Carlo Bordone e Gianluca Testani
OGGI HO SALVATO IL MONDO
CANZONI DI PROTESTA 1990-2005
Pagg. 296
Prezzo: € 16,50
Arcana,
Roma 2006
L'immagine di copertina mostra la
figura stilizzata di un black-block nell'atto
di lanciare un mazzo di fiori, invece della prevedibile bottiglia molotov. Fa
subito pensare a un'altra canzone di protesta d'altri tempi, quel Mettete
dei fiori nei vostri cannoni dei Giganti (Proposta, 1967), che
condensava il senso del pacifismo della beat generation.
Ma non è l'unica similitudine. Il
libro di Bordone e Testani riporta in primo piano una
cultura che credevamo dimenticata, sepolta in un passato remoto, identificabile
con gli anni giovanili di una generazione “decisiva”, quella nata all'indomani
della seconda guerra mondiale. La cultura della contestazione, della protesta,
della critica sociale, che evidenzia il malessere degli emarginati e degli
oppressi.
Zygmunt Bauman, con un'immagine felice, ha definito “liquida” la
nostra società globalizzata, avvolgente e opulenta,
così sfuggente da non poter essere posseduta né modificata. Ogni tentativo in
tal senso scivola fra le dita e si ricompone in un rapido equilibrio.
Sorprende quindi il numero e la
qualità dei brani musicali raccolti dai due Autori – provenienti entrambi
dall'esperienza del “Mucchio Selvaggio” – molti dei quali non rivelano ai più
il loro intrinseco significato rivoluzionario: vuoi perché ascoltati
distrattamente; vuoi perché i testi, spesso incomprensibili, sono sovrastati
dalla musica.
Ma a un'analisi più approfondita dei
brani, che pure hanno riscosso maggior successo, emerge una differenza
sostanziale tra le canzoni di protesta di oggi e quelle di trenta-quarant'anni
fa: il collegamento diretto con la pratica sociale. Se le canzoni di Joan Baez e di Bob Dylan erano la colonna sonora che accompagnava le
manifestazioni di piazza, la rivolta studentesca, le occupazioni e la lotta
femminista, le parole – magari più violente, più esplicite – dei Body Count (Cop Killer),
di Dan Bern (Bush Must Be Defeated) o degli Outkast (Bombs Over
Baghdad), sono incapsulate nel loro mondo. Isolate dal contesto, private
dell'aggancio con la realtà effettuale. Non sconvolgono le coscienze, non
muovono masse minacciose, non allarmano il potere costituito. Fanno parte del
sistema e sono digerite al pari di ogni altra prevedibile critica politica. Si
veda il caso dei Public Enemy (Son
of a Bush); perduto il carisma di profeti
dell'Apocalisse, non più in grado di “dare la linea alla gioventù del ghetto”, la
loro protesta rimane chiusa nel privato, ascoltata col religioso rispetto
dovuto a un'icona, di cui mantiene il fascino ma non il potere eversivo. Quasi
un atto dovuto, poiché è giusto opporsi alla guerra, al razzismo e nutrire
buoni sentimenti, soprattutto se a dichiararlo sono le parole di una bella
canzone.
Gli Autori non nascondono che spesso
si tratta di affermazioni di maniera, il cui obiettivo è il successo e il
ritorno economico: si veda il pesante giudizio nei confronti del trio Ligabue, Giovanotti, Pelù (Il
mio nome è mai più, 1999), “una canzone che non sa bene contro cosa o chi
protestare”. Se può servire da giustificazione, non va dimenticato che nella
società “liquida” è difficile produrre musica alternativa davvero credibile,
affrancata dal controllo delle multinazionali e dell'industria culturale. Forse
la protesta, quella vera, ha preso altre strade.
Carlo
Bordoni