L'Avana letteraria di un Infante defunto
di Gordiano Lupi
Aveva piovuto quel pomeriggio, uno di quei
piovaschi simili all'amore: intensi, repentini e fugaci, che una volta avevano
trasformato Lorca in spettatore dell'Avana. La notte
aveva la trasparenza, la freschezza e il profumo della notte avanera dopo la pioggia. Suppongo che tutte le notti
tropicali siano così, però per me sono rimaste la notte avanera. La
notte avanera secondo Cabrera
Infante, la notte di uno scrittore esiliato che ricorda, la notte di uno
scrittore che non avrebbe mai voluto abbandonare
L'Avana, la notte di chi afferma con forza Io
non vivo a Cuba. Vivo all'Avana. Io non lascerò mai L'Avana. L'Avana non è solo
il mio fine e il mio principio, ma anche il mio regno di mezzo. Cabrera Infante muore sotto il plumbeo cielo di Londra,
avvolto da una nebbia nordica che non ha niente dell'azzurro ottobre avanero. Lo deve a una rivoluzione trasformata in
dittatura, a un regime manicheo che separa buoni e cattivi. Lo scrittore vive
nella fredda Europa del Nord e vagheggia nel ricordo la sua Avana. Rammenta il Torreón de San Lázaro e il Malecón miracoloso,
meraviglia del mare e del muro, sogna l'aria
dolce di settembre che si avvia a diventare ottobre e a raggiungere i giorni
della lira, quando non ci sono uragani e il cielo diventa curvo, alto e di un
azzurro intenso, senza nubi e fa appena caldo, e L'Avana bruciante di settembre
viene addolcita dalla corrente del Golfo. Infante
giunge all'Avana da un piccolo paese di oriente, provinciale catapultato in
città, esplora il Malecón con occhi assorti che si
spingono dentro l'oceano, ama l'autunno avanero, la
sua dolcezza tropicale, percorrendo i due lati del lungomare, quello che si
affaccia sul mare e quello che apre le porte alla città delle colonne. I
pomeriggi di ottobre sono tutti dorati, se il cielo è nuvoloso sembra limpido,
se non ci sono uragani si sta bene, fa meno caldo e la pioggia resta solo un
vago ricordo di aprile. Per lui L'Avana è soprattutto ottobre, la stagione più
bella, quella che non fa sudare e non serve tenere il fazzoletto a portata di
mano. La sua città ottobrina brulica vita sotto
un cielo rannuvolato con grandi nuvoloni scuri
concentrati sul mare che perde il suo eterno azzurro interrato dal solco violaceo
della corrente del Golfo. E lui ama la luce del giorno, vive l'azzurra
intensità del mattino e del primo pomeriggio, diffida della luce del
crepuscolo, perché non c'è niente di più illusorio in questa città di colonne,
emozioni perdute nel mare mentre la brezza soffia da
lontano. Ama il sole, quel sole intenso dell'Avana, quel sole che ti penetra a
fondo con una serie di terribili stilettate di fuoco e ti costringe a sedere,
quel sole che ti sconfigge sempre e invita a prendere la vita con lentezza, a
non farti trasportare da un ingranaggio che può stritolarti. All'Avana non c'è
mai qualcosa di urgente da fare, solo lasciarsi accarezzare dal sole del
mattino che brucia come il fuoco e a mezzogiorno si trasforma in un
lanciafiamme verticale. Cabrera Infante si trova a Piccadilly Circus e pensa
all'Avana, ai tramonti sul Malecón che si colorano di
rosso intenso, che arrivano improvvisi e ti penetrano la vista e il cuore, che
si affiancano galeotti agli innamorati accanto al muro. La sua mente percorre La
Rampa, quel tratto dell'Avana dove finisce il Vedado
e comincia Infanta, corre giù per San Lázaro, buia strada illuminata soltanto dagli occhi di una
mulatta che agita fianchi possenti o dal sorriso di una creola che passeggia
maliziosa. E da San Lázaro è un volo rapido di
gabbiano raggiungere Parque Maceo per scendere lungo
tutto il Malecón fino a Prado
e proseguire fino a Neptuno. Lo scrittore ricorda Obispo fiancheggiata da librerie ed è dentro una stanza
colma di libri che scopre Garcia Lorca,
si lascia penetrare dalla narrativa di Lezama Lima e
si immerge nella poesia di José María
Heredia. E come dimenticare il Castillo
de La Punta, soprattutto il Parque de los enamorados, che raggiunge
mano nella mano a una ragazza dopo aver attraversato la strada evitando il
traffico, un traffico che per un provinciale di Gilbara
sembra impossibile e rende L'Avana una
città di molte macchine e poche luci. Tutto è relativo, perché da Piccadilly Circus la prospettiva
è mutata e L'Avana, vista da un europeo abituato a metropoli soffocanti, pare
un piccolo centro dove si vive ancora come un tempo. Cabrera
Infante raggiunge Parque Central,
il centro dell'ozio, crocicchio obbligato di pedoni, veicoli e viaggiatori, si
ferma a osservare la vita che scorre sotto il Capitolio,
tra venditori di granita fatta in casa, gelatai improvvisati vestiti di bianco
e bambini per mano alle madri che rientrano da messa. Un quartiere centrale
dove durante il passeggio domenicale si incontrano borghesi ben vestiti, donne
curate, ragazzini impomatati figli di spagnoli, ma anche mulatti, neri,
lavoratori che trascorrono il giorno di festa.
