ALTROVE
DA ME
di Lucilla Galanti
Casa Editrice I Sognatori
www.casadeisognatori.com
Narrativa romanzo
Pagg. 145
Prezzo: € 9,90
Recensione di Alberto Carollo
Lucilla Galanti è senza dubbio una penna da tenere d'occhio. Per
almeno tre buone ragioni: è giovanissima (21 anni), ha una poderosa
immaginazione e una scrittura ben strutturata, capace di trascinare il lettore
anche in quelle plaghe remote dell'io narrante dove
molti autori si sono arenati nel pantano del solipsismo, col penoso esito (ahimé) di far naufragare di fatto i loro progetti
narrativi. Lucilla, qui alla sua opera prima per i tipi de I Sognatori, con Altrove da me (pagg. 145, Euro 9,90),
si getta con una sana dose di beata incoscienza nell'impresa di architettare un
romanzo denso e corposo, quasi esclusivamente in prima persona, per tradurre e
rendere comprensibile al lettore il carattere “strano” e “perturbante” della
sua protagonista femminile. Un altro
mattino denota una giornata di scarsa importanza. Inutile. (…)
Galleggio nel mio nulla costruito su misura e mi ci sento perfettamente a mio
agio. La protagonista è affetta da una forma di Disagio esistenziale e la Galanti ne delinea le
coordinate, descrive l'evoluzione di questa “disposizione”, se è possibile
parlare di “evoluzione” e “disposizione” (d'animo?) in una storia che presenta
molte analogie con la graduale manifestazione di un quadro clinico, di una
patologia psichiatrica.
Mi spiego meglio. Altrove da me non presenta un intreccio
convenzionale; percorrendo il romanzo da cima a fondo non succede praticamente
nulla o meglio, ciò che accade avviene unicamente nel teatro di posa della
mente della protagonista. Le connotazioni reali, il fatto che a questa giovane
– che potrebbe essere pressappoco coetanea dell'autrice – sia stata
tratteggiata una posticcia biografia (un padre, una madre, un matrimonio finito
male, un incerto lavoro) è solo un pretesto provvisorio, un trampolino di
lancio per innescare nuove fantasticherie e vaneggiamenti. Ciò che è tangibile è la cupa, inquietante
discesa agli inferi di una mente troppo sensibile, vulnerabile,
irrimediabilmente perduta nel vaglio continuo di eventi marginali, altrimenti
irrisori, che segnano il suo quotidiano; nell'autocritica spietata, nel
pedissequo ribaltamento di prospettiva, nel condurre anche stilisticamente un
ragionamento involuto e contorto, al limite dell'anacoluto. E fin qui,
percorrendo le secche del prologo e della prima fase di latenza, il lettore
poco propenso a infilarsi nella selva
oscura di questa partitura potrebbe osservare che la Galanti sembra continuare
a ruotare attorno al suo ombelico. Questo se la scrittura gergale, piana,
scarnificata nelle descrizioni accessorie ma precisa e puntuale nel riferire
percezioni e emozioni del suo oggetto – quasi una autopsia
in diretta – apre improvvisamente le danze su scenari intrisi di visioni, di iper-realtà. L'incubo e il grottesco dilagano e il pensiero
corre inevitabilmente a riferimenti paraletterari come le arti figurative (Munch, Schiele) o
cinematografiche (Cronenberg, Ken Russel, il primo
Polanski). Lentamente le mura di casa si popolano di fantasmi che entrano e
escono a loro piacimento; suppellettili e elettrodomestici ingaggiano una sorta
di guerra civile decidendo di parteggiare o meno per
la loro inquilina. Il volo a vite continua: la storia vira al nero più nero; la
disperazione fa capolino ma il registro adottato evita accuratamente il
melodramma e tinge di un umorismo caustico e sottile il succedersi di quadri
bizzarri, le trasmutazioni dei corpi, il ricorrere della forma pesce (quasi lo
scalino più basso della scala evolutiva: veniamo dall'acqua, creature squamate,
gorgoglianti nel buio, prima di acquisire una forma intelligibile di
linguaggio). Il repertorio non è nuovo di zecca né particolarmente originale (è
possibile, mi chiedo, essere originali quando tutto è già stato detto con
l'omerica Odissea?) ma la Galanti presenta una
naturalezza fuori del comune, evitando quasi “acrobaticamente” cadute di tono,
autoreferenzialità e scimmiottamenti di modelli. Si nutre, questo è evidente,
di tanto materiale letterario: Kafka, in primis, e ancora Lovecraft, e il
Burroughs de Il pasto nudo, ma lo fa
con nonchalance e finisce per cadere
sempre in piedi. Altrove
da me è in questo un piccolo miracolo di misura e equilibrio.
Personalmente avrei forse preferito qualche pagina in meno ma i personaggi che
di volta in volta sfilano nelle varie parti e intervalli hanno il sapore della
fiaba (rigorosamente nera): il ritardato Dimitri sembra uscito dalla penna del
più audace Bulgakov e le improbabili e inconsistenti figure del Saggio e del
suo cane fanno i pendolari, con naturalezza, dal mondo dei morti per ornare una
vicenda che non è per niente conciliante col lettore, ma che anzi lo strapazza
indugiando nei particolari più tetri e sofferti del Disagio della giovane donna
e del suo tormentato rapporto col suo corpo, calato in un lurido appartamento,
con la sua dispensa di cibi scaduti da tempo, dove il terrazzo è una discarica
e il cadaverino di un malcapitato gatto può anche
“fare compagnia”; un corpo indagato minuziosamente nelle sue metamorfosi,
svilito, mortificato, spezzettato (col pensiero, sempre col pensiero) e
ricomposto allo specchio nella speranza di scorgere un barlume di quel
benessere perduto. Le passeggiate notturne della ragazza, con le sue fide
“babbucce”, in ascolto della propria solitudine, sono scandite dai suoi
monologhi interiori ai quali si aggiunge il controcanto degli aforismi e delle
regole del Saggio, personaggio costruito per sottrazione, presenza fluttuante e
incorporea: Il Saggio diceva che non voleva nient'altro dal mondo. Essere
ignorato, come l'inesistente. L'unica sua identità
è quella di Saggio. Ha un bel suono, diceva, quella
parola. Il Saggio acquista il ruolo di voce raziocinante, forse l'ultimo
brandello di coscienza che rimane alla protagonista. Tu temi la sconfitta
della convenzionalità. L'oppressione del quotidiano, l'angoscia delle
responsabilità, la percezione del mondo come una dimensione alienante e
alienata dal sé, solitudine e incomunicabilità, questi i temi portanti di
questa favola nichilista che si scioglie con un quasi happy end,
anticonvenzionale come tutto il resto. Si limitarono a dire che ero un
soggetto particolare, il che mi riempì di gioia, credo sia il complimento più
bello che qualcuno mi abbia mai fatto in tutta la vita. Su questo verdetto
dei medici cala in qualche modo il sipario su questa storia di una donna che
patisce l'indifferenza e l'omologazione della società contemporanea e conquista
con grande difficoltà la propria unicità, inventando per l'occasione una
stravagante nuova professione: quella del ricercatore di meraviglie, unico
momento di condivisione, di intenso lirismo, nell'economia del romanzo. Per lo
scrivente rimane invece la curiosità e l'interesse di attendere questa giovane
autrice di Faenza, borgo incastonato tra le soleggiate colline romagnole, alla
sua prossima prova.