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  Letteratura  »  J.L. Borges: lo scrittore nel suo labirinto, di Carlo Bordoni 25/08/2007
 

J. L. Borges: lo scrittore nel suo labirinto

di Carlo Bordoni

 

 

La lettura di Borges mi ha sempre affascinato. È uno dei po­chissimi scrittori che riescano a sorprendermi, a darmi motivo di lunghe riflessioni solo dopo aver letto una o due frasi ricche di pregnante significato, asciutte nei rimandi colti, colme di riferi­menti lontani. La sua essenzialità mi seduce e mi prostra, mi co­stringe a rileggere la stessa pagina più volte, assaporando ogni singola parola, ricercando ogni raro aggettivo per scoprire un in­dizio generoso in quella scrittura così essenziale da risultare tal­volta persino arida.

È un modo particolarmente aristocratico quello di Borges di porre la parola, di darsi con distaccato ritegno, di centellinare si­gnificati che ne nascondono altri. Se si leggono i suoi racconti (perché non ha scritto romanzi), il cui insieme può essere raccolto in un volume non grande, si ha la netta impressione che Borges sia riuscito a sintetizzare tutta la letteratura in poche pagine. Sia stato capace (e audace) al punto da riassumere tutti i temi cano­nici, i luoghi comuni (in senso positivo) della narrativa in un am­bito ristretto, a misura d'uomo. Come se avesse voluto regalarci gran parte delle sue possibilità narrative in un numero contenuto di pagine, con vaghe finalità pedagogiche. Non per pigrizia o per mancanza di tempo, ma perché consapevole che l'unico modo per riuscire a comprendere tutto questo tesoro in una misura fruibile ad ogni essere umano, era l'economia della parola. L'essenzialità dei contenuti; la rinuncia alla digressione.

La sua capacità di seduzione è stata così intensa da avermi spinto, per la seconda volta nella vita, a praticare un'operazione di palese mimesi, ossia a scrivere qualcosa in seguito a un'ispira­zione indotta dalla lettura. Si scrive perché si legge: un motto che Borges stesso potrebbe aver coniato, se altri, molto prima di lui, non l'avessero attestato.

La prima volta mi era capitato da ragazzo, in seguito alla let­tura compulsiva di romanzi di fantascienza. Non c'era un autore particolare che avessi preferito, ma riuscivo a macinare una quantità tanto sorprendente di “pulp fiction”, stampata in fasci­coli a poco prezzo e di dubbia traduzione, da trascorrere setti­mane avvolto in una specie di alone fantasmagorico e allucinato. Ne sortì, come in una forma di partenogenesi, un romanzo adole­scenziale che rifletteva pedissequamente il ritmo accidentato e le strabilianti avventure che avevo introitato dai vari Asimov, An­derson, Bradbury, Heinlein, Van Vogt e da tutta una serie di au­tori americani che poi sono diventati dei classici della fanta­scienza.

In maniera meno allucinata, ma non meno sorprendente, l'effetto perverso di una lettura seducente si è ripetuto di fronte a Borges, in età più matura, quando mi sono imbattuto nella figura di Pierre Menard.

Sono bastate poche pagine per creare un'ossessione che non mi dava pace, se non nella scrittura creativa di un'opera dove, final­mente, poter sfogare la curiosità e la spinta propulsiva (creativa?) che mi aveva instillato quel breve racconto. La storia di Menard (Pierre Menard, autore del Chisciotte, 1939, in Finzioni) è legata a uno di quei paradossi temporali che fanno impazzire gli appassionati di fantascienza, e che pure si basano su una logica adamantina e inconfutabile. Il vecchio Pierre Menard, che Borges situa nella città di Nîmes, ai confini della Camargue, attorno alla metà degli anni Trenta, è un signore introverso che ama i libri e agogna la fama letteraria, come già molti prima e dopo di lui.

Lo intuiamo soltanto, perché Borges non lo dice esplicitamente. Tuttavia il suo rapido accenno e la breve bibliografia, dettata fra le righe, sono sufficienti a farci pensare a un novello Foscolo, che subito si tramuta sotto i nostri occhi nelle più modeste vesti di Bouvard e Pécuchet, la coppia di patetici amanuensi creata da Flaubert, quando scopriamo che il povero Menard, esperita in­vano ogni possibilità concreta di raggiungere le vette della poesia o di imporsi con le armi della critica più raffinata, decide di ricor­rere al plagio deliberato. Come ultima ratio.

Una scelta difficile, certo non operata a cuor leggero, né con la maliziosa intenzione di appropriarsi segretamente di meriti altrui. Non certo come quel César Paladión (che Borges annovera tra gli stravaganti artisti immaginari), che ebbe la sfrontataggine di pubblicare, a proprie spese, certi classici latini e persino La Ca­panna dello zio Tom, semplicemente apponendo il proprio nome sulla copertina.

