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  Letteratura  »  Vento giallo in un campo grigio, di Sergio Sozi 16/09/2009
 

Questo articolo è stato scritto nel 2006, per il primo anniversario della morte del poeta.

 

Vento giallo in un campo grigio

Il furore neoespressionistico di Dane Zajc (1929 – 2005)

 

di Sergio Sozi

 

''Solo nell'annientamento c'è pace e amore, / solo nell'annientamento c'è infinita fedeltà, / le cose morte amano con la pace dell'eternità'' (da ''Essere una goccia'' – trad. Jolka Milič).

Quando si parla di un poeta contemporaneo, in genere è quasi impossibile dire qualcosa di chiaro e netto: quel poco di lucidità che resta all'oggetto del discorrere viene sempre irrimediabilmente compromesso dalla confusione cerebrale di chi lo commenta. Cercheremo dunque, a proposito del celebre poeta lubianese scomparso il 20 ottobre dell'anno scorso, di evitare il chiacchiericcio che le nostre (diaboliche) tentazioni omni-analitiche ci proporrebbero, per cercare di rendere questo articolo qualcosa di limpido, essenziale e possibilmente esente da paroloni usati a sproposito – infatti, purtroppo, oggi, la moda della critica poetica resta sempre questa assurda replica in peggio dell'opera originale.

Dane Zajc, appunto, parla da sé, con la propria opera, e se non fosse che in Italia è quasi sconosciuto, non servirebbe a nulla scriverne a riguardo. E se non fosse, inoltre, che qualcosa di Zajc andrebbe chiarito più per il sottoscritto che per il lettore di questo pezzo giornalistico, sarebbe meglio semplicemente cercare di auspicare in Italia una (almeno tardiva) pubblicazione di qualcosetta dei suoi quasi cinquant'anni di poesie che nessuno, causa cecità editoriale, può leggere (la prima raccolta, ''Požgana trava'' – ''Erba bruciata'' – è del 1958: a quella ne seguiranno una quarantina d'altre) e chiudere qua.

Ma Dane Zajc si ribella; sì: la sua tremenda sete di silenzio non riesce tuttora a sopportare l'urto delle armate alfabetiche che lo sedussero, nonostante egli, un giorno, non rintracciasse queste ultime verso la fine di una nottata di febbrile scrittura: ''Dove sono tutte le parole. / Chi le esumerà dall'humus delle tenebre / Quando sull'orlo dell'oscurità / farà capolino come una rosea formichina / l'aurora.'' (Da ''Le dita del mattino'', trad. Cit.). Dunque, prima di tornare al centrale nodo critico dell'intima collisione fra espressione e inespressione, credo che anche a noi verrà perdonato il dispendio di qualche informazione suppletiva su questo importante autore, studiato in Slovenia anche a scuola da lustri.

Dane Zajc nacque il 26 ottobre del 1929 nel paesino sloveno di Zgornja Javoršica, presso Moravče, e fu collaboratore di molte fra le più importanti riviste culturali di quel Paese (Beseda, Revija 57, Perspektive, Problemi, Nova revija), così conoscendo intellettuali del calibro del poeta Boris A. Novak – oggi molto noto in diversi Paesi – del pittore Jože Tisnikar e del poeta e traduttore Niko Grafenauer – l'attuale direttore della Nova revija. Nel 1981 vinse il maggior premio sloveno, quello intitolato a France Prešeren – il poeta nazionale sloveno autore fra l'altro dell'Inno Nazionale. Visse sempre lavorando come bibliotecario a Lubiana. Oltre alla produzione lirica (alla citata ''Požgana trava'' del 1958 seguirono ''Jezik iz zemlje'' – ''Lingua di terra'' – del 1961, ''Ubijavci kač'' – ''Uccisori di serpenti'' – del 1968, ''Kepa pepela'' – ''Grumo di cenere'' – del 1984 e tanti altri) non di minor interesse sono le sue opere teatrali (i drammi lirici come ''Otroka reke'' – ''Figli del fiume'' – del 1963; le drammatizzazioni poetiche di miti pubblicate fra la fine degli anni '80 e la metà dei '90: ''Kalevala'', ''Medea'', ''La giovane Breda'') e i libri di favole per bambini (ricordiamo ''Hiša'' – ''Casa'' – del 1990).

Ed ora, almeno in parte assolti i doveri bio-bibliografici, torniamo al silenzio, che qui intenderemo come mera assenza di formalizzazione estetico-letteraria del pensiero e delle sensazioni – ovvero, in soldoni, di tutto quanto la vita ci conceda di capire di essa.

Infatti, la lotta fra un poeta e il suo personale silenzio sarebbe degna di un poema epico fiume, coi suoi impercettibili movimenti, gli inganni reciproci, i temporeggiamenti e l'invio di ipocrite ambasciate. Ma, fra i verbi di Zajc, troppo sonori sono i – seppur lugubri – lucori delle tinte, per saper soggiacere ad un qualsiasi silenzio… meglio mettere nel cuore dei colori dell'iride un'essenza primordiale di tenebra piuttosto che rifiutarne in toto la presenza: ''Occhi verdi tra gli alberi. / Occhi giallastri nell'erba. / Occhi rossi tra i giunchi.'' (da ''Occhi invisibili'', trad. Cit.): sono gli occhi dei leoni che ''bevono il chiaro di luna'' e che ''sulla nera tovaglia della notte'' banchetteranno con ognuno di noi, alla fine della passeggiata. Pertanto il silenzio viene comunque, nevvero? Chi crede di scansarlo è come se volesse evitare di accettare almeno una parola dentro di sé nel corso dell'intero suo cammino esistenziale: cose impossibili entrambe. Come impossibile è dire quel che in verità si vorrebbe dire: bisogna accontentarsi di ''Una lingua che parla parole d'argilla'' (da ''Grumo di cenere'', trad.cit.), parole fantasmatiche per arlecchinesche macchie di colore: il tutto mai veramente tangibile, mai diremmo catullianamente carnale (''Odi et amo / Quare id faciam fortasse requiris / Nescio sed fieri sentio et excrucior''…).

