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  Letteratura  »  Le distopie di Margaret Atwood, un articolo di Carlo Bordoni sulla scrittrice canadese 14/05/2009
 

Le distopie di Margaret Atwood

di Carlo Bordoni

 

1.   L'ultimo degli uomini

Sempre più frequentemente la narrativa distopica racconta di un mondo assai prossimo al nostro, al punto da essere confuso con il presente, quasi un mondo parallelo, dove certe opzioni si sono rivelate temibili o certe scelte, in sé giudicate favorevoli o neutre, si sono rivelati devastanti. In questi romanzi, come in L'ultimo degli uomini (tit. orig. Oryx and Crake, Ponte alle Grazie, 2003) di Margaret Atwood, il motivo scatenante del disastro è fornito da un presupposto a fin di bene: così come nel detto biblico “la via dell'inferno è lastricata di buone intenzioni”,  anche le più orribili distopie sono derivate da quella che (in apparenza) si definisce una giusta causa. In genere una lucida “teleologia”, che ricerca la felicità degli uomini nell'abbattimento degli ostacoli che vi si frappongono: la liberazione dalla fatica, dal dolore, l'allungamento della vita media, la cura delle malattie, l'energia a buon mercato, la produzione di alimenti più abbondanti, il controllo sociale, il contenimento dell'aggressività umana e, last but not least, l'arricchimento personale.

Anche il romanzo della Atwood non sfugge a questa regola e coglie appieno una delle questioni più sentite e dibattute nel nostro tempo, quella della manipolazione genetica. Sia essa per modificare lo sviluppo dei prodotti agricoli (O.G.M.) sia per migliorare il DNA animale o umano. Oppure entrambi, visto che, attraverso la catena alimentare, ogni variazione genetica dei prodotti naturali è destinata a influire sull'uomo. Tant'è che nella manipolazione progettata da Crake, il protagonista assente del romanzo, il responsabile principale dell'effetto distopico, tutto passa attraverso l'alimentazione. Il cibo è lo strumento principe di ogni modificazione interiore (siamo ciò che mangiamo, è davvero il caso di dire), il tramite subdolo e inconsapevole attraverso il quale si instaura la differenza, matura il cambiamento dall'interno, deriva la mutazione dalle conseguenze letali. Il ricorso al cibo, oltre che palesemente simbolico – in riferimento alle attuali coltivazioni degli OGM – è il segno di un cambiamento nelle tradizionali modalità utilizzate in letteratura per scopi del genere, normalmente di natura esterna. Si pensi all'intruglio chimico del dottor Jekyll o dell'elettricità di Frankenstein, ma anche successivamente, agli effetti delle contaminazioni radioattive o virali prodotte da una scienza il cui controllo è sfuggito all'uomo.

La Atwood supera la straordinarietà dello strumento, che diventa qui interiore, o meglio, normale, facente parte della quotidianità, dei bisogni essenziali alla vita, ma l'alimentazione, nella prassi legata alla soddisfazione e al piacere, nasconde un effetto letale, catastrofico e rovinoso, al punto da coinvolgere chi l'ha inventato.

L'obiettivo della Atwood è chiaro: non una condanna verso la mutazione genetica, ma un rimpianto, un dolore insostenibile, che preconizza una visione del mondo. È vero che il processo di interferenza è da sempre una condizione essenziale della scienza, che non può fare a meno di esperire un'evoluzione a favore dell'umano: vaccini, medicinali, trapianti, fino a sconvolgere la natura e l'uomo stesso nel suo nucleo genetico. La Atwood si limita a raccontare la delusione per un'utopia fallita, descrivendo le conseguenze perverse delle ricerche condotte in campo genetico e finalizzate a risolvere il problema del trapianto di organi, che mettono in moto un meccanismo inarrestabile dalle conseguenze imprevedibili.

C'è da domandarsi, inoltre, se la narrativa distopica, con i suoi presagi apocalittici, abbia contribuito al formarsi di una coscienza critica; se abbia inciso, in qualche misura, nelle scelte dell'uomo. Indubbiamente si potrà riconoscere quanto l'incisività e l'impatto psicologico del Grande Fratello (da 1984 di Orwell) abbia sensibilizzato, e quasi vaccinato, l'opinione pubblica in merito al controllo occulto della vita privata dei cittadini da parte del sistema. Oppure il fatto che in troppi abbiano cantato l'Apocalisse, come ha scritto Hans Magnus Enzensberger, ne ha smorzato gran parte del suo fascino? In fondo, chi ha paura della fine del mondo, se a evocarla è uno scrittore di fantascienza?

 

2.      Il racconto del'ancella

Nell'altro romanzo distopico, Il racconto dell'ancella (tit. orig. The Handmaid's Tale, TEA, 2007), Margaret Atwood propone un mondo desolato e in via d'estinzione, dove le guerre nucleari hanno causato, non solo morte e distruzione, ma anche la sterilità: la minaccia più grave, che mette in pericolo la continuità della specie. Nella società del futuro, costretta a recuperare i valori del passato per sopravvivere e a riqualificare il tasso delle nascite come speranza estrema (quasi contraddicendo molta letteratura distopica, a cominciare da Blade Runner di Philip Dick, in cui la minaccia più grande proviene proprio dalla sovrappopolazione), la funzione della donna è forzatamente ricondotta al ruolo di madre. Un ruolo passivo e strumentale che appare giustificabile dall'emergenza, ma che consente il riproporsi di una società patriarcale dispotica e assoluta, il cui unico scopo è quello di riprodursi. Galaad è il paese immaginario di un futuro non troppo lontano, chiuso al mondo esterno per motivi di sicurezza (proprio come nei “recinti” dell'Ultimo degli uomini): la chiusura, come le mura che circondano le cittadine medievali, ha uno scopo immediato e intuibile – preservarsi dagli assalitori e impedire che la guerra travolga la città – ma si risolve di fatto nell'impossibilità di scambi e di comunicazioni, in una forte limitazione della libertà personale, in una sensazione di oppressione, per giunta aumentata da un controllo vigile e ossessivo. Un occhio, come quello di Orwell in 1984, che osserva tutto e tutti e controlla, con meticolosa puntualità, il minimo gesto compiuto all'interno della vita privata di ognuno.