Menard è più raffinato e accorto. In qualità di intellettuale colto e, a suo modo, corretto, è anche uomo del suo tempo e sa come vanno le cose nel XX secolo. Gioca sulla razionalità e sul para­dosso, puntando tutto sul carattere sociale della letteratura. In­tanto sceglie il suo testo con studiata oculatezza e comincia a ri­copiarlo con la sua minuta calligrafia: non un testo qualsiasi, né tantomeno un'opera minore o poco conosciuta, bensì uno dei mas­simi capolavori della letteratura universale, il Don Chisciotte.

Lo copia parola per parola ed ha la geniale intuizione di soste­nere (chi potrebbe contraddirlo?) che il suo Don Chisciotte as­sume un diverso significato nel XX secolo. Quelle stesse parole, usate da Miguel de Cervantes trecento anni prima, non possono trasmettere lo stesso messaggio, se scritte al giorno d'oggi: presu­mono una cultura diversa, riferimenti storici diversi, ironia e complicità diverse. Insomma, sono un'altra cosa da “quel” Don Chisciotte, pur mantenendo pedissequamente lo stesso contenuto testuale.

Menard può, a buon diritto, definirsi l'autore del Chisciotte del XX secolo, dato che ogni opera è diversa (viene compresa diver­samente) e produce “senso” a seconda del momento in cui viene letta. È l'assioma irrefutabile su cui fa leva il paradosso di Me­nard, da cui è nata tutta una serie di anacronismi letterari, di cui è lecito domandarci gli effetti: che cosa sarebbe di noi (della no­stra cultura) se l'Eneide fosse stata scritta prima dell'Odissea? Oppure I Promessi sposi dopo Madame Bovary; Il nome della rosa prima del Mastino di Baskerville?

L'anacronismo, come il gusto per il paradosso, il mistero, i pro­blemi logici fanno parte del bagaglio culturale di uno scrittore che si è formato sulla filosofia greca, imparando l'apparente legitti­mità del paradosso di Zenone dalla scacchiera del padre. Corre più velocemente Achille o la Tartaruga? Il paradosso vuole che Achille non riesca a raggiungerla, malgrado ogni sforzo, poiché essa sarà sempre più avanti del suo inseguitore, anche solo di una fra­zione infinitesimale.

Il fascino di Borges deriva in buona misura dall'attenzione spe­ciale che riserva al fantastico, quel luogo immaginario che si nutre di paradossi, dove le leggi della natura sono messe in discussione, il tempo è una variabile e la logica è portata alle estreme conse­guenze. In questa dimensione tutta intellettuale Borges trascina il suo lettore, mostrandogli le meraviglie del possibile, creando un alone di mistero che avvolge la sua opera, così densa di esoterismi.

 

Ho sempre pensato che lo scrittore sia un bambino cresciuto che ha saputo mantenere intatta la capacità di giocare, immagi­nare, meravigliare, ma Borges eleva questa qualità fanciullesca all'ennesima potenza, perché la porge al mondo con estrema sem­plicità e innocenza. Non ci sono torbide passioni, non c'è trasporto emotivo nei suoi lavori; anche quando descrive il più efferato omi­cidio (perché tra i temi preferiti c'è il poliziesco, ovviamente), lo fa con sereno distacco, allo stesso modo di un oggettivo osserva­tore. Ricordate l'assassinio di Albert nel Giardino dei sentieri che si biforcano? È un atto assolutamente neutro, fatto di una pura gestualità occasionale, tale da non coinvolgere il lettore più di tanto, se non sorprendendolo per quell'assenza di emozionalità.

A ben guardare non si tratta di incapacità ad essere coinvolto emotivamente (o di coinvolgere), ma di perfetto candore. Borges guarda con gli occhi di bambino e con quegli stessi occhi fa guar­dare chi legge, sia che si tratti dei fantastici mondi di Uqbar come dell'uccisione di un gaucho; dell'amore conteso per una donna come di uno scrittore immaginario che scrive un libro realmente esistente.

Sotto forma di razionalità, perché Borges è uno scrittore razio­nalista, malgrado le rappresentazioni fantastiche, che imposta tutto il suo mondo sotto l'egida della ragione. Solo la ragione, si badi, può apprezzare il paradosso, l'anacronismo, la contraddi­zione, il dubbio, l'ambiguità, il distacco dalle cose terrene.

La razionalità è anche l'elemento fondamentale per compren­dere il suo amore smisurato per il libro: il libro come memoria, come sapere, come comunicazione è per lui qualcosa di più di un oggetto d'uso. È l'idea della sistematizzazione della parola (segno rappresentativo di un'idea, di un concetto, di un'immagine) all'interno di una costruzione significativa.

