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  Letteratura  »  Alberto Carollo ha recensito Altrove da me, di Lucilla Galanti, edito da I sognatori 22/08/2008
 

ALTROVE DA ME

di Lucilla Galanti

Casa Editrice I Sognatori

www.casadeisognatori.com

Narrativa romanzo

Pagg. 145

Prezzo: € 9,90


Recensione di Alberto Carollo

 

Lucilla Galanti è senza dubbio una penna da tenere d'occhio. Per almeno tre buone ragioni: è giovanissima (21 anni), ha una poderosa immaginazione e una scrittura ben strutturata, capace di trascinare il lettore anche in quelle plaghe remote dell'io narrante dove molti autori si sono arenati nel pantano del solipsismo, col penoso esito (ahimé) di far naufragare di fatto i loro progetti narrativi. Lucilla, qui alla sua opera prima per i tipi de I Sognatori, con Altrove da me (pagg. 145, Euro 9,90), si getta con una sana dose di beata incoscienza nell'impresa di architettare un romanzo denso e corposo, quasi esclusivamente in prima persona, per tradurre e rendere comprensibile al lettore il carattere “strano” e “perturbante” della sua protagonista femminile. Un altro mattino denota una giornata di scarsa importanza. Inutile. (…) Galleggio nel mio nulla costruito su misura e mi ci sento perfettamente a mio agio. La protagonista è affetta da una forma di Disagio esistenziale e la Galanti ne delinea le coordinate, descrive l'evoluzione di questa “disposizione”, se è possibile parlare di “evoluzione” e “disposizione” (d'animo?) in una storia che presenta molte analogie con la graduale manifestazione di un quadro clinico, di una patologia psichiatrica.

Mi spiego meglio. Altrove da me non presenta un intreccio convenzionale; percorrendo il romanzo da cima a fondo non succede praticamente nulla o meglio, ciò che accade avviene unicamente nel teatro di posa della mente della protagonista. Le connotazioni reali, il fatto che a questa giovane – che potrebbe essere pressappoco coetanea dell'autrice – sia stata tratteggiata una posticcia biografia (un padre, una madre, un matrimonio finito male, un incerto lavoro) è solo un pretesto provvisorio, un trampolino di lancio per innescare nuove fantasticherie e vaneggiamenti.  Ciò che è tangibile è la cupa, inquietante discesa agli inferi di una mente troppo sensibile, vulnerabile, irrimediabilmente perduta nel vaglio continuo di eventi marginali, altrimenti irrisori, che segnano il suo quotidiano; nell'autocritica spietata, nel pedissequo ribaltamento di prospettiva, nel condurre anche stilisticamente un ragionamento involuto e contorto, al limite dell'anacoluto. E fin qui, percorrendo le secche del prologo e della prima fase di latenza, il lettore poco propenso a infilarsi nella selva oscura di questa partitura potrebbe osservare che la Galanti sembra continuare a ruotare attorno al suo ombelico. Questo se la scrittura gergale, piana, scarnificata nelle descrizioni accessorie ma precisa e puntuale nel riferire percezioni e emozioni del suo oggetto – quasi una autopsia in diretta – apre improvvisamente le danze su scenari intrisi di visioni, di iper-realtà. L'incubo e il grottesco dilagano e il pensiero corre inevitabilmente a riferimenti paraletterari come le arti figurative (Munch, Schiele) o cinematografiche (Cronenberg, Ken Russel, il primo Polanski). Lentamente le mura di casa si popolano di fantasmi che entrano e escono a loro piacimento; suppellettili e elettrodomestici ingaggiano una sorta di guerra civile decidendo di parteggiare o meno per la loro inquilina. Il volo a vite continua: la storia vira al nero più nero; la disperazione fa capolino ma il registro adottato evita accuratamente il melodramma e tinge di un umorismo caustico e sottile il succedersi di quadri bizzarri, le trasmutazioni dei corpi, il ricorrere della forma pesce (quasi lo scalino più basso della scala evolutiva: veniamo dall'acqua, creature squamate, gorgoglianti nel buio, prima di acquisire una forma intelligibile di linguaggio). Il repertorio non è nuovo di zecca né particolarmente originale (è possibile, mi chiedo, essere originali quando tutto è già stato detto con l'omerica Odissea?) ma la Galanti presenta una naturalezza fuori del comune, evitando quasi “acrobaticamente” cadute di tono, autoreferenzialità e scimmiottamenti di modelli. Si nutre, questo è evidente, di tanto materiale letterario: Kafka, in primis, e ancora Lovecraft, e il Burroughs de Il pasto nudo, ma lo fa con nonchalance e finisce per cadere sempre in piedi. Altrove da me è in questo un piccolo miracolo di misura e equilibrio. Personalmente avrei forse preferito qualche pagina in meno ma i personaggi che di volta in volta sfilano nelle varie parti e intervalli hanno il sapore della fiaba (rigorosamente nera): il ritardato Dimitri sembra uscito dalla penna del più audace Bulgakov e le improbabili e inconsistenti figure del Saggio e del suo cane fanno i pendolari, con naturalezza, dal mondo dei morti per ornare una vicenda che non è per niente conciliante col lettore, ma che anzi lo strapazza indugiando nei particolari più tetri e sofferti del Disagio della giovane donna e del suo tormentato rapporto col suo corpo, calato in un lurido appartamento, con la sua dispensa di cibi scaduti da tempo, dove il terrazzo è una discarica e il cadaverino di un malcapitato gatto può anche “fare compagnia”; un corpo indagato minuziosamente nelle sue metamorfosi, svilito, mortificato, spezzettato (col pensiero, sempre col pensiero) e ricomposto allo specchio nella speranza di scorgere un barlume di quel benessere perduto. Le passeggiate notturne della ragazza, con le sue fide “babbucce”, in ascolto della propria solitudine, sono scandite dai suoi monologhi interiori ai quali si aggiunge il controcanto degli aforismi e delle regole del Saggio, personaggio costruito per sottrazione, presenza fluttuante e incorporea: Il Saggio diceva che non voleva nient'altro dal mondo. Essere ignorato, come l'inesistente. L'unica sua identità è quella di Saggio. Ha un bel suono, diceva, quella parola. Il Saggio acquista il ruolo di voce raziocinante, forse l'ultimo brandello di coscienza che rimane alla protagonista. Tu temi la sconfitta della convenzionalità. L'oppressione del quotidiano, l'angoscia delle responsabilità, la percezione del mondo come una dimensione alienante e alienata dal sé, solitudine e incomunicabilità, questi i temi portanti di questa favola nichilista che si scioglie con un quasi happy end, anticonvenzionale come tutto il resto. Si limitarono a dire che ero un soggetto particolare, il che mi riempì di gioia, credo sia il complimento più bello che qualcuno mi abbia mai fatto in tutta la vita. Su questo verdetto dei medici cala in qualche modo il sipario su questa storia di una donna che patisce l'indifferenza e l'omologazione della società contemporanea e conquista con grande difficoltà la propria unicità, inventando per l'occasione una stravagante nuova professione: quella del ricercatore di meraviglie, unico momento di condivisione, di intenso lirismo, nell'economia del romanzo. Per lo scrivente rimane invece la curiosità e l'interesse di attendere questa giovane autrice di Faenza, borgo incastonato tra le soleggiate colline romagnole, alla sua prossima prova.

 

 
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