In una siffatta società, dominata dal sospetto e dalla minaccia dell'estinzione, le donne riassumono ruoli e funzioni arcaiche, valutate in base alla loro capacità di riprodursi, sulla falsariga delle società tribali. L'uomo (il Comandante, sempre vestito di nero), al centro del contesto sociale, è il dominatore della società, responsabile dei processi e del raggiungimento degli obiettivi vitali; è affiancato, in una sorta di famiglia allargata, da una serie di figure femminili che lo accudiscono e che si identificano per il colore delle vesti. La moglie, il cui colore caratteristico è il blu, in genere non è in grado di generare per effetto dell'inquinamento atomico, ma è coadiuvata, per questa bisogna, dalle “ancelle” in tunica rossa, ancora fertili e dunque preziosissime per la continuità della specie. Esse assumono il nome del Comandante – come Difred, la protagonista – a sottolineare la loro completa dipendenza e la spersonalizzazione di sé. Ma le ancelle suppliscono solamente all'impotenza della moglie legittima e sono costrette a concedere il loro corpo per la buona causa, accoppiandosi e partorendo in presenza delle mogli; i figli saranno loro sottratti e cresciuti altrove.

Accanto alle ancelle, vere schiave del sesso, si muovono discretamente altre figure femminili di supporto: le donne di servizio, vestite di verde, e le zie, vestali di una nuova religione, vestite di bianco. Chiaro il ritorno al passato con la suddivisione in caste, evidenziate dai colori delle vesti, e dall'utilizzo privilegiato delle tuniche, ad un tempo nascondimento del corpo e richiamo a una classicità, a una sacralità semplificata nei simboli esteriori, che sono caratteri propri di molta parte della narrativa distopica, il cui il mondo stravolto da una tecnologia disumanizzante, recupera schemi e strutture dell'antico, nel tentativo di recuperare la purezza delle origini.

Anche il lenzuolo bianco che ricopre Snowman è, a suo modo, una tunica che richiama l'essenzialità del vestire propria delle origini, accompagnata dal rifiuto di ogni indumento moderno, giudicato costrittivo, come le scarpe: evidenzia il rifiuto di qualsiasi feticcio della civiltà e il ritorno alla natura, sia pure forzato dagli eventi. Si palesa nel rifugiarsi nei luoghi un tempo considerati ostili – la spiaggia, i cespugli, gli alberi – e denota l'attaccamento alla vita, il desiderio profondo di una nuova nascita, il rifiuto di ogni forma che sia collegabile al mondo degradato che si è lasciato alle spalle.

Interessante il confronto con il più recente romanzo della Atwood, Il canto di Penelope (tit. orig. The Penelopiad, Rizzoli, 2005), che reinterpreta il mito di Odisseo attraverso gli occhi di Penelope. Anche qui la simbologia dell'originario è evidente, e rende perfettamente conto delle idee dell'Autrice in merito all'imperfezione del nostro mondo. Anche qui le ancelle, amanti dei Proci, rappresentano una femminilità passiva e inconsapevole, che la furia di Ulisse, dominatore violento, nel suo proposito di affermazione e di restaurazione di un potere assoluto, stermina con determinazione, assieme ai pretendenti alla mano della fedele moglie.

Se il mito di Penelope prelude a un futuro di oppressione della femminilità, chiudendo il romanzo con un orizzonte gravato di oscuri presagi, nei romanzi Il racconto dell'ancella e L'ultimo degli uomini, assistiamo almeno all'apertura di uno spiraglio di speranza: Snowman prelude alla rinascita di una nuova umanità, laddove l'umile ancella Difred si prepara a riacquistare la libertà perduta, uscendo dall'incubo di Galaad e aprendosi a una nuova esperienza di vita. Registra un ottimismo di fondo che traspare pur nella rappresentazione di una distopia in cui la dignità umana è calpestata in funzione di un sistema assolutistico.

È evidente che ne L'ultimo degli uomini ogni speranza di fuga è preclusa: non ci sono altrove in cui rifugiarsi. Il pessimismo della Atwood si è fatto più amaro con gli anni, rispetto a ciò che ci attende nel domani. A questo peggioramento non possono non essere estranei i fatti dell'11 settembre 2001, dell'attacco terroristico alle Torri Gemelle di New York. Ne parla nella nota autobiografica riportata nel Capitolo Sesto, dalla quale si apprende che la notizia dell'attentato terroristico l'ha raggiunta mentre attendeva di salire su un aereo a Toronto, proprio mentre stava lavorando al suo secondo romanzo. Un segno impressionante che dimostra quanto ogni immaginazione distopica sia prossima alla realtà.

 

 
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