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  Letteratura  »  Il filo di seta, di Carlo Sgorlon, edito da Piemme e recensito da Grazia Giordani 30/12/2008
 

Il filo di seta di Carlo Sgorlon, Piemme

UN'INCANTATA ODISSEA MEDIEVALE TRA FEDE E AVVENTURA


Che Carlo Sgorlon abbia tratto materia per il suo nuovo romanzo, Il filo di seta - uscito per i tipi di Piemme - dai Commentari di Odorico da Pordenone è un fatto certo, ma, senza la creatività dello scrittore, il De rebus incognitis sarebbe rimasto un testo scritto in latino medievale, noto solo agli addetti ai lavori. Rivisitandolo e trasfigurandolo con il suo abile apporto, lo scrittore friulano - conosciuto soprattutto per Il trono di legno (Supercampiello '73), La conchiglia di Anataj (Supercampiello 1983) e L'armata dei fiumi perduti (Premio Strega 1985) -, con una tecnica che sarebbe piaciuta a Maria Bellonci e a Fulvio Tomizza - maestri nel coniugare rigore storico con immaginazione artistica -, ci offre un mix di tessere vere e verosimili, tali da costruire un suggestivo mosaico.
Il tono di favola, che permea tutta la narrazione, è acutamente sottolineato anche nella copertina di Alfred Drago con quella fascia dorata, dal sapore magico, su cui vivono figure stilizzate.
Sgorlon ci narra la storia di un emulo di Marco Polo, del frate Odorico da Pordenone che fu un singolare "viaggiatore di Dio", creando un piacevole preambolo storico-sociale, presentandoci la Villanova di Pordenone nell'anno Domini 1265, popolata da solo duecento abitanti, contadini che "lavoravano i campi dei feudatari; gli altri erano artigiani o soldati". L'autore ricrea l'atmosfera dei soprusi del tempo, ci descrive l'indomito Franz - padre del piccolo Odorico - che deve fuggire e abbandonare la famiglia, dopo aver ferito un signorotto che insidiava la moglie, la bella e saggia Viola che - dopo qualche anno di vedovanza - si unirà in nuove nozze con Štefan, padre eccellente per il giovane orfano.
Attraverso le parole dell'autore conosciamo sempre più l'intelligenza pronta, la prodigiosa memoria e soprattutto la generosa disposizione d'animo di Odorico, non disgiunta da un desiderio di esplorare e conoscere realtà diverse da quelle della sua consuetudine di vita. Lo accompagniamo in convento a Udine, dove prenderà i voti, rivelando "un singolare carisma". Il "filo di seta" della provvidenza, quasi una proiezione dell'occhio divino puntato sulla vita e sulle azioni del giovane, prende a dipanarsi lentamente, segnandone per sempre l'avventuroso cammino.
Odorico inizierà il suo viaggio missionario in Estremo Oriente (siamo presumibilmente nel 1314), rincorrendo il suo grande sogno di evangelizzare l'Asia e il Catai, sperando di convertire persino il Gran Khan. Anche noi viaggiamo con lui e con i confratelli che lo accompagnano, tra favola e realtà e approdiamo a Trebisonda che "aveva un duplice volto, a volte occidentale cristiano, a volte orientale e musulmano", ed entriamo nel convento di Tauris e respiriamo brezze marine e con la carovana entriamo nel "regno delle montagne" e soffriamo il "caldo delle steppe persiane", affascinati da questo variare di paesaggi, colori, profumi. Ci attende, fra l'altro, la misteriosa atmosfera di Cashan, la città dei Re maghi, i "famosi sapienti, guidati dalla stella".
Odorico e i suoi seguaci Giacomo e Michele, saranno anche perseguitati e, per un tratto del loro peregrinare, dovranno vivere alla macchia, dandosi a una vita randagia e avventurosa. Salveranno in India una vedova senza figli dal rischio di essere bruciata sul rogo con la salma del marito ("Di colpo Odorico capì ogni cosa, e riconobbe persino la voce (...). Bisognava agire subito, con la massima rapidità, o la donna era perduta...). Buon cuore e astuzia saranno gli ingredienti indispensabili a permettere questo salvataggio, caratteristiche proprie dell'ardimentoso frate, che incontreremo anche in altri momenti del suo periglioso viaggio. Assisteremo anche ad un doppio matrimonio terreno e "celeste", entreremo a Pechino e nella mitica "Città proibita" ("I Palazzi Imperiali erano veramente un a città dentro la città. V'erano guardie armate su tutte le porte, che di sera, dopo il tramonto del sole, venivano chiuse. Solo un ordine scritto e sigillato del Gran Khan in persona avrebbe potuto farle riaprire durante la notte. Il suo circuito era di ben quattro miglia. V'erano palazzi di ogni genere, giardini, corsi d'acqua, un piccolo lago, ponticelli di legno, templi, tempietti, gazebo, una collina tutta piena di alberi verdissimi...) .
Odorico fallisce solo nel suo intento di convertire il Gran Khan al cristianesimo, ma se lo fa comunque amico, guarendolo, aiutato anche dal suo miracoloso cilicio, da una malattia alquanto imbarazzante. Ritornato in patria, il nostro intrepido frate, ormai in odore di santità, detterà - in punto di morte -, i suoi famosi Commentari, quelli che hanno permesso a Carlo Sgorlon di ricostruire per noi questa incantata odissea medievale, un viaggio tra fede e avventura, strettamente legata da un serico filo.

Grazia Giordani

www.graziagiordani.it

 

 
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