Il libro è insomma la consacrazione della parola, il dono metafi­sico che l'uomo possiede da sempre e la sua traduzione grafica in una forma stabile, perenne, probatoria. È la vera macchina del tempo, perché consente di comunicare con gli uomini che sono vissuti ieri, ma anche il messaggio nella bottiglia che l'uomo d'oggi lancia nel mare del futuro. Qualcuno leggerà, qualcuno sa­prà ciò che è stato (ciò che siamo stati), qualcuno comprenderà e risponderà a suo modo.

È il legame tra tutti gli uomini, un legame forte che non può essere spezzato, malgrado le innovazioni tecnologiche, le rivolu­zioni tipografiche, i supporti digitali, virtuali o la multimedialità.

Borges, uomo cresciuto fra i libri, è disposto a riconoscere al li­bro un'importanza vitale, a ritenerlo un frammento della costru­zione dell'universo. Un sistema talmente ricco e complesso da po­ter essere paragonato a un labirinto, anzi è il labirinto stesso a rappresentare simbolicamente il razionale.

 

Ma il labirinto è, a sua volta, un paradosso. Spaziale, tem­po­rale, estetico, sonoro, logico, matematico, linguistico.

Nella fantasia popolare il labirinto è un luogo di perdizione: si entra e non si sa come uscirne. Una volta chiusi nel labirinto non si è più visibili, si perde la coscienza del tempo e dello spazio, la possibilità di relazione con gli altri. Luogo di reclusione o di sot­trazione al mondo e alla luce; luogo occulto e sepolto, che segue proprie regole logiche che rasentano l'alienazione. Luogo smisu­rato, in cui l'uomo si perde, pure in assenza di ostacoli, come nel brevissimo I due re e i due labirinti (1952), dove al malcapitato sovrano di Babilonia tocca di sperimentare il più ter­ribile dei labi­rinti: il deserto.

In un racconto analogo, Abenjacàn il Bojarì, ucciso nel suo la­birinto (1952), è la scena di un delitto misterioso che, per l'acu­tezza dell'intreccio, si dimostra un piccolo capolavoro del genere poliziesco, alla Agatha Christie. Costruzione astrusa di logiche perverse di tipo architettonico o visivo, come nelle incisioni di Escher, in cui viene messa a dura prova l'ingenua percezione dell'occhio umano, abituato a se­guire stereotipi formali.

Può essere la prigione di un mostro ributtante, come il Mino­tauro della mitologia greca, o locus amoenus in cui rifugiarsi, al si­curo dalla curiosità degli altri, come un castello o un sotterraneo, una caverna o un palazzo. In un altro racconto, There are more things (1975), dedicato alla memoria di H. P. Lovecraft, Borges sembra richiamarsi esplicitamente a L'orrore di Dunwich (1928) e alle atmosfere rarefatte del Maestro di Providence. Il protagoni­sta cerca di scoprire il mistero della casa dell'infan­zia, trasformata all'interno per accogliere il corpo di un ospite mostruoso che è dato solo intuire.

 

Quella notte non dormii. Verso l'alba sognai un'incisione alla maniera di Piranesi, che non avevo mai visto o che avevo visto e dimenticato, e che rap­presentava il labirinto. Era un anfiteatro di pietra, circondato da cipressi e più alto delle chiome dei cipressi. Non c'erano porte né finestre, ma c'era in­vece una fila infinita di feritoie verticali e strette. Con una lente di ingrandi­mento io cercavo di vedere il Minotauro. Finalmente lo scorsi. Era il mostro di un mostro; era meno toro che bisonte e, con il suo corpo umano disteso sulla terra, sembrava dormire e sognare. Sognare che o chi? (There are more things, in: Tutte le opere, Mondadori, 2000, pp. 599-600).

 

Il labirinto può essere anche un luogo virtuale, come prefigu­rato da Borges in Il giardino dei sentieri che si biforcano (1941), dove è annidato in un ro­manzo dalle molteplici e compresenti al­ternative possibili. L'indecifrabile romanzo del cinese Ts'ui Pên è composto di in­finite alternative, tutte contemporaneamente presenti nel testo. Impossibile leggerle in successione, si perderebbe il senso della narrazione. Come in un labirinto, è necessario scegliere per quale strada proseguire di fronte ai sentieri testuali che si biforcano in­cessantemente, tenendo presente che ogni scelta produrrà e modi­ficherà le scelte successive. Come non pensare all'ipertestualità concessa dai sistemi informatici, dalla complessità dei giochi di ruolo, veri labirinti da cui non è possibile procedere a ritroso.

