Le distopie di Margaret Atwood
di Carlo Bordoni
1. L'ultimo degli uomini
Sempre più frequentemente la narrativa distopica
racconta di un mondo assai prossimo al nostro, al punto da essere confuso con
il presente, quasi un mondo parallelo, dove certe opzioni si sono rivelate
temibili o certe scelte, in sé giudicate favorevoli o neutre, si sono rivelati
devastanti. In questi romanzi, come in L'ultimo
degli uomini (tit. orig. Oryx and Crake, Ponte alle Grazie, 2003) di
Margaret Atwood, il motivo scatenante del disastro è
fornito da un presupposto a fin di bene: così come nel detto biblico “la via
dell'inferno è lastricata di buone intenzioni”, anche le più orribili distopie sono
derivate da quella che (in apparenza) si definisce una giusta causa. In genere
una lucida “teleologia”, che ricerca la felicità degli uomini nell'abbattimento
degli ostacoli che vi si frappongono: la liberazione dalla fatica, dal dolore,
l'allungamento della vita media, la cura delle malattie, l'energia a buon
mercato, la produzione di alimenti più abbondanti, il controllo sociale, il
contenimento dell'aggressività umana e, last
but not least,
l'arricchimento personale.
Anche il romanzo della Atwood non sfugge a questa regola e coglie appieno una
delle questioni più sentite e dibattute nel nostro tempo, quella della
manipolazione genetica. Sia essa per modificare lo sviluppo dei prodotti
agricoli (O.G.M.) sia per migliorare il DNA animale o
umano. Oppure entrambi, visto che, attraverso la catena alimentare, ogni
variazione genetica dei prodotti naturali è destinata a influire sull'uomo.
Tant'è che nella manipolazione progettata da Crake,
il protagonista assente del romanzo, il responsabile principale dell'effetto distopico, tutto passa attraverso l'alimentazione. Il cibo
è lo strumento principe di ogni modificazione interiore (siamo ciò che
mangiamo, è davvero il caso di dire), il tramite subdolo e inconsapevole
attraverso il quale si instaura la differenza, matura il cambiamento
dall'interno, deriva la mutazione dalle conseguenze letali. Il ricorso al cibo,
oltre che palesemente simbolico – in riferimento alle attuali coltivazioni
degli OGM – è il segno di un cambiamento nelle tradizionali modalità utilizzate
in letteratura per scopi del genere, normalmente di natura esterna. Si pensi
all'intruglio chimico del dottor Jekyll o
dell'elettricità di Frankenstein, ma anche successivamente, agli effetti delle
contaminazioni radioattive o virali prodotte da una scienza il cui controllo è
sfuggito all'uomo.
La Atwood supera la straordinarietà dello
strumento, che diventa qui interiore, o meglio, normale, facente parte della
quotidianità, dei bisogni essenziali alla vita, ma l'alimentazione, nella
prassi legata alla soddisfazione e al piacere, nasconde un effetto letale,
catastrofico e rovinoso, al punto da coinvolgere chi l'ha inventato.
L'obiettivo della Atwood
è chiaro: non una condanna verso la
mutazione genetica, ma un rimpianto, un dolore insostenibile, che
preconizza una visione del mondo. È vero che il processo di interferenza è da
sempre una condizione essenziale della scienza, che non può fare a meno di
esperire un'evoluzione a favore dell'umano: vaccini, medicinali, trapianti,
fino a sconvolgere la natura e l'uomo stesso nel suo nucleo genetico. La Atwood si limita a raccontare
la delusione per un'utopia fallita, descrivendo le conseguenze perverse delle
ricerche condotte in campo genetico e finalizzate a risolvere il problema del
trapianto di organi, che mettono in moto un meccanismo inarrestabile dalle
conseguenze imprevedibili.
C'è da domandarsi, inoltre, se la narrativa distopica,
con i suoi presagi apocalittici, abbia contribuito al formarsi di una coscienza
critica; se abbia inciso, in qualche misura, nelle scelte dell'uomo.
Indubbiamente si potrà riconoscere quanto l'incisività e l'impatto psicologico
del Grande Fratello (da 1984 di
Orwell) abbia sensibilizzato, e quasi vaccinato, l'opinione pubblica in merito
al controllo occulto della vita privata dei cittadini da parte del sistema.
Oppure il fatto che in troppi abbiano cantato l'Apocalisse, come ha scritto
Hans Magnus Enzensberger, ne ha smorzato gran parte
del suo fascino? In fondo, chi ha paura della fine del mondo, se a evocarla è
uno scrittore di fantascienza?
2. Il racconto del'ancella
Nell'altro romanzo distopico, Il racconto dell'ancella (tit. orig. The Handmaid's Tale, TEA, 2007), Margaret Atwood propone un mondo desolato e in via d'estinzione,
dove le guerre nucleari hanno causato, non solo morte e distruzione, ma anche
la sterilità: la minaccia più grave, che mette in
pericolo la continuità della specie. Nella società del futuro, costretta a
recuperare i valori del passato per sopravvivere e a riqualificare il tasso
delle nascite come speranza estrema (quasi contraddicendo molta letteratura distopica, a cominciare da Blade Runner di Philip Dick, in cui la
minaccia più grande proviene proprio dalla sovrappopolazione), la funzione
della donna è forzatamente ricondotta al ruolo di madre. Un ruolo passivo e
strumentale che appare giustificabile dall'emergenza, ma che consente il
riproporsi di una società patriarcale dispotica e assoluta, il cui unico scopo
è quello di riprodursi. Galaad è il paese immaginario
di un futuro non troppo lontano, chiuso al mondo esterno per motivi di
sicurezza (proprio come nei “recinti” dell'Ultimo
degli uomini): la chiusura, come le mura che circondano le cittadine
medievali, ha uno scopo immediato e intuibile – preservarsi dagli assalitori e
impedire che la guerra travolga la città – ma si risolve di
fatto nell'impossibilità di scambi e di comunicazioni, in una forte
limitazione della libertà personale, in una sensazione di oppressione, per
giunta aumentata da un controllo vigile e ossessivo. Un occhio, come quello di
Orwell in 1984, che osserva tutto e
tutti e controlla, con meticolosa puntualità, il minimo gesto compiuto
all'interno della vita privata di ognuno.