Ecco, bene (e scusatemi ora per la stridente associazione con il Romano): colori privi di cuore umano, quelli di Zajc, anzi, meglio, pervasi ovunque di funerei sentori: ''Tu sei morto, dissero / le verdi facce. Mille volte morto, / scandirono i lunghi denti giallognoli / nel cimitero sotto le nude cosce della montagna. / E io andai avanti.'' (Da ''Incontro'', Trad. Cit.). Qui a parlargli sono le sue proprie ''facce morte'', quando egli le incontra, come si incontrano le anime prave dantesche, lungo la propria strada. Autoritrattismo oltretombale un po' compiaciuto ma anche lirismo puro. Cieco lirismo, mascherato da movimento vitale e estremo nella follia immaginativa, sovrabbondante spesso, quasi nauseante per l'affollamento di metafore e iperboli, e per l'astrattismo, l'abuso simbolico generalizzato in quasi ogni pennellata. Ecco perché, a ragione, si parla di Zajc come di un neoespressionista. Potente ma stremato e stancante, aggiungeremmo noi.

Un poeta importante e vero, ma anche indiscutibilmente pretenzioso, a tratti, quasi forzato; come in questi versi, al contempo profondi, germanicamente romantici ed esagerati, dove si descrive una donna affogata: ''Acqua. Le ombre fuggono oltre gli occhi del fiume. / I bianchi fiori della spuma cominciano a fiorire / sul nero volto del gorgo. / Migliaia di piccole ore si diffondono nelle tue orecchie. / Le loro voci hanno le soffici zampette brune dei ragni.'' (Da ''L'annegata'', trad. Cit.).

Mitteleuropa da Cripta dei Cappuccini viennese all'ennesima potenza, a farne un bilancio un po' superficiale. O meglio: una decostruzione sistematica dell'intero immaginario poetico e comune sloveno (e non solo) preso lemma per lemma, come a voler ossessivamente addossare a qualsiasi espressione verbale della propria cultura d'area le proprie irresolutezze.

Così sembra che pressoché tutta la lunga e affascinante opera (sia linguistico-estetica che spiritual-concettuale) di questo autore ci appaia alla luce di una sua, quasi onanistica, sofferta degustazione dell'assurdo e dell'iperproduzione di significati, in un teatrino ove dominino la costante lotta contro la paura della luce/vita, la mancanza assoluta di una qualsivoglia Fede ultraterrena e, assieme, la brutale sensazione di dominio della Morte, variamente trasfigurata ma sempre, quasi maniacalmente, presente e sovente parlante: ''Dovrai ascoltarmi. / Perché io sono il ritmo. / Io sono la luce nel cielo. / Una luce tenebrosa nel cielo della tua fuga.'' (Da ''I tamburi'', trad. Cit.).

Una intelligenza fervida, esteticamente molto meglio sfruttata, a nostro avviso, quando prende queste (pur atroci e nichilistiche) forme: ''Un giorno le cose cambieranno i nomi, / allora la pietra sarà odio, il vento orrore, / la strada sarà paura, gli uccelli ti infiggeranno nella fronte / i pungenti chiodi delle loro voci, il fiume sarà disperazione, / i tuoi oggetti saranno la tua colpa e i tuoi accusatori. / Il mondo sarà distrutto. Il mondo sarà senza nome.'' (Da ''Non ci sei'', trad. Cit.).

In conclusione, almeno per adesso, ripeteremo: ''La cosmologia di Zajc unisce l'idealismo disincantato della religiosità con l'effettiva mancanza di risposte metafisiche'', esatte parole della critica slovena Barbara Pogačnik, la quale conclude con un suo ponderoso saggio il volume da cui abbiamo tratto le sovracitate liriche (''Fuoco e cenere'', traduzione di Jolka Milič, postfazione di Barbara Pogačnik, Slovene Writers' Association – Slovene P.E.N., Lubiana 2004).

Come non darle ragione? Basterebbe forse completare questo frammento d'opinione (non riassuntivo del saggio, beninteso) con qualche altra nostra definizione, per dare un'idea di quel che immodestamente pensiamo dell'autore: significativamente irrisolto, all'apparenza dinamico, argomentativamente statico, nella strumentazione retorica eccellente e nel sentire, cioè nell'aderenza intima, superlativo. Anche se il critico belga Raymond Detrez non ha mancato, recentemente, di sottolineare come il linguaggio della sua ultima produzione sia diventato ''(…) Più sobrio e austero, conferendo alla poesia delle incantatrici qualità salmodianti''.

        E ci scusi, Zajc, la superbia: qui volevasi solo ricordarlo. Magari come lui stesso avrebbe ricordato qualcuno che dopotutto gli stesse a cuore.

 

 

 
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