 

L'idea di Borges, che torna spesso come un'ossessione, è evi­dentemente quella del libro come contenitore privilegiato, capace di con-prendere il senso (tutti i sensi) del mondo. Ma se il libro è già di per sé un sistema complesso, figuriamoci che cosa deve es­sere una biblioteca, ossia un'organica e sistematica raccolta di li­bri. La biblioteca diventa il labirinto dei labirinti, dove davvero l'uomo può perdersi, più facilmente che nel labirinto fisico. Se non c'è un mostro a celarsi nel suo centro, c'è tuttavia la minaccia palpabile dell'alienazione mentale.

 

Nel racconto più famoso, La Biblioteca di Babele (1941), il la­birinto borgesiano per antonomasia è una biblioteca immensa, fatta di tutti i libri possibili (comprese le varianti), scritti in tutte le lingue del mondo e che comprende tutte le possibili declinazioni permesse dai venticinque simboli ortografici (spazi compresi). La sua maestosa costruzione coincide con l'universo stesso:

 

L'Universo (che altri chiama la Biblioteca) si compone di un numero in­definito, e forse infinito, di gallerie esagonali, con vasti pozzi di ventilazione nel mezzo, bordati di basse ringhiere. Da qualsiasi esagono si vedono i piani superiori e inferiori, interminabilmente. … La Biblioteca è una sfera il cui centro esatto è qualsiasi esagono, e la cui circonferenza è inaccessibile. (pp. 74-75).

 

Affascinato dall'ipotesi di Borges, anche Umberto Eco colloca una biblioteca al culmine del suo romanzo neo-gotico: il labirinto fi­sico nasconde un mostro (il libro proibito di Aristotele), la cui stessa presenza si rivela letale per chiunque cerchi di carpirlo.

 

 L'aspetto labirintico del testo, ne Il libro di sabbia (1975), ri­sulta ulteriormente complessificato, perché il volume di cui viene in possesso il vecchio acquirente (Borges stesso?), in cambio della sua liquidazione e di una copia dell'antica Bibbia di Wiclif, è infi­nito. Non ha inizio e non ha fine; ogni volta che si apre, si trovano sempre contenuti diversi, le pagine non seguono un ordine logico, la numerazione è casuale, le illustrazioni mutano ad ogni sfogliar di pagina.

Ce n'è abbastanza da far ammattire anche il più attento lettore e, nell'impossibilità di distruggere un libro infinito (il che richie­derebbe un'operazione infinita), il protagonista decide di disfar­sene

 

Verso la fine dell'estate capii che il libro era mostruoso. A nulla valse con­siderare che non meno mostruoso ero io, che lo percepivo con occhi e lo pal­pavo con dieci dita provviste di unghie. Sentii che era un oggetto da incubo, una cosa oscena che infamava e corrompeva la realtà.

Pensai al fuoco, ma ebbi paura che la combustione di un libro infinito fosse altrettanto infinita e soffocasse con il fumo il pianeta. (Il libro di sabbia, in: Tutte le opere, p. 652),

 

Non è un caso che il vecchio bibliofilo del Libro di Sabbia, decida di nascondere il suo pericoloso tesoro proprio tra gli scaf­fali della Biblioteca Nazionale di Buenos Aires. C'è, forse, l'ironico riferi­mento alla scarsa frequentazione della biblioteca da parte dei suoi concittadini, ma anche (e soprattutto) l'antica idea cretese che la mostruosità sia più facilmente celata laddove nessuno possa cer­carla. Qualcosa che ha a che fare col mistero della lettera scom­parsa di Edgar Allan Poe e, insieme, col mito del Minotauro, la cui forma corporea denunciava gli amori indecenti di Pasifae e quindi doveva restare sepolto.

 

Va da sé, come ha notato E. Aarseth (Il romanzo nell'universo di Turing, in: Il romanzo. Storia e geografia, vol. III, a cura di F. Moretti, Einaudi, 2002, pp. 675-676), che il Libro di Sabbia sta a Internet, come Il giardino dei sentieri che si biforcano sta all'ipertestualità. I milioni di pagine disponibili sul World Wide Web sono privi di un inizio e di una fine, sono mutevoli ma anche labili; possono svanire con la stessa rapidità con la quale si sono formati sullo schermo, senza lasciare traccia di sé. Borges aveva intuito le potenzialità astratte di una comunicazione più com­plessa, pur prescindendo dagli aspetti tecnologici, senza i quali, con tutta evidenza, tali potenzialità non si sarebbero potute tra­durre sul piano reale. La data della sua morte (1986) coincide con l'inizio dell'avventura di Internet, e pertanto egli non ha po­tuto averne notizia: ma, anche in caso contrario, l'impossibilità materiale per un non-vedente di “navigare” su Internet lo avrebbe costretto ad accontentarsi di una semplice descrizione di quanto la sua mente aveva già immaginato.

 

 

 

 
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