In una siffatta società, dominata dal sospetto e dalla minaccia
dell'estinzione, le donne riassumono ruoli e funzioni arcaiche, valutate in
base alla loro capacità di riprodursi, sulla falsariga delle società tribali.
L'uomo (il Comandante, sempre vestito di nero), al centro del contesto sociale,
è il dominatore della società, responsabile dei processi e del raggiungimento
degli obiettivi vitali; è affiancato, in una sorta di famiglia allargata, da
una serie di figure femminili che lo accudiscono e che si identificano per il
colore delle vesti. La moglie, il cui colore caratteristico è il blu, in genere
non è in grado di generare per effetto dell'inquinamento atomico, ma è
coadiuvata, per questa bisogna, dalle “ancelle” in tunica rossa, ancora fertili
e dunque preziosissime per la continuità della specie. Esse assumono il nome
del Comandante – come Difred, la protagonista – a
sottolineare la loro completa dipendenza e la spersonalizzazione di sé. Ma le
ancelle suppliscono solamente all'impotenza della moglie legittima e sono
costrette a concedere il loro corpo per la buona causa, accoppiandosi e
partorendo in presenza delle mogli; i figli saranno loro sottratti e cresciuti
altrove.
Accanto alle ancelle, vere schiave del sesso, si muovono
discretamente altre figure femminili di supporto: le donne di servizio, vestite
di verde, e le zie, vestali di una nuova religione, vestite di bianco. Chiaro
il ritorno al passato con la suddivisione in caste, evidenziate dai colori
delle vesti, e dall'utilizzo privilegiato delle tuniche, ad un tempo
nascondimento del corpo e richiamo a una classicità, a una sacralità
semplificata nei simboli esteriori, che sono caratteri propri di molta parte
della narrativa distopica, il cui il mondo stravolto
da una tecnologia disumanizzante, recupera schemi e strutture dell'antico, nel
tentativo di recuperare la purezza delle origini.
Anche il lenzuolo bianco che ricopre Snowman
è, a suo modo, una tunica che richiama l'essenzialità del vestire propria delle
origini, accompagnata dal rifiuto di ogni indumento moderno, giudicato
costrittivo, come le scarpe: evidenzia il rifiuto di qualsiasi feticcio della
civiltà e il ritorno alla natura, sia pure forzato dagli eventi. Si palesa nel
rifugiarsi nei luoghi un tempo considerati ostili – la spiaggia, i cespugli,
gli alberi – e denota l'attaccamento alla vita, il desiderio profondo di una
nuova nascita, il rifiuto di ogni forma che sia collegabile al mondo degradato
che si è lasciato alle spalle.
Interessante il confronto con il più recente romanzo della Atwood, Il canto di Penelope (tit. orig. The Penelopiad,
Rizzoli, 2005), che reinterpreta il mito di Odisseo
attraverso gli occhi di Penelope. Anche qui la simbologia dell'originario è
evidente, e rende perfettamente conto delle idee dell'Autrice in merito
all'imperfezione del nostro mondo. Anche qui le ancelle, amanti dei Proci,
rappresentano una femminilità passiva e inconsapevole, che la furia di Ulisse,
dominatore violento, nel suo proposito di affermazione e di restaurazione di un
potere assoluto, stermina con determinazione, assieme ai pretendenti
alla mano della fedele moglie.
Se il mito di Penelope prelude a un futuro di oppressione della
femminilità, chiudendo il romanzo con un orizzonte gravato di oscuri presagi,
nei romanzi Il racconto dell'ancella
e L'ultimo degli uomini, assistiamo
almeno all'apertura di uno spiraglio di speranza: Snowman
prelude alla rinascita di una nuova umanità, laddove l'umile ancella Difred si prepara a riacquistare la libertà perduta,
uscendo dall'incubo di Galaad e aprendosi a una nuova
esperienza di vita. Registra un ottimismo di fondo che traspare pur nella
rappresentazione di una distopia in cui la dignità umana è calpestata in
funzione di un sistema assolutistico.
È evidente che ne L'ultimo degli uomini ogni speranza di fuga è preclusa: non ci sono
altrove in cui rifugiarsi. Il pessimismo della Atwood si è fatto più amaro con gli anni, rispetto a ciò
che ci attende nel domani. A questo peggioramento non possono non essere
estranei i fatti dell'11 settembre 2001, dell'attacco terroristico alle Torri
Gemelle di New York. Ne parla nella nota autobiografica riportata nel Capitolo Sesto, dalla quale si apprende che la notizia
dell'attentato terroristico l'ha raggiunta mentre attendeva di salire su un
aereo a Toronto, proprio mentre stava lavorando al suo secondo romanzo. Un
segno impressionante che dimostra quanto ogni immaginazione distopica
sia prossima alla realtà.