labirinto fisico nasconde
un mostro (il libro proibito di Aristotele), la cui stessa presenza si rivela
letale per chiunque cerchi di carpirlo.
L'aspetto labirintico del
testo, ne Il
libro di sabbia (1975), risulta ulteriormente complessificato,
perché il volume di cui viene in possesso il vecchio acquirente (Borges stesso?), in cambio della sua liquidazione e di una
copia dell'antica Bibbia di Wiclif, è infinito. Non
ha inizio e non ha fine; ogni volta che si apre, si trovano sempre contenuti
diversi, le pagine non seguono un ordine logico, la numerazione è casuale, le
illustrazioni mutano ad ogni sfogliar di pagina.
Ce n'è abbastanza da far ammattire anche il più attento lettore e,
nell'impossibilità di distruggere un libro infinito (il che richiederebbe
un'operazione infinita), il protagonista decide di disfarsene
Verso la fine dell'estate capii che il libro era
mostruoso. A nulla valse considerare che non meno mostruoso ero io, che lo
percepivo con occhi e lo palpavo con dieci dita
provviste di unghie. Sentii che era un oggetto da incubo, una cosa oscena che
infamava e corrompeva la realtà.
Pensai al fuoco, ma ebbi paura che la combustione di un
libro infinito fosse altrettanto infinita e soffocasse
con il fumo il pianeta. (Il libro di sabbia, in: Tutte
le opere, p. 652),
Non è un caso che il
vecchio bibliofilo del Libro di Sabbia,
decida di nascondere il suo pericoloso tesoro proprio
tra gli scaffali della Biblioteca Nazionale di Buenos Aires. C'è, forse,
l'ironico riferimento alla scarsa frequentazione della biblioteca da parte dei
suoi concittadini, ma anche (e soprattutto) l'antica idea cretese che la
mostruosità sia più facilmente celata laddove nessuno
possa cercarla. Qualcosa che ha a che fare col mistero della lettera scomparsa
di Edgar Allan Poe e,
insieme, col mito del Minotauro, la cui forma corporea denunciava gli amori
indecenti di Pasifae e quindi doveva restare sepolto.
Va da sé, come ha notato E. Aarseth (Il romanzo nell'universo di Turing, in: Il
romanzo. Storia e geografia, vol. III, a cura di F.
Moretti, Einaudi, 2002, pp. 675-676), che il Libro di Sabbia sta a
Internet, come Il giardino dei sentieri
che si biforcano sta all'ipertestualità. I
milioni di pagine disponibili sul World Wide Web sono
privi di un inizio e di una fine, sono mutevoli ma anche labili; possono
svanire con la stessa rapidità con la quale si sono formati sullo schermo,
senza lasciare traccia di sé. Borges aveva intuito le
potenzialità astratte di una comunicazione più complessa, pur prescindendo
dagli aspetti tecnologici, senza i quali, con tutta evidenza, tali potenzialità
non si sarebbero potute tradurre sul piano reale. La data della sua morte
(1986) coincide con l'inizio dell'avventura di Internet, e pertanto egli non ha
potuto averne notizia: ma, anche in caso contrario, l'impossibilità materiale
per un non-vedente di “navigare” su Internet lo avrebbe costretto ad
accontentarsi di una semplice descrizione di quanto la sua mente aveva già
immaginato.