Questo articolo è stato scritto nel
2006, per il primo anniversario della morte del poeta.
Vento
giallo in un campo grigio
Il
furore neoespressionistico di Dane Zajc (1929 – 2005)
di Sergio Sozi
''Solo nell'annientamento
c'è pace e amore, / solo nell'annientamento c'è infinita fedeltà, / le cose
morte amano con la pace dell'eternità'' (da ''Essere una goccia'' – trad. Jolka Milič).
Quando si parla di un poeta
contemporaneo, in genere è quasi impossibile dire qualcosa di chiaro e netto:
quel poco di lucidità che resta all'oggetto del discorrere viene sempre
irrimediabilmente compromesso dalla confusione cerebrale di chi lo commenta.
Cercheremo dunque, a proposito del celebre poeta lubianese
scomparso il 20 ottobre dell'anno scorso, di evitare il chiacchiericcio che le
nostre (diaboliche) tentazioni omni-analitiche ci
proporrebbero, per cercare di rendere questo articolo qualcosa di limpido,
essenziale e possibilmente esente da paroloni usati a sproposito – infatti,
purtroppo, oggi, la moda della critica poetica resta sempre questa assurda
replica in peggio dell'opera originale.
Dane Zajc,
appunto, parla da sé, con la propria opera, e se non fosse che in Italia è
quasi sconosciuto, non servirebbe a nulla scriverne a riguardo. E se non fosse,
inoltre, che qualcosa di Zajc andrebbe chiarito più
per il sottoscritto che per il lettore di questo pezzo giornalistico, sarebbe
meglio semplicemente cercare di auspicare in Italia una (almeno tardiva)
pubblicazione di qualcosetta dei suoi quasi
cinquant'anni di poesie che nessuno, causa cecità editoriale, può leggere (la
prima raccolta, ''Požgana trava'' – ''Erba bruciata'' – è del 1958: a quella ne
seguiranno una quarantina d'altre) e chiudere qua.
Ma Dane
Zajc si ribella; sì: la sua tremenda sete di silenzio
non riesce tuttora a sopportare l'urto delle armate alfabetiche che lo
sedussero, nonostante egli, un giorno, non rintracciasse queste ultime verso la
fine di una nottata di febbrile scrittura: ''Dove sono
tutte le parole. / Chi le esumerà dall'humus delle tenebre / Quando sull'orlo
dell'oscurità / farà capolino come una rosea formichina / l'aurora.'' (Da ''Le dita del mattino'', trad. Cit.). Dunque, prima di
tornare al centrale nodo critico dell'intima collisione fra espressione e inespressione, credo che anche a noi verrà perdonato il
dispendio di qualche informazione suppletiva su questo importante autore,
studiato in Slovenia anche a scuola da lustri.
Dane Zajc nacque il 26 ottobre del 1929
nel paesino sloveno di Zgornja Javoršica, presso Moravče, e fu
collaboratore di molte fra le più importanti riviste culturali di quel Paese
(Beseda, Revija 57, Perspektive, Problemi, Nova revija), così conoscendo
intellettuali del calibro del poeta Boris A. Novak – oggi molto noto in diversi
Paesi – del pittore Jože Tisnikar e del poeta e traduttore Niko Grafenauer –
l'attuale direttore della Nova revija. Nel 1981 vinse il maggior premio
sloveno, quello intitolato a France Prešeren – il poeta nazionale sloveno
autore fra l'altro dell'Inno Nazionale. Visse sempre lavorando come
bibliotecario a Lubiana. Oltre alla produzione lirica (alla citata ''Požgana
trava'' del 1958 seguirono ''Jezik iz zemlje'' – ''Lingua di terra'' – del
1961, ''Ubijavci kač'' – ''Uccisori di serpenti'' – del 1968, ''Kepa
pepela'' – ''Grumo di cenere'' – del 1984 e tanti altri) non di minor interesse
sono le sue opere teatrali (i drammi lirici come ''Otroka reke'' – ''Figli del
fiume'' – del 1963; le drammatizzazioni poetiche di miti pubblicate fra la fine
degli anni '80 e la metà dei '90: ''Kalevala'', ''Medea'', ''La giovane Breda'')
e i libri di favole per bambini (ricordiamo ''Hiša'' – ''Casa'' – del 1990).
Ed ora, almeno in parte
assolti i doveri bio-bibliografici, torniamo al silenzio, che qui
intenderemo come mera assenza di formalizzazione estetico-letteraria
del pensiero e delle sensazioni – ovvero, in soldoni,
di tutto quanto la vita ci conceda di capire di essa.
Infatti, la lotta fra un
poeta e il suo personale silenzio sarebbe degna di un poema epico fiume, coi
suoi impercettibili movimenti, gli inganni reciproci, i temporeggiamenti e
l'invio di ipocrite ambasciate. Ma, fra i verbi di Zajc,
troppo sonori sono i – seppur lugubri – lucori delle tinte, per saper
soggiacere ad un qualsiasi silenzio… meglio mettere nel cuore dei colori
dell'iride un'essenza primordiale di tenebra piuttosto che rifiutarne in toto
la presenza: ''Occhi verdi tra gli alberi. / Occhi
giallastri nell'erba. / Occhi rossi tra i giunchi.''
(da ''Occhi invisibili'', trad. Cit.): sono gli occhi dei leoni che ''bevono il
chiaro di luna'' e che ''sulla nera tovaglia della notte'' banchetteranno con
ognuno di noi, alla fine della passeggiata. Pertanto il silenzio viene
comunque, nevvero? Chi crede di scansarlo è come se volesse evitare di
accettare almeno una parola dentro di sé nel corso dell'intero suo cammino esistenziale:
cose impossibili entrambe. Come impossibile è dire quel che
in verità si vorrebbe dire: bisogna accontentarsi di ''Una lingua che parla
parole d'argilla'' (da ''Grumo di cenere'', trad.cit.),
parole fantasmatiche per arlecchinesche macchie di colore:
il tutto mai veramente tangibile, mai diremmo catullianamente
carnale (''Odi et amo / Quare
id faciam fortasse requiris / Nescio sed fieri sentio et excrucior''…).
Ecco, bene (e scusatemi ora
per la stridente associazione con il Romano): colori privi di cuore umano,
quelli di Zajc, anzi, meglio, pervasi ovunque di
funerei sentori: ''Tu sei morto, dissero / le verdi
facce. Mille volte morto, / scandirono i lunghi denti giallognoli / nel
cimitero sotto le nude cosce della montagna. / E io andai avanti.'' (Da ''Incontro'', Trad. Cit.). Qui a parlargli sono le sue proprie ''facce morte'', quando egli le incontra, come
si incontrano le anime prave dantesche, lungo la propria strada. Autoritrattismo oltretombale un
po' compiaciuto ma anche lirismo puro. Cieco lirismo, mascherato da movimento
vitale e estremo nella follia immaginativa, sovrabbondante spesso, quasi
nauseante per l'affollamento di metafore e iperboli, e per l'astrattismo,
l'abuso simbolico generalizzato in quasi ogni pennellata. Ecco perché, a
ragione, si parla di Zajc come di un
neoespressionista. Potente ma stremato e stancante, aggiungeremmo noi.
Un poeta importante e vero,
ma anche indiscutibilmente pretenzioso, a tratti, quasi forzato; come in questi
versi, al contempo profondi, germanicamente romantici
ed esagerati, dove si descrive una donna affogata: ''Acqua.
Le ombre fuggono oltre gli occhi del fiume. / I bianchi fiori della spuma
cominciano a fiorire / sul nero volto del gorgo. / Migliaia di piccole ore si
diffondono nelle tue orecchie. / Le loro voci hanno le soffici zampette brune
dei ragni.'' (Da ''L'annegata'', trad. Cit.).
Mitteleuropa da Cripta dei Cappuccini viennese all'ennesima potenza, a farne un
bilancio un po' superficiale. O meglio: una decostruzione sistematica
dell'intero immaginario poetico e comune sloveno (e non solo) preso lemma per
lemma, come a voler ossessivamente addossare a qualsiasi espressione verbale
della propria cultura d'area le proprie irresolutezze.
Così sembra che pressoché tutta la lunga e affascinante opera
(sia linguistico-estetica che spiritual-concettuale) di questo autore ci appaia
alla luce di una sua, quasi onanistica, sofferta degustazione dell'assurdo e
dell'iperproduzione di significati, in un teatrino ove dominino la costante
lotta contro la paura della luce/vita, la mancanza assoluta di una qualsivoglia
Fede ultraterrena e, assieme, la brutale sensazione di dominio della Morte,
variamente trasfigurata ma sempre, quasi maniacalmente, presente e sovente
parlante: ''Dovrai ascoltarmi. / Perché io sono il ritmo. / Io sono la luce nel
cielo. / Una luce tenebrosa nel cielo della tua fuga.'' (Da ''I tamburi'',
trad. Cit.).
Una intelligenza fervida, esteticamente
molto meglio sfruttata, a nostro avviso, quando prende queste (pur atroci e
nichilistiche) forme: ''Un giorno le cose cambieranno i nomi, / allora la
pietra sarà odio, il vento orrore, / la strada sarà paura, gli uccelli ti
infiggeranno nella fronte / i pungenti chiodi delle loro voci, il fiume sarà
disperazione, / i tuoi oggetti saranno la tua colpa e i tuoi accusatori. / Il
mondo sarà distrutto. Il mondo sarà senza nome.'' (Da
''Non ci sei'', trad. Cit.).
In conclusione, almeno per
adesso, ripeteremo: ''La cosmologia di Zajc unisce l'idealismo disincantato della religiosità con
l'effettiva mancanza di risposte metafisiche'', esatte parole della critica
slovena Barbara Pogačnik, la quale conclude con
un suo ponderoso saggio il volume da cui abbiamo tratto le sovracitate
liriche (''Fuoco e cenere'', traduzione di Jolka Milič, postfazione di Barbara Pogačnik,
Slovene Writers' Association
– Slovene P.E.N., Lubiana 2004).
Come non darle ragione?
Basterebbe forse completare questo frammento d'opinione (non riassuntivo del
saggio, beninteso) con qualche altra nostra definizione, per dare un'idea di
quel che immodestamente pensiamo dell'autore: significativamente irrisolto,
all'apparenza dinamico, argomentativamente statico,
nella strumentazione retorica eccellente e nel sentire, cioè nell'aderenza
intima, superlativo. Anche se il critico belga Raymond Detrez
non ha mancato, recentemente, di sottolineare come il linguaggio della sua
ultima produzione sia diventato ''(…) Più sobrio e
austero, conferendo alla poesia delle incantatrici qualità salmodianti''.
E
ci scusi, Zajc, la superbia:
qui volevasi solo ricordarlo. Magari come lui stesso avrebbe ricordato qualcuno
che dopotutto gli stesse a cuore.