L'Avana
di oggi è troppo cambiata da quella che dipinge lo scrittore. Non era una città
ideale in balia di ricchi borghesi ma non lo è neppure
adesso che hanno nazionalizzato la miseria. Cabrera
Infante lo sa bene, lui fa parte di quel gruppo di borghesi che deve partire
perché non può vivere omaggiando un tiranno, non sa fare il Carpentier
della situazione. Uno scrittore può perdere tutto, ma non la dignità e allora
decide che non può restare per farsi consigliare cosa scrivere negli articoli e
come organizzare la trama di un romanzo. Londra è troppo diversa dalla sua
Avana, ma lui apprende l'inglese e scrive meglio di Hemingway
in una lingua che un tempo considerava straniera. Potenza della cultura che non
ti rende straniero in nessuna terra, che lenisce la nostalgia di una casa
lontana. Lo scrittore ricorda il quartiere Colón, le
prostitute ammiccanti ai lati del viale che fiancheggia il cimitero monumentale,
una selva di seduzioni piena di fiori profumati, ma velenosi. A Londra quando scoccano le nove
della sera non accade niente di speciale, come sempre fa freddo, le persone si
rifugiano in case accoglienti e la cena è finita, ritmi da capitale europea che
chiude in fretta le giornate. All'Avana la cannonata delle
nove parte dalla Cabaña, ricorda la
dominazione spagnola e mette in scena una rappresentazione consueta, scuote la
città fino al cuore segreto e palpitante di Colón. Lo
scrittore si lascia suggestionare dal ricordo di un panorama stupendo che si
apre davanti agli occhi salendo all'ultimo piano di un palazzo dell'Alto Vedado, in una terrazza piena di panni tesi ad asciugare
sotto il forte sole avanero. Il Vedado
domina tutte le case dei dintorni e scopre la vista del mare in lontananza,
apre un panorama bruciato dal sole e un cielo azzurro intenso. Il nostro cielo era anche il nostro inferno:
al mattino eravamo accarezzati dalla brezza marina, ma
al pomeriggio eravamo colpiti in pieno dal sole a picco, sole calante ma
cocente. Cabrera Infante ricorda se stesso
bambino nel Parque Maceo, vede il monumento bronzeo a
un eroe dell'indipendenza, sua madre lo tiene per mano, racconta la storia mentre lui siede in una panchina e ascolta. Il muro
del Malecón vicino a Parque Maceo è un luogo molto frequentato dagli avaneri e fissa le tappe di una vita che scorre lentamente.
Lo scrittore ci passa il tempo con lo zio nei pomeriggi senza nubi dell'autunno
del 1941, ci torna con i compagni di liceo, seduto ai giardini di fronte al Malecón a guardare le ragazze dirette all'anfiteatro o di
ritorno dal Prado, ma ci discute pure di letteratura
con i colleghi della rivista Nueva Generación. Il muro del Malecón
segna lo scorrere della vita degli avaneri e
rappresenta un confine simbolico tra la città e l'oceano. Gli avaneri hanno la strana abitudine di sedersi voltando le
spalle al mare, guardando passare le auto, abitudine che sorprende non poco lo
scrittore venuto dalla provincia, perché le auto in corsa affascinano per la
velocità inconsueta, ma lo spettacolo vero resta dall'altra parte del muro. Lo spettacolo era il mare, la costa esigua,
la scogliera, la marea fluente e poco più lontano, a un chilometro circa al
largo, la corrente del Golfo, quella massa violetta, quasi solida ma fluida,
che si spostava inarrestabilmente da sud a nord anche se
sembrava muoversi da ovest a est, in senso contrario al sole, un fiume nel
mare; di notte era un buio misterioso in cui brillavano le lampare dei
pescherecci d'altura, di giorno un habitat affascinante per i pesci che vi
guizzavano: le frecce rapide dei pesci volanti, il volo come al rallentatore
delle mante tra due acque, le temibili pinne dei pescecani, i pescatori dalla
riva che pescavano dal muro, con lenze che arrivavano fino a cento o duecento
metri in mare…La cosa incredibile è che quello spettacolo fantastico della
natura non interessa molto agli avaneri che se lo
perdono a vantaggio delle auto veloci che corrono lungo la strada. Il Malecón resta il viale più tipico della città delle
colonne, la lunga direttrice che nel ricordo riaffiora durante le notti di
lontananza disperata e il suo punto focale resta Parco Maceo, con il monumento
al bronzeo guerriero mambí
che alza il machete e volta la
schiena al paseo,
mentre il cavallo scalpitante offre il posteriore all'oceano.
Cabrera Infante deve cambiare la notte avanera
con la notte di Londra
e perde tutto l'incanto di una notte marinara con la luna piena che si riflette sull'oceano liscio,
tranquillo, con appena qualche leggera increspatura d'onde, mentre la luna
splende in un cielo senza nubi. Non è la stessa notte sotto questo cielo
europeo così freddo e grigio, come non è lo stesso giorno con questi colori
tenui, moderati, sfocati. Resta la convinzione di averla persa per sempre
quella famosa notte avanera piena di colonne di tanto
tempo fa e anche quella voragine della giungla della notte avanera dove gli alberi dei viali e le palme domestiche
erano bruciate dal salmastro del mare e lo stesso Malecón
sembrava rubato al mare.
L'Avana
nel ricordo di un esiliato, di uno scrittore che vive lontano e sa che non può
rivederla, torna prepotente alla memoria con i suoi negozi cubani, i magazzini
spagnoli, gli store
americanizzanti e le boutique francesi. Si sente nostalgia di tutto, persino
dell'odore del cinema Esmeralda o del Teatro America, puzza di cinema economico, di sudore, liquori
imbottigliati ma stappati, aria condizionata rancida e filtro stagnante
di sigarette.
Non potrei mai andarmene di qui, perché la mia vita
è qui, all'Avana, afferma Cabrera
Infante. Non sa che il destino ha già deciso e che lui dovrà dire addio alla
sua terra per non rivederla mai più. Morire in esilio è una sofferenza troppo
grande per un poeta capace di cantare con dolcezza ogni angolo della sua terra.
Non ci vuol credere. Non può finire così, tra i grigi fumi di Londra e i
tramonti nascosti dal colore plumbeo del cielo. Per scacciare la nostalgia lo
scrittore ricorda ogni sera la sua terra e la saluta con un semplice: “A dopo”.
Cabrera Infante passa tutta la vita a dire: “A dopo”,
strana abitudine avanera, una sorta di riluttanza a
dire addio, pure se sa bene che non rivedrà la città delle colonne. Resta
l'ispirazione letteraria, quella non può toglierla nessuno. Resta la magia che
L'Avana ha regalato alla sua giovinezza. Restano i tramonti rosso fuoco che lo
scrittore si porta nel cuore per tutta la vita. La magia dell'Avana è nelle
piccole cose del quotidiano, in un suono di tamburi, nella danza sensuale di
una mulatta, nei sogni a occhi aperti davanti a un lungomare. La città delle
colonne ti attende, scrittore in esilio, e forse un giorno celebrerà il tuo
funerale.