ZYGMUNT BAUMAN, OSSERVATORE DEL PRESENTE
di Carlo Bordoni
Zygmunt Bauman (Poznan, 1925) non è solo l'acuto
osservatore della società liquida. È anche il più profondo critico della
società dei consumi. Al problema del consumismo ha dedicato molti studi, a cominciare
da Lavoro, consumismo e nuove povertà
(Città Aperta, 2007) a Homo consumens (Erickson, 2007),
fino all'ultimo, Consumo, dunque sono
(Laterza, 2008), il più attuale, dove sono affrontati temi scottanti del
mutamento sociale, come la pratica quotidiana dei networks, da cui è difficile
sottrarsi. La lettura di Bauman dimostra come
l'esposizione pubblica di sé nei social networks ha, di fatto, superato quella televisiva (del
tipo “Reality Show”) e ne rappresenti lo sviluppo successivo. Per capirci, Facebook, Bebo.com
e, per certi versi, YouTube.
Quando ho segnalato questa tendenza ad “apparire” sui
media – soprattutto in Tv, in programmi dedicati – nel mio
saggio Società digitali (Liguori, 2007), ritenevo che l'idea di mostrarsi in un
contesto pubblico, mettendosi al centro dell'attenzione, non fosse che il
frutto del desiderio di uscire dall'anonimato, dimostrare di “esserci” in un mondo
che cancella le differenze, ignora e isola gli individui. Invece le
considerazioni di Bauman, già in apertura di Consumo, dunque sono, inducono a
guardare ben oltre: l'apparire non è allora uno scopo, ma un mezzo. Un modo di
vendersi sul mercato dell'esistenza, di essere considerato necessario dagli
altri. Un farsi “individuo-merce”. Perché il valore non è dato soltanto da
quanto la società è disposta a pagare per averti, ma anche da quanto puoi
spendere dentro questa stessa società per contribuire a mantenerla. Un circolo
vizioso che si alimenta all'infinito.
1. Leggere
Bauman è un'esperienza creativa. È uno di quei rari
pensatori che sono vere “incubatrici” di pensiero: ascolti le loro osservazioni,
all'apparenza innocue e pacate, e ti si aprono orizzonti di complessità,
collegamenti inaspettati, soluzioni a cui non avresti mai pensato. Uno di quei
rari pensatori che sono capaci di “ generare senso” in chi li ascolta,
autorevoli testimoni del loro tempo. E testimone del nostro tempo Bauman lo è senza dubbio, essendo ormai considerato come
il più significativo maître à penser della crisi di passaggio tra il
xx e il xxi secolo.
Gli elementi
di crisi tra i due secoli si possono così sintetizzare:
a.
La fine delle ideologie (a
partire dagli anni Settanta, secondo la ben nota interpretazione di J.-F. Lyotard);
b.
La prevalenza dell'individualismo;
c.
La crisi del lavoro
(passaggio al lavoro immateriale: J. Rifkin, R. Sennett);
d.
La globalizzazione;
e.
La de-localizzazione del potere (crisi della democrazia);
f.
La demassificazione (fine della società di massa ed emergenza delle
moltitudini)
Senza
dimenticare che le nuove tecnologie (da cui discende in gran parte il lavoro
immateriale) e lo sviluppo delle comunicazioni a livello planetario hanno il
loro peso in questa trasformazione.
2. A Bauman sono state poste alcune
domande su temi di scottante attualità, che vanno dai problemi
dell'immigrazione al ruolo dell'Europa, dalle rivoluzioni alle speranze dei
giovani: tutti argomenti già trattati nei suoi testi e che attendono un
adeguato approfondimento in quelli a cui sta ancora lavorando. Ma vorrei
soffermarmi su alcuni punti focali che ritengo estremamente interessanti e che
riguardo specificamente il ruolo della religione nella globalizzazione, la
questione della povertà e della crisi della democrazia nella società occidentale.
Perché
il ritorno al sacro è una delle risposte possibili al problema della globalizzazione?
Coerentemente con la crisi delle ideologie che ha segnato la nascita del
postmodernismo, Bauman rileva come il bisogno di
stabilità e di sicurezza si traduca in un recupero della spiritualità “slegata
da ogni riferimento temporale”. Per comprendere questo fenomeno non bisogna
dimenticare che la crisi delle ideologie – un fenomeno nato con l'Illuminismo –
equivale a una crisi del razionalismo. Così il recupero dei valori religiosi
rappresenta il bisogno di fiducia, non più razionalizzato, riposto in un valore
trascendentale. Ciò anche per contrastare l'individualismo esasperato nella
fase della demassificazione.
3. La
nuova povertà. È un tema relativamente nuovo in Bauman,
affrontato nei testi più recenti dove tratta del consumismo; un tema gravido di
sviluppi sociologici molto significativi.
