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  Letteratura  »  Carlo Bordoni ha recensito Oggi ho salvato il mondo Canzoni di protesta 1990-2005, di Carlo Bordone eGianluca Testani – Edizioni Arcana. 19/10/2007
 

Carlo Bordone e Gianluca Testani

OGGI HO SALVATO IL MONDO

CANZONI DI PROTESTA 1990-2005

Pagg. 296

Prezzo: € 16,50

Arcana, Roma 2006

 

 

L'immagine di copertina mostra la figura stilizzata di un black-block nell'atto di lanciare un mazzo di fiori, invece della prevedibile bottiglia molotov. Fa subito pensare a un'altra canzone di protesta d'altri tempi, quel Mettete dei fiori nei vostri cannoni dei Giganti (Proposta, 1967), che condensava il senso del pacifismo della beat generation.

Ma non è l'unica similitudine. Il libro di Bordone e Testani riporta in primo piano una cultura che credevamo dimenticata, sepolta in un passato remoto, identificabile con gli anni giovanili di una generazione “decisiva”, quella nata all'indomani della seconda guerra mondiale. La cultura della contestazione, della protesta, della critica sociale, che evidenzia il malessere degli emarginati e degli oppressi.

Zygmunt Bauman, con un'immagine felice, ha definito “liquida” la nostra società globalizzata, avvolgente e opulenta, così sfuggente da non poter essere posseduta né modificata. Ogni tentativo in tal senso scivola fra le dita e si ricompone in un rapido equilibrio.

Sorprende quindi il numero e la qualità dei brani musicali raccolti dai due Autori – provenienti entrambi dall'esperienza del “Mucchio Selvaggio” – molti dei quali non rivelano ai più il loro intrinseco significato rivoluzionario: vuoi perché ascoltati distrattamente; vuoi perché i testi, spesso incomprensibili, sono sovrastati dalla musica.

Ma a un'analisi più approfondita dei brani, che pure hanno riscosso maggior successo, emerge una differenza sostanziale tra le canzoni di protesta di oggi e quelle di trenta-quarant'anni fa: il collegamento diretto con la pratica sociale. Se le canzoni di Joan Baez e di Bob Dylan erano la colonna sonora che accompagnava le manifestazioni di piazza, la rivolta studentesca, le occupazioni e la lotta femminista, le parole – magari più violente, più esplicite – dei Body Count (Cop Killer), di Dan Bern (Bush Must Be Defeated) o degli Outkast (Bombs Over Baghdad), sono incapsulate nel loro mondo. Isolate dal contesto, private dell'aggancio con la realtà effettuale. Non sconvolgono le coscienze, non muovono masse minacciose, non allarmano il potere costituito. Fanno parte del sistema e sono digerite al pari di ogni altra prevedibile critica politica. Si veda il caso dei Public Enemy (Son of a Bush); perduto il carisma di profeti dell'Apocalisse, non più in grado di “dare la linea alla gioventù del ghetto”, la loro protesta rimane chiusa nel privato, ascoltata col religioso rispetto dovuto a un'icona, di cui mantiene il fascino ma non il potere eversivo. Quasi un atto dovuto, poiché è giusto opporsi alla guerra, al razzismo e nutrire buoni sentimenti, soprattutto se a dichiararlo sono le parole di una bella canzone.

Gli Autori non nascondono che spesso si tratta di affermazioni di maniera, il cui obiettivo è il successo e il ritorno economico: si veda il pesante giudizio nei confronti del trio Ligabue, Giovanotti, Pelù (Il mio nome è mai più, 1999), “una canzone che non sa bene contro cosa o chi protestare”. Se può servire da giustificazione, non va dimenticato che nella società “liquida” è difficile produrre musica alternativa davvero credibile, affrancata dal controllo delle multinazionali e dell'industria culturale. Forse la protesta, quella vera, ha preso altre strade.

 

Carlo Bordoni

 

 

 
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