La vita di Irène Némirovsky di Olivier Philipponnat
Patrick Lienhardt, Adelphi
Paradossi e contraddizioni
nella vita di una grande scrittrice
Affascinante come un bel romanzo e rigoroso quanto deve esserlo un documentato
saggio, La vita di Irène Némirovsky
di Olivier Philipponnat e Patrick Lienhardt
(traduzione di Graziella Cillario, pp.516, euro 23) è
una nuova prova dell'impegno che Adelphi sta mettendo nel pubblicare non solo
l'opera omnia dell'autrice - a partire da Il ballo (2005), David Golden e La
moglie di don Giovanni (2006), Jezabel e Come le
mosche d'autunno (2007), Il calore del sangue e I cani e i lupi (2008) per
giungere a I doni della vita (2009) -, dopo il clamoroso successo di Suite francese
che nel 2005 divenne il caso letterario dell'anno, già dato alle stampe e
pluripremiato in Francia, riscoperto a mezzo secolo di distanza dalla sua
scrittura.
Se credevamo, dopo aver letto e recensito queste preziose opere, di conoscere
tutto della Némirovsky, dalla sua nascita a Kiev nel
1903, alla morte ad Auschwitz nel 1942, abbiamo dovuto ricrederci, tanto è
puntiglioso e accurato il percorso degli autori dentro il viaggio della sua
vita, perlustrando le pieghe più nascoste di un animo tanto complesso e
contraddittorio come quello dell'eccezionale romanziera. Tanto che persino la
“vediamo”, non solo per il ricco corredo fotografico inserito nel saggio, ma
anche e soprattutto per la descrizione fisica: «…giovane,
sottile, piccola, bruna, tipo spiccatamente ebraico, non bella. Gli occhi neri,
velati dalle palpebre pesanti,esprimono solo una sorta
di dolcezza maliziosa. I capelli tagliati corti, incollati alla testa, un po'
allungata, ne accentuano la piccolezza. Le labbra carnose si aprono in un sorriso
franco. I modi sono di un'eleganza disinvolta, frutto di un'educazione
impeccabile». Molto già sapevamo dell'avventura del manoscritto di David Golder – inviato anonimo nel 1929 all'editore Grasset – romanzo che diede la celebrità immediata alla
giovanissima autrice, con addirittura trasposizione cinematografica da parte di
Du Vivier e teatrale per la
regia di Nozière. E ritenevamo quasi storia trita la
rocambolesca riscoperta di Suite francese. E invece, no. Molto c'era ancora da
conoscere e sapere dell'anima duplice della scrittrice divisa tra l'origine
Russa (nazione che aveva dovuto abbandonare dopo la Rivoluzione d'Ottobre,
assistendo a pogrom, saccheggi e distruzioni) e l'adorazione per la Francia, sua nuova terra
d'elezione. Ebrea di nascita, nei suoi romanzi aveva stigmatizzato i difetti
del suo popolo, guadagnandosi la fama di antisemita. I temi forti della sua
scrittura vertono, con penna spesso impietosa, a una critica dura nei confronti
di Fanny, la bellissima madre, presa solo dagli aspetti fatui della vita e
dalla corsa fra le braccia dei suoi amanti. Nemmeno il padre è del tutto
risparmiato se lo vediamo nei panni del finanziere spietato David Golder.
L'esilio, il peso che gli ebrei danno al danaro, la passione, l'amore, la
vendetta, i sentimenti che abitano la sua scrittura ufficiale, nascono dai
minuziosi diari ritrovati che la figlia Dénise
(recentemente sentita nella trasmissione radiofonica Farehnait)
ha messo a disposizione dei saggisti Philipponnat e Lienhardt che abilmente ci conducono per mano dentro i
paradossi e le contraddizioni di un'eccelsa scrittrice, sfuggita adolescente
alla rivoluzione bolscevica e incappata poi, col marito Michel Epstein, dentro
le maglie tortuose della persecuzione nazista, nonostante si fosse convertita al
cattolicesimo nel 1939 (troppo tardi), nonostante fosse protetta dall'aver
scritto per testate di destra, addirittura approvata da Robert Brasillach.
Il pregio maggiore del saggio è quello di saperci regalare anche la
quotidianità dell'artista, la sua intelligente ironia, il suo amore materno, la
sua fedeltà al marito, non solo il suo prodigioso iter dentro il successo
letterario e mondano, sapendoci poi malinconicamente accompagnare fino al suo
ultimo, fatale viaggio verso il lager della morte, deplorando una Francia che –
dopo averla tanto osannata – non aveva voluto proteggerla. Stessa sorte ha
subito il marito. Solo le figlie si sono salvate e Dénise,
la maggiore, continua a tener alto il ricordo umano e letterario della madre.
Grazia Giordani