Si parte
dal presupposto che la povertà sia l'unico elemento “solidificato” in una
società liquida, esasperata dall'incertezza e dall'instabilità. I poveri sono
coloro che, al contrario delle classi medie, soffrono di una stabilità forzata,
che non hanno nulla da perdere (proprio come i proletari del “Manifesto” di Marx), che sono sicuri delle loro
condizione e non hanno speranze di miglioramento. Non hanno neppure il diritto
di definirsi “classe” sociale (al limite una “sottoclasse”), perché non entrano
nel processo produttivo. Il proletariato è invece “classe” sociale perché caratterizzato
dal “lavoro”, dalla capacità di produrre ricchezza (il plusvalore). Il lavoro
rappresenta la dignità del'esistenza e il principio dell'identità umana nella
società industrializzata.
Privati
invece del lavoro (e della dignità del lavoro), i poveri perdono anche la
consolazione dell'utopia socialista. Eppure la loro è una condizione, a suo
modo, privilegiata. Un punto d'arrivo necessario (tragicamente necessario) per
le classi medie, che vanno perdendo la loro sicurezza, rappresentata dalla
professionalità, dal risparmio, dalla sicurezza sociale, dai servizi, dai
diritti acquisiti, dal potere d'acquisto, dalle pensioni. È la nuova “filosofia
della spoliazione”, propria di una società in cui la povertà può diventare uno
“status” riconosciuto.
Povero è
bello. Il futuro è insomma destinato a rivalutare la povertà, laddove si
realizza il motto evangelico “Beati i poveri, perché di essi sarà il regno dei
cieli”.
4. “Non
ci sono culture superiori in cui integrarsi”, osserva Bauman.
Il nomadismo moderno richiede il riconoscimento delle diversità. Ma il discorso sull'immigrazione si presta a
un'interpretazione molto più radicale. Non basta parlare dell'utilità di coloro
che arrivano, senza i quali le industrie e i servizi non potrebbero funzionare.
Il problema di base sta nella de-territorializzazione,
cioè nella rottura del legame privilegiato col territorio in cui viviamo. Della
stanzialità come diritto acquisito: la stanzialità, questo principio della modernità che è ora
messo in discussione dal postmoderno.
Le
popolazioni arcaiche cercavano di legarsi al territorio, rinunciando al
nomadismo, per sviluppare l'economia agricola e difendersi dai nemici (le città
come luoghi sicuri, protetti e fortificati). Da qui due posizioni di principio
che si sono confrontate fin dall'antichità, e che vedono opporsi coloro che
propendono per la salvaguardia del proprio territorio, in quanto rappresentativo
delle tradizioni e della cultura (“il sangue e il suolo”), e coloro che
guardano invece allo scambio delle culture come mezzo di crescita e di sviluppo.
L'evolversi
della modernità ha confermato la progressiva necessità di questa seconda
ipotesi. Il che significa che non vi è più un diritto superiore che giustifichi
l'occupazione di un territorio. Nella globalizzazione il diritto di vivere il territorio
si espande, supera le frontiere, comprende l'intero pianeta, e forse anche
qualcosa di più. È il diritto alla vita di manifestarsi, di esistere e di
godere di un proprio spazio funzionale.
5. Crisi della democrazia. Non esiste più
la possibilità di ricorrere alle Rivoluzioni, ricorda Bauman,
poiché non vi sono simboli di potere da abbattere. Grazie al processo di
globalizzazione (negativa) il potere si è diffuso nel pianeta, non è più
“localizzato” in un luogo definito. Si trova in un “non-luogo”, come direbbe
Marc Augé. Le condizioni d'incertezza, la solitudine
e la paura per il futuro del cittadino globale non trovano soluzione nelle
istituzioni: “La società non è più protetta dallo Stato: è esposta alla
rapacità di forze che non controlla” (Modus
vivendi, Laterza, 2007, p. 26).
È la fine delle nazioni, dello Stato moderno
così come si è andato formando fin dalla seconda metà del
xvii secolo (cfr. Hobbes) e che ha segnato la nascita
della modernità occidentale. Ne parla Hobsbawm nel
suo provocatorio libriccino, La fine
dello Stato (Rizzoli, 2007).
Quella
della separazione tra politica e potere al tempo della globalizzazione è infatti una delle più grandi intuizioni di Bauman.
Il
potere è slittato di livello, si è sottratto al controllo dei cittadini: qui
sta il nucleo fondamentale della crisi della democrazia (il riferimento
d'obbligo è alla discussione tra democrazia
e rappresentanza già sollevato dal
Rousseau nel xviii secolo).
Votiamo per governi, per rappresentanti politici che non hanno più il potere di
fare, né di prendere decisioni adeguate. Perché il potere è altrove. In un
pianeta vittima della globalizzazione negativa, tutti i problemi di fondo sono
globali, ed essendo globali, non ammettono soluzioni locali.
L'unica
speranza è nella coscienza individuale, nel rispetto di sé e degli altri.
Uguali e diversi, all'interno di una società complessa, composta non più di
masse omologate, né di individui isolati, ma formata da una rete di moltitudini in grado di dialogare e